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L'ESPERIENZA SCHIZOFRENICA NELLA SUA DIMENSIONE PSICOPATOLOGICA E FENOMENOLOGICA

Eugenio Borgna

 

Servizio di Psichiatria della Azienda Ospedaliera "Maggiore della Carità" di Novara

 

LA SOGLIA

LA FENOMENOLOGIA COME ORIZZONTE DI COMPRENSIONE DELLA ESPERIENZA SCHIZOFRENICA

LE STRUTTURE PROFONDE COSTITUTIVE DELLA ESPERIENZA SCHIZOFRENICA

COME SI VIVE NELL'AUTRE MONDE

LA FENOMENOLOGIA DELLA VITA EMOZIONALE SCHIZOFRENICA

L'ANGOSCIA COME STRUTTURA PORTANTE DELLA ESPERIENZA DELIRANTE SCHIZOFRENICA

LE CATEGORIE FENOMENOLOGICHE DELLA DISTANZA E DELLA VICINANZA VISSUTE

QUALCHE CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA

 

L'angoscia come struttura portante della esperienza delirante schizofrenica

Gli straordinari lavori fenomenologici (4) (5) (6) di Ludwig Binswanger ci consentono di constatare come eventi della vita, contrassegnati dalla presenza di una angoscia sconvolgente, possano trascinare con sé la insorgenza e la evoluzione di una esperienza delirante che si costituisce come matrice radicale della esistenza psicotica (schizofrenica).

Non è possibile non essere, direi, affascinati e desolati nel leggere (nel ri-leggere) le parole con cui Suzanne Urban (una delle magistrali storie cliniche di schizofrenie illustrate da Binswanger) descrive la scena originaria (la visita medica fatta al marito) dalla quale si avvia, trainata da una angoscia incandescente, la metamorfosi psicotica della sua esistenza. L'elemento tematico radicale nella storia del delirio di Suzanne Urban si ha quando descrive il gesto disperato del medico che, guardandola e invitandola a tacere, accenna alla malattia tumorale del marito e la trascina in una condizione di sgomento pietrificato. L'allusione e il gesto del medico hanno in sé qualcosa di indicibile e, insieme, di spaventoso; e da questa scena frantumata nel suo senso nasce il delirio. Nella ulteriore evoluzione della storia clinica (della storia della vita) di Suzanne Urban l'esperienza del terrificante, legata inizialmente al tema della malattia tumorale del marito e della visita medica, a cui il marito è sottoposto, dilaga poi ad altri eventi e ad altre esperienze di vita: nel contesto di uno stato d'animo impregnato di orrore assoluto e di una atmosfera straziante di allusioni e di autoriferimenti generalizzati.

Se fosse stata descritta e analizzata con le abituali categorie cliniche della psichiatria (ovviamente indispensabili in altre aree di ricerca che non siano quelle psicopatologiche e psicoterapeutiche), una storia clinica, come questa di Suzanne Urban, si sarebbe destituita della sua radicalità e della sua profondità esistenziale, dei suoi significati e dei suoi orizzonti di senso; trasformandosi, e lacerandosi, sulla linea di un semplice "caso" clinico e non divenendo mai una storia emblematica di una vita.

Le categorie fenomenologiche ed ermeneutiche del discorso binswangeriano consegnano, così, alla esperienza schizofrenica una sua dignità umana ed esistenziale; e ci fanno sentire Suzanne Urban come portatrice di un destino a cui non siamo estranei.

Nella esperienza schizofrenica si ha a che fare, come dice anche Alfred Storch (24), con l'angoscia più dilaniante che si conosca: con l'esperienza non di una semplice minaccia, che incomba sull'orizzonte di vita, ma con l'esperienza di una frantumazione inarrestabile di ogni identità personale. L'angoscia si delinea, così, come rebound davanti ad una nuova forma di esistenza segnata, e sfregiata, da una irrealtà indicibile e da uno spaesamento (da una Entfremdung) lacerante.

Come si manifesta l'angoscia in una schizofrenia, quali contenuti essa assuma e quali metamorfosi, riemerge (anche) da una altra delle splendide analisi fenomenologiche di Ludwig Binswanger: quella (5) su Ellen West divorata, e annientata, dalla angoscia. Alcuni brevi frammenti, stralciati dalle autodescrizioni di Ellen West, testimoniano degli abissi di angoscia in cui la paziente è stata immersa: falciata, infine, dal richiamo inarrestabile della morte volontaria.

Queste le sue parole: "Mi dibatto nella mia angoscia mortale, e devo passare mille ore spaventose. Ogni giorno mi sembra che abbia mille ore, e io sono spesso così stanca di tutto questo pensare spasmodico che nulla più mi auguro se non la morte"; e ancora: "Questo è l'orribile della mia vita: essa è riempita di angoscia. Angoscia dinanzi al mangiare, angoscia dinanzi alla fame, angoscia dinanzi alla angoscia. Solo la morte può redimermi dall'angoscia. Ogni giorno è come un camminare su di una cresta che dia le vertigini: come un eterno bilanciarsi sugli scogli" (5).

Dal diario personale di Ellen West vorrei infine stralciare queste parole ancora più dolorose: "Sono prigioniera: prigioniera in una rete dalla quale non posso liberarmi. Sono prigioniera in me stessa; mi invischio sempre di più, e ogni giorno è una nuova e inutile lotta: le maglie si chiudono ancora più strettamente. Sono in Siberia, e il mio cuore è imprigionato nei ghiacciai: intorno a me ci sono solitudine e gelo" (5).

Il tumulto lacerante della vita emozionale, il suo sprofondare nel baratro della inquietudine e dell'angoscia, dimostra ancora una volta come nel contesto di ogni esistenza schizofrenica l'alta tensione emozionale sia presente con le sue torce fiammeggianti e dilanianti; e di esse cogliamo i bagliori e la infinita sofferenza. Modi di vivere, e di morire, modi di essere, che sfuggono ad ogni psichiatria che non abbia a integrare i modelli conoscitivi clinici con quelli psicopatologici e fenomenologici.

Vorrei ora ricordare i modi con cui Agnese, una paziente che è stata degente nel Servizio di Psichiatria dell'Ospedale Maggiore di Novara, ha rivissuta la sua esperienza schizofrenica sulla scia di una angoscia non dissimile da quella di Suzanne Urban e di Ellen West. Le esperienze deliranti e allucinatorie nascevano dall'angoscia: da una angoscia che sommergeva ogni dimensione emozionale della paziente precipitandola in una vertigine di sofferenza e consegnandola ad una attonita stupefazione. I torrenti di angoscia e di smarrimento prosciugavano il volto di Agnese e ne riempivano gli sguardi e i gesti: dilaniati da una disperazione che non aveva lacrime, che non poteva avere lacrime, che sono ancora un segno di vita e di tristezza vitale.

Agnese non si ri-conosceva negli specchi che rimandavano l'immagine disfatta del suo volto e del suo corpo; e nemmeno riconosceva la fisionomia del paesaggio e del mondo in cui viveva. Assediata dalla sofferenza, e sprofondata nella solitudine, in Agnese non si spegneva nondimeno la nostalgia vaga di un incontro e di un contatto interpersonale: difficile, ma non impossibile, anche quando l'angoscia sembrava dilagare inarrestabile.

Ogni volto ha un tempo interiore che lo segna: non il tempo dell'orologio, il tempo della clessidra, certo, ma il tempo vissuto, il tempo soggettivo. In alcune esperienze psicotiche, come in questa di Agnese, lo sguardo non crea più relazione, non crea più trascendenza in senso husserliano, e non è più portatore di intersoggettività. Il destino (il senso) dello scacco psicotico è contrassegnato da questo sguardo e da questo volto che si frantumano nella loro apertura all'altro-da-sé; benché l'ombra di una luce fuggitiva si intraveda, effimera e frastagliata, al di là della comunicazione spezzata ma non perduta.

L'angoscia di Agnese è inesorabilmente implicata nella insorgenza e nello svolgimento tematico delle sue esperienze deliranti e allucinatorie.

Dal fluire delle esperienze vissute dalla paziente: "E' stato un terribile equivoco: mi hanno portata qui al posto di un'altra e ora sono prigioniera. Sono in una situazione insostenibile. Temo che mia madre mi lasci, e non voglio finire da sola. Sono cose assurde quelle che stanno accadendo. E' tutto organizzato contro di me. Forse sono preda dei demoni. Ha presente i Demoni di Dostoevskij? Mi sento staccata dal mondo. Non so proprio cosa stia succedendo. Ho paura di non potere più tornare alla mia vita. Temo di non riuscire più a insegnare e a fare le cose che facevo. Ho paura di finire in prigione e poi mi sento stanca e senza energia. Sento tante opposizioni nella testa: sento delle voci: e tutti mi guardano, parlano di me, tutti mi scherzano. Dove sono? Non so più dove sono; ma forse sono in ospedale. Questo è un gioco. Cosa sto dicendo? E' un esame questo? Spegnete le luci: chi le ha accese?".

Come testimoniano le sue parole infrante e lacerate, le alte maree dell'angoscia non consentivano ad Agnese se non questo linguaggio singhiozzante e queste percezioni, di sé e del mondo, frantumate e allusive. La rivedo, ancora oggi, nell'alternanza vertiginosa di una parola che taceva (ghiacciata e ardente) con una parola che gridava: che gridava anche nel silenzio.

Dall'angoscia, dal terrore in cui annegava, rinascevano (certo) esperienze allucinatorie: sono "voci" che non davano tregua, ed erano sempre presenti nel suo orizzonte di esperienza: "voci" femminili e maschili che si succedevano in sequenze terrificanti e sfuggenti, enigmatiche e inafferrabili. Lo spazio vissuto ne era riempito: lo spazio vissuto non è lo spazio geometrico, ovviamente (4).

Il tema dell'angoscia (dunque) ha sigillato la storia della vita di Agnese, come quella di Suzanne Urban e di Ellen West, come esperienza emozionale e come esperienza emozionale implicata nelle esperienze deliranti e in quelle allucinatorie. Se non si utilizza il linguaggio della psicopatologia e quello della fenomenologia, che non è un linguaggio astratto e decadente (ma radicato nei contesti umani e psicologici delle esperienze psicopatologiche), non è possibile cogliere la realtà emozionale (incandescente) di una esperienza schizofrenica, e nemmeno il suo orizzonte di senso e la sua disperata richiesta di aiuto.

Come ha scritto a suo tempo (23) Kurt Schneider, solo se la psichiatria si sottrae al linguaggio tecnico (gergale), che nella sua apparente chiarezza è invece oscurissimo e alienante, essa può cogliere le dimensioni autentiche e radicali delle esperienze psicopatologiche e di quelle psicotiche in particolare: di quelle schizofreniche e di quelle depressive (e maniacali). Solo se, insomma, la psichiatria si avvicina al mistero profondo della sofferenza psichica con un atteggiamento di radicale intersoggettività e con un linguaggio nutrito di partecipazione umana (di intuizione e di immedesimazione), essa recupera i valori ultimi e significativi delle esperienze estreme della vita: come sono quelle psicotiche.



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