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PSICOPATOLOGIA E CRIMINALITA'.
L'ITINERARIO ITALIANO

Luciano Bonuzzi

 

INTRODUZIONE

UNA BREVE PREMESSA

LNOTANE RADICI

DALLíETÀ DI MEZZO AI TEMPI MODERNI

VERSO LíILLUMINISMO

FREMENTI DOTTRINALI ALLE ORIGINI DELLíETÀ CONTEMPORANEA

CRIMINALITÀ E ORGANIZZAZIONE ANATOMICA

APPROCCI STORICISTI

LíANTROPOLOGIA CRIMINALE

ACCANTO A LOMBROSO

CONTRIBUTI CLINICI ALLA CRIMINOLOGIA

NOUVI ORIZZONTI

UN TENTATIVO DI SINTESI

BIBLIOGRAFIA

 

Nuovi orizzonti

Far gli anni í50 e í60 la psicopatologia italiana si rinnova per molteplici ragioni. La divulgazione della psicopatologia tedesca, il diffuso interesse per la psicoanalisi e per la fenomenologia, i nuovi approcci sociologici costituiscono, nellíinsieme, il fascio dei motivi che scompone il sapere psichiatrico tradizionale proponendo nuove soluzioni che fatalmente investono la criminologia.

Per quanto riguarda la diffusione della psicopatologia e della criminologia tedesche vanno ricordate le traduzioni della Psicopatologia clinica di Kurt Schneider del 1954, della Psicopatologia generale di Karl Jaspers del 1964 e del Trattato di criminologia comparata di Hermann Mannheim del 1975.

Schneider, teorizzando con rigore che le personalità psicopatiche non costituiscono una diagnosi patologica e non vanno intese come malattie ma come tipi umani descrivibili in maniera asistematica, prende le distanze dalla biologia e dal corpo per mettere a fuoco alcune modalità díesistenza che nelle personalità esplosive sono connotate dalla violenza, mentre in quelle fredde svelano la brutale crudeltà del criminale incorreggibile.

Se la descrizione schneideriana delle personalità psicopatiche offre qualche soccorso diretto alla criminologia, il contributo di Jaspers è invece eminentemente indiretto, legato ad un nuovo modo di intendere la psicopatologia come disciplina metodologicamente autonoma rispetto alla tradizionale organizzazione del sapere e della ricerca in medicina. Anche Jaspers, ad ogni modo, accenna alle condotte antisociali per ricordare che, in questo ambito, fra i delinquenti prevalgono quelli che presentano costituzioni anormali, rispetto a quanti risultano invece affetti da processi patologici (177). Fra psichiatria e criminologia è pertanto opportuno operare qualche distinzione empirica di campo.

Per venire, infine, al Trattato di criminologia comparata di Mannheim (178), va subito chiarito che il saggio non riguarda propriamente la psicopatologia ma la criminologia nel suo insieme. Propone poi, come avverte il titolo, una comparazione di informazioni che interessano non solo la cultura tedesca ma quella occidentale nel suo insieme. Mannheim, del resto, insegna a Berlino fino al í33 quando ripara a Londra dove il contatto con la cultura anglosassone diventa quotidiano. Il trattato, che Vassalli raccomanda come auspicabile traguardo anche per la letteratura criminologica italiana, permette di fare il punto sui contenuti della disciplina e sui problemi che si vanno dibattendo negli ultimi anni. Per quanto interessa il rapporto fra psicopatologia e criminalità líautore non elabora una personale teoria del delinquente ma descrive il rischio che, nella genesi del crimine, può essere connesso ai vari disturbi psichici. Piuttosto, viene avvertita líesigenza forte di conoscere la psicologia del delinquente normale; una questione davvero anodina perché conoscere la psicologia del delinquente normale vorrebbe dire conoscere líuomo. Di indubbio interesse, in ogni caso, sono i capitoli dedicati alla moderna sociologia del crimine. Sono ormai lontani gli anni in cui il giovane Lombroso osservando una società rozza ed arcaica poteva descrivere la criminalità del sangue con attori folli e violenti, spesso tratteggiati in modo da realizzare una sorta di estetica del brutto radicato fin nelle anomalie indelebili dellíapparato scheletrico. Ormai urge líetà della criminalità dai colletti bianchi. Il criminale dal colletto bianco, che approfitta della propria posizione sociale e lavorativa, deve comunque avere una lucidità ed una capacità operativa che per lo più sono estranee a chi è portatore di un processo psicopatologico, ma non è detto che non siano presenti difficoltà psicologiche anche in queste nuove figure di delinquenti.

In realtà lo scenario del delitto è mutato dovunque. Sono sorte nuove forme di criminalità e nuove teorie per interpretare il delitto. Ed anche la psicopatologia si è rinnovata. Nella cultura italiana, in particolare, il pensiero di Schneider e di Jaspers ha scosso la psichiatria invitando a prendere qualche distanza dal sostanzialismo neurologico tradizionale. Nel contempo un impulso al rinnovamento è stato dato dalla psicoanalisi e dalla fenomenologia.

La psicoanalisi, tuttavia, pur avendo aperto nuovi orizzonti non sembra aver esercitato, almeno in Italia, una reale ed incisiva influenza nellíermeneutica della criminalità. Freud peraltro, fin dal 1906, aveva tenuto una conferenza nella facoltà giuridica di Vienna per illustrare il possibile rapporto, in ambito sia diagnostico che terapeutico, fra psicoanalisi e criminologia (179); in seguito si era anche occupato dei delinquenti per senso di colpa (180). Le riflessioni sulla colpa sono però abbastanza estranee alla tradizione speculativa laica italiana. In merito al modello psicoanalitico aveva poi espresso ampie perplessità Tanzi, ed anche Bianchi non aveva risparmiato chiare critiche velate di ironia. Non si dimentichi, díaltra parte, che la cultura criminologica italiana si mantiene ambiguamente legata al pensiero di Lombroso anche quando intende prenderne le distanze. E fra Freud e Lombroso, come avverte Mannheim (181), le differenze sono sostanziali. Per Lombroso contano i fattori congeniti; Freud valorizza invece le esperienze vissute. Per Lombroso fra il delinquente e gli altri esseri umani vi è uno scarto; per Freud tutti gli uomini nascono con istinti immorali. Freud riconosce poi nello sviluppo della personalità varie fasi la cui importanza viene distinta da quanto spetta ai fattori costituzionali ed ambientali. Fra Freud e Lombroso il solco metodologico è innegabilmente ampio nonostante i comuni interessi antropologici e la comune passione per le teorie evoluzioniste. Ma líantropologia lombrosiana è fondata sullíantropometria, mentre Freud mutua da Darwin líimmagine dellíorda primitiva dominata da un padre dispotico che domina tutte le donne fino a quando i figli si ribellano e lo uccidono con conseguente senso di colpa ed autonegazione delle donne liberate. Il parricidio e il tabù dellíincesto si trovano così alla base dellíorganizzazione sociale.

Più evidente, negli orientamenti della psicopatologia criminologica, è influenza della fenomenologia rispetto a quella sotterranea esercitata dalla psicoanalisi. La fenomenologia invitando a riflettere sui grandi temi della vita e sullíintenzionalità dellíesistenza umana permette di cogliere nuovi aspetti del mondo criminale. Un penetrante saggio di Semerari e Citterio, arricchito da alcune pagine di Liggeri sulla pericolosità, testimonia líattenzione che, nella criminologia italiana, è stata riservata al pensiero di fenomenologi come Heidegger e Zutt. Si tratta di "comprendere líatto criminale come portatore di senso, come atto di presenza che si inserisce in una forma di esistenza... esprimendo a modo suo, líinsopprimibile necessità di crearsi un mondo" (182). La paura, come smarrimento innanzi ad una presenza minacciosa, è il vissuto che per lo più sottende la distruzione criminosa di ogni ordinamento dellíabitare e del rango che Zutt indica come riferimenti fondamentali per un rapporto di familiarità e di fiducia con il mondo della vita (183).

Con líapproccio fenomenologico il corpo-natura viene posto fra parentesi nellíintento di cogliere invece il dispiegarsi nel mondo del corpo-vissuto. Anche la sociologia, per altro verso, prende le distanze dalla naturalità del corpo per coinvolgere, con un ampio gioco di rimandi, la società tutta nellíinterpretazione della malattia mentale e della devianza.

Del resto, fra gli anni í60 e í80, mentre la psicopatologia nel suo insieme è ormai altamente problematizzata, muta líassetto istituzionale della psichiatria con inevitabili conseguenze concrete nel confronto con la criminalità. Una nuova normativa psichiatrica del maggio í78, recepita poi nella legge 833 di riforma sanitaria dello stesso anno, abolisce infatti il riferimento alla pericolosità per il ricovero ospedaliero dei malati di mente disattivando, dopo quasi un secolo, il manicomio che viene irrimediabilmente contestato quale struttura segregante e non terapeutica.

Basaglia, i cui primi contributi scientifici sono dedicati alla psichiatria fenomenologica, è líideologo di punta della contestazione manicomiale allíinsegna di un esplicito impegno sociologico a forte mordente politico. Basaglia, in effetti, nel rifiuto del carcere e del manicomio, che reputa istituti per poveri, esprime grande preoccupazione per il destino del malato che, una volta ospedalizzato sulla base di una presunta pericolosità, si trova di fatto internato "per espiare una colpa di cui non conosce gli estremi e la condanna, né la durata dellíespiazione". "La delinquenza o la malattia" - avverte Basaglia - "sono contraddizioni dellíuomo, ma sono anche un prodotto sociale, e non si può farne pagare le conseguenze - sotto coperture scientifiche diverse - a chi ne è colpito come se si trattasse sempre e solo di una colpa individuale". Né si deve ricorrere allíalibi della delinquenza e della psicopatia per emarginare, nel carcere o nel manicomio, chi intralcia il ciclo produttivo in un mondo, culturalmente ambiguo e compromesso, dove le stesse "perizie psichiatriche non sono che uno strumento che consente il passaggio da un terreno allíaltro" (184); Basaglia, che non nega líevidenza alla malattia mentale, auspica una nuova tolleranza sociale che, senza istituzioni segreganti e senza líequivoca compiacenza degli psichiatri, permetta un rinnovato approccio al malato di mente ed al deviante.

La prospettiva sociologica che sottende líimpegno organizzativo ed etico di Basaglia suggerisce di sollevare dal carico della esclusiva responsabilità personale malati e devianti proprio come aveva voluto Lombroso. Ma mentre la deresponsabilizzazione lombrosiana era fondata su riduttive congetture bioantropologiche, le recenti concezioni deresponsabilizzanti sono fondate invece sul rimando sociologico. Bisognerebbe cambiare la famiglia, la società e la fabbrica perché il mondo della vita fosse più vivibile per tutti.

Fornari comunque mette in guardia dalle teorie unifattoriali, sia biologiche che sociologiche, in quanto negano "dignità allíautore di reato, quando lo descrivono passivo destinatario dello stigma di volta in volta ritenuto generatore di criminalità" (185). Appare invece auspicabile una rivalutazione della persona, soggettivamente intesa, con la sua capacità e responsabilità.

Negli ultimi anni, del resto, molte congetture della psicopatologia criminologica tradizionale risultano oscurate. In particolare, avverte Fornari, è stato dimostrato che in riferimento alle condotte delittuose i malati di mente non superano il resto della popolazione, che non esiste una equivalenza fra malattia mentale e pericolosità, che la pericolosità non è ben prevedibile (186).

Ma se, da una parte, la psicopatologia deve mettere in discussione il proprio statuto, si deve nel contempo riconoscere che anche il contesto sociale e culturale del crimine è mutato. In una società che nellíinsieme sembra aver smarrito le proprie radici, soprattutto la famiglia si rivela sempre più disgregata mentre, nel volgere breve di pochi anni, líuomo della strada scopre, con improvviso turbamento, la latitanza etica dello stato e coglie con chiara evidenza quanto fosse capillarmente diffuso, e forse condiviso, il codice della corruzione che non ha più nulla da spartire con le forme pionieristiche, e più circoscritte, della criminalità dai colletti bianchi del primo ë900. Si allude agli innumerevoli casi di corruzione politica, imprenditoriale, assistenziale etc. segnalati dalla stampa negli ultimi anni.

Questi casi non sono peraltro del tutto esenti da qualche rimando alla sofferenza psichica (187) che sembra però essenzialmente secondaria alla presa di coscienza del crimine perpetrato, configurando una sorta di percezione della colpa, di depressione reattiva, che apre pertanto qualche spiraglio alla possibilità del riscatto. Non si può comunque dire che questi nuovi e un poí grigi protagonisti del dis-ordine abbiano quei tratti di bellezza somatica che Lombroso amava riconoscere a qualche delinquente politico, ad anarchici come Caserio dove líarmonia delle forme anatomiche era impeccabile se si esclude la banale presenza di un neo ad un braccio (188).

La società postmoderna, ad ogni modo, è ben lungi dallíoffrire riferimenti culturali monolitici ed evidenti. Líincertezza del mondo del lavoro, dove líesperienza stessa non costituisce più un fattore stabilizzante, e la crisi díidentità nei ruoli familiari, con genitori giovanilisti e figli privi di credibili modelli, sono cose note che fanno da sfondo alla caduta del dialogo fra le generazioni e al disorientamento culturale che ne consegue. Tanto più che allíeclissi del dialogo spesso si affianca la monotona recezione passiva dei messaggi televisivi che sono unidirezionali e, nelle personalità più fragili, possono suscitare velleità acritiche di onnipotenza invitando a prevaricare ogni ordinamento sociale. In effetti, solo il dialogo vissuto, arricchito e verificato dalla rete dei continui rimandi, permette la trasmissione autentica della cultura e della morale. Senza quelle verifiche dialogiche che scandiscono líautenticità di ogni vero incontro umano líorizzonte della vita si oscura: la meccanicità della manipolazione erotica impedisce líaccesso alla patria dellíamore, la tensione spirituale è spezzata dal rigurgito della magia sotto forma di riti satanici e di settarismi alternativi, líordinamento dello stato è sostituito dal codice mafioso dei sodalizi clientelari.

In questo mondo il parricidio, che ormai serpeggia nella cronaca quotidiana da Maso a Nicolini, ha il sapore allusivo della protesta malinconica contro la caduta di senso dellíesistenza, è il gesto di-sperato di chi ha smarrito ogni autentico riferimento. Il moltiplicarsi dei crimini di sangue maturati ed esplosi dentro la famiglia svela quanto sia oscura la situazione che si è venuta creando; líefferatezza di questi delitti, tuttavia, non autorizza a pensare automaticamente alla malattia mentale se non in presenza di elementi e fattori che la giustifichino.

Una perizia di Vittorino Andreoli (189) sul caso Maso porta nel vivo delle concrete difficoltà che si offrono oggi allo sguardo dello psicopatologo. Líinterpretazione del caso, che ha avuto la risonanza dei grandi delitti che scandiscono la psicopatologia criminologica, si avvale di un ampio ricorso ai più accreditati strumenti diagnostici ed è nel contempo ricca di rimandi al contesto sociale dove è maturato il delitto. Líelaborato tuttavia non è stato condotto allíinsegna di una scontata deresponsabilizzazione. Si fa, infatti, notare che il perito non è un terapeuta, con líobbligo contrattuale di parteggiare per il cliente, ma deve semplicemente fornire un aiuto tecnico al magistrato. Il lungo ciclo della psicopatologia deresponsabilizzante sembra insomma concluso, sollevando lo psichiatra da impertinenti missioni salvifiche per ancorarlo a compiti meglio definiti e più pertinenti.



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