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PSICOPATOLOGIA E CRIMINALITA'.
L'ITINERARIO ITALIANO

Luciano Bonuzzi

 

INTRODUZIONE

UNA BREVE PREMESSA

LNOTANE RADICI

DALL'ETÀ DI MEZZO AI TEMPI MODERNI

VERSO L'ILLUMINISMO

FERMENTI DOTTRINALI ALLE ORIGINI DELL'ETÀ CONTEMPORANEA

CRIMINALITÀ E ORGANIZZAZIONE ANATOMICA

APPROCCI STORICISTI

L'ANTROPOLOGIA CRIMINALE

ACCANTO A LOMBROSO

CONTRIBUTI CLINICI ALLA CRIMINOLOGIA

NUOVI ORIZZONTI

UN TENTATIVO DI SINTESI

BIBLIOGRAFIA

 

Lontane radici

Se è vero, come nota Exner (3), che lo stato dell'uomo, lacerato dalla criminalità, non è mai un paradiso, si deve nel contempo prendere atto che anche nel Paradiso terrestre affiorano tempestivamente quelle forme di criminalità con cui si misura incessantemente ogni modello di stato.

Nell'Eden viene quanto prima eclissata ogni paterna familiarità: con un solo colpo vengono distrutti la sicurezza dell'abitare ed il rispetto dell'ordinamento gerarchico che la garantiva. Gli è che una trasgressione alimentare, con l'appropriazione indebita di un frutto proibito, fa precipitare i lontani genitori dell'uomo - Eva ed Adamo - nel più radicale dis-ordine: hanno, infatti, ceduto alle argomentazioni seduttive del serpente, lo spirito del male, il diavolo stesso (Gen. 3). Scacciati dall'Eden, Eva e Adamo scoprono improvvisamente di essere nudi, mentre esordisce il tormento del desiderio sessuale. Ben presto Caino, il primo dei figli, sopprimerà poi, roso dall'invidia, la vita del fratello: sarà condannato a vagare per la terra, piegato dal peso insopportabile della colpa (Gen. 4). L'angoscia del desiderio e la malinconia radicata nella colpa sostanziano ormai l'esistenza.

L'uomo, un viandante tragico esposto all'incertezza del futuro e alle fatiche del presente, vaga estraneo ad ogni familiare sicurezza fino a quando il Signore, ricorrendo allo strumento apodittico della scrittura, elargisce norme puntuali ed articolate per evitare il dis-ordine della criminalità ed allontanare la sofferenza psichica.

All'orizzonte della storia, mentre scorre il tempo di Dio, affiorano allora tre montagne: il Sinai, la Montagna e il Golgota. Queste montagne costituiscono i punti fermi che scandiscono il rapporto fra l'uomo e Dio; un rapporto oscillante fra scrittura ed oralità, fra rigore e perdono. Sul Sinai, la vetta arida e desertica della legge, vengono dati i Comandamenti (Es. 20) scritti, scolpiti sulla pietra per ben due volte proprio per sottrarre gli uomini al rischio dell'idolatria (Es. 32 e 34). Si tratta dei dieci Comandamenti fondati nella figura trascendente e illuminante del Padre celeste: contengono l'invito a non uccidere, a non rubare, a non commettere adulterio. La cogenza dei Comandamenti è poi garantita dalla legge del taglione: vita per vita, occhio per occhio (Es. 21). Ma sul Sinai il Signore, mentre svela la propria terribilità, indica agli uomini anche i momenti essenziali dei riti religiosi che testimoniano l'ordine gerarchico e garantiscono l'equilibrio interiore all'insegna di una religiosità ricca ed autentica che protegge dagli arifici del maligno e non ha nulla da spartire con i sortilegi ingannevoli dei maghi del Faraone descritti nell'Esodo. Nella Montagna - la montagna per eccellenza, accanto al lago di Tiberiade - il Salvatore trascenderà poi l'angustia della norma scritta per dire parole di sconcertante tenerezza che ravvisano nella povertà e nella stessa follia vere occasioni di predilezione (Mat. 5). Nel Golgota, la più tragica delle montagne, il Salvatore, infine, testimonia agli uomini la possibilità estrema del riscatto e del perdono: perdona ad un ladrone (Luca 23, 33-43).

E' senza dubbio difficile tentare di sintetizzare in pochi cenni il senso di libri sapienziali dal vasto respiro come quelli del Vecchio e del Nuovo Testamento. Il dis-ordine mentale e sociale, quali rischi immanenti alla condizione umana, sono comunque ben delineati quali conseguenze tragiche della disobbedienza alla parola di Dio per ascoltare la voce di Satana. La legge e il perdono divini possono però salvare l'uomo dai pericoli della storia se si abbandona con diligente fiducia ai riti religiosi senza farsi fuorviare dagli inganni della magia.

Nel mondo antico i pericoli connessi alla pratica della magia sono, del resto, ben additati anche nel codice babilonese di Hammurabi, un codice di procedura penale fra i più antichi (4).

La spiritualità giudaica e cristiana costituisce, come è noto, un grande motivo della tradizione occidentale che trova però suggestioni e spinte altrettanto forti nell'antichità classica. Quando poi si parla di antichità classica è al mondo greco a cui si deve rivolgere uno sguardo privilegiato.

La mitologia, che precede ed anticipa la elaborazione delle storie scritte testimonia in forma esemplare il sentire degli antichi in merito alla problematicità della vita, intessuta di aggressività e di folli trasgressioni. Le figure di Bellerofonte, di Eracle e di Aiace rivestono al proposito un interesse paradigmatico.

Bellerofonte, l'uccisore di Bellero, ha una biografia decisamente tormentata dove le difficoltà sembrano favorite proprio dalla straordinaria disponibilità di un cavallo alato, il celebre Pegaso. Da Pegaso, librato in aria, fa infatti precipitare in mare la moglie di Preto che aveva cercato di sedurlo. E da Pegaso sarà disarcionato lui stesso quando vuole penetrare nel cielo degli dei, dubitando della loro esistenza: precipiterà su una pianura in Asia Minore per vagare, preda della più grigia malinconia, lamentando la triste sorte dei mortali (5).

Assai dolente è anche la storia di Eracle che cresce in una famiglia piuttosto problematica. Eracle è figlio di una madre mortale e di Zeus, il padre degli dei, che notoriamente muove in un contesto sentimentale piuttosto instabile. Il giovane Eracle, in effetti, quando è ancora alle prese con l'apprendimento dell'alfabeto, forse segnato da precoci carenze affettive, sfascia una seggiola sul capo del maestro. Adulto si abbandona ad una intraprendenza sessuale a dir poco sfrenata senza evitare qualche bizzarria come quando, corteggiando Onfale dai sandali d'oro, scambia, senza pudore alcuno, le vesti con la propria innamorata. Ma Eracle diventa celebre soprattutto per aver compiuto formidabili fatiche, vere lotte contro la morte, che comportano la ripetuta intrusione in ordinamenti che non gli sono propri: entra nel regno di Artemide e raggiunge, addirittura, il giardino delle Esperidi dove si impadronisce delle mele d'oro, proprietà degli dei. L'eroe si abbandona anche all'omicidio dei figli, ma i narratori spiegano che era stato travolto dalla pazzia (6).

Aiace, infine, è un'altra grande vittima della follia come si può leggere nella tragedia di Sofocle. Aiace, dopo la morte di Achille, aspira alle sue armi; ne ha diritto in quanto è il più forte fra i guerrieri che assediano Troia. Ma l'assemblea, a maggioranza di voti, le assegna invece ad Odisseo che aveva saputo dire parole melate. In questo passaggio dalla società guerriera a quella democratica il rango di Aiace risulta fulmineamente distrutto. L'eroe, che vive in una tenda accanto alle navi al limite estremo dello spazio abitato dai Greci, è così travolto dalla pazzia: non accetta il verdetto e per vendicarsi uccide un branco di animali scambiandoli per gli Atridi. La dea Atena gli aveva oscurata la corretta visione delle cose. Quando poi, in un momento estremo di lucidità, si rende conto di aver mancato il bersaglio la vergogna è intollerabile: si rivolge alle Erinni, le dee della vendetta, e si suicida. Gli Atridi chiedono una punizione esemplare contro il cadavere per condannare, come nota Starobinski (7), "il disprezzo dell'autorità"; ma ancora una volta interviene Odisseo che, "in nome della fragilità umana", pacifica gli animi permettendo il cerimoniale della sepoltura.

La pazzia, in breve, spinge Bellerofonte ad un comportamento trasgressivo e criminale contro gli dei, scaglia poi Eracle contro la famiglia ed Aiace, infine, contro lo stato. Con la vicenda tragica di Aiace, ad ogni modo, si dischiudono nuove prospettive in quanto al ruolo arcaico della forza è subentrato il potere decisionale dell'assemblea. In effetti, grandi cambiamenti avvengono in Grecia nell'età della tragedia, uno spettacolo che svela allo sguardo le trame di violenza e di follia inaudite che regolano la vita fino a quando, sulla solidarietà del sangue che coagula il clan, si impongono le norme della città e l'Areopago, il tribunale voluto dalla razionalità di Atena, dà regole misurate per scandire la convivenza civile.

Con Platone e con la nascita del pensiero scientifico il tema tragico del rapporto tra violenza e follia suscita nuovi problemi e trova nuove interpretazioni.

Con Platone la tragedia del crimine e quella della follia investono ormai l'ambito della medicina: un'arte immaginata al servizio dello stato che ha bisogno di buoni cittadini e non di cronici da riabilitare, inguaribilmente raccolti su banali angustie e preoccupazioni somatiche. Platone, assai coerentemente, auspica pertanto la presenza di medici che collaborino con il potere giudiziario al fine di curare "i cittadini ben disposti per natura, nell'ordine fisico, come pure nell'ordine spirituale. Quanti invece non hanno queste disposizioni, se sono difettosi nell'ordine fisico, li lasceranno morire; quelli mal congegnati nell'ordine dello spirito, e perciò non suscettivi di rimedio, penseranno i giudici stessi a ucciderli" (8). Non vi è insomma alcuna speranza sul possibile ricupero del criminale vero e proprio, assimilato ai malati inguaribili.

La medicina fondata nelle categorie scientifiche dell'umoralismo, deve ormai affrontare, fra tante questioni, anche lo scabroso capitolo dei disturbi psichici. Ippocrate per diagnosticare la malinconia si richiama al criterio temporale, alla durata della tristezza (Aforismi, VI, 23). Ma negli scritti ippocratici per spiegare le ragioni della pazzia, si parla anche del possibile insulto della bile nera sul cervello (9). L'Autore pseudoaristotelico dei Problemi (XXX,1) non ha più dubbi: è la bile nera a provocare la pazzia, anche quella di Bellerofonte, di Eracle e di Aiace. Allo spirito della tragedia è così subentrato lo sguardo distaccato del naturalismo scientifico e della pratica medica. Galeno, legando il destino dell'anima a quello del corpo, farà poi del medico il vero esperto di psicopatologia: un tecnico che, favorendo il buon temperamento del corpo, può contribuire al controllo delle passioni (10). Galeno, ben consapevole che l'irrazionalità può assumere la forma di una "leggera pazzia" (11), è in polemica con gli stoici che, scotomizzando la malattia, danno invece rilievo al vissuto personale. Il conflitto con gli stoici, che avviene sul terreno del rapporto fra malattia e virtù, investe l'ambito delle rispettive competenze del medico e del filosofo.

Se nel mondo greco matura il sapere scientifico, in quello romano matura il diritto; qui si avverte la diversità del malato di mente di cui la legge deve tener conto. Fin dalle XII tavole (verso il 450 a.C.) il malato di mente è oggetto di cura e si trova pertanto in una posizione particolare di fronte alla legge (12). Nei Digesta Iustiniani Augusti (13) l'impubes e il furiosus sono poi assimilati e non rispondono di responsabilità gravi (14).

Quando la classicità volge al tramonto ed inizia l'età di mezzo il diritto romano diventa il diritto della Chiesa, nel contempo il sapere medico resta ancorato alla pagina galenica che propone una interpretazione naturalistica degli abnormi psichici. La vita, d'altra parte, trova la pienezza del senso nel messaggio cristiano e, mentre all'interesse classico per la salute subentra l'ansia per la salvezza, si impongono forti preoccupazioni di fronte a particolari comportamenti trasgressivi come la magia o l'eresia che possono distruggere l'ordinamento sociale ed oscurare la via della salvezza. In questa scollatura fra aspirazioni ideali e forme del sapere si insinua la mano del demonio che, con il passare dei secoli, imporrà sottili questioni diagnostiche per discriminare l'ambito della malattia e quello della colpa.



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