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Professor Giorgio Racagni

Presidente SINPF - Società Italiana di Neuropsicofarmacologia

I medici sia specialisti (psichiatri, neurologi e psicogeriatri) che di medicina generale prescrivono psicofarmaci per curare o migliorare la qualità della vita dei soggetti che soffrono di malattie del sistema nervoso centrale (SNC) quali: psicosi (schizofrenia), disturbi depressivi, sindromi d’ansia, disturbi di personalità, disturbi dell’alimentazione (bulimia, anoressia) e malattie neurodegenerative (demenze).

L’utilità di un’integrazione tra interventi sul soma (psicofarmacoterapia) e sulla psiche (psicoterapia) è da tempo dimostrata da una vasta letteratura scientifica. Il trattamento combinato è infatti comunemente effettuato nella pratica clinica e tale approccio col paziente rappresenta la prassi più comune.

Poiché la maggior parte delle patologie psichiatriche sono ricorrenti, le terapie devono essere protratte per mesi o anni, pertanto l’alleanza terapeutica risulta fondamentale per evitare un fallimento e per aumentare l’aderenza o compliance del paziente nel seguire le prescrizioni.

Non vi è dubbio che nelle situazioni acute si richiede un trattamento farmacologico urgente, tuttavia la natura periodica della maggior parte dei disturbi mentali rende di cruciale importanza l’impostazione di una corretta farmacoterapia di continuazione e di mantenimento a medio e lungo termine che abbia come obiettivo un efficace controllo delle ricadute e delle ricorrenze. Ad esempio, nella terapia della depressione, la più ovvia applicazione della terapia con antidepressivi è quella che si riferisce all’episodio clinico conclamato che ha come obiettivo la riduzione e la scomparsa dei sintomi. Una volta raggiunto questo obiettivo, per evitare che il paziente ricada ancora nello stesso episodio, è necessario una seconda fase della terapia (fase di continuazione) che necessita di un periodo non inferiore a quattro/sei mesi. Per terapia di mantenimento si intende la terza fase di terapia, che ha durata variabile di 6/10 mesi o anni e che ha come obiettivo la modificazione della periodicità della malattia, ovvero la scomparsa delle ricorrenze o la riduzione del numero o della gravità di queste.

I farmaci antidepressivi e antipsicotici attualmente utilizzati per i trattamenti a lungo termine non danno problemi di dipendenza; gli unici psicofarmaci per cui è dimostrata la comparsa di dipendenza psicologica e fisica sono i sedativi-ipnotici benzodiazepinici che devono essere utilizzati per un periodo non superiore ai due mesi.

Questi concetti, generalmente accettati, sono applicabili alle diverse malattie psichiatriche ed hanno notevoli implicazioni nella pratica clinica sia in termini di qualità della vita del paziente sia per la valutazione dei costi del trattamento con psicofarmaci.

La questione relativa al dubbio se in taluni casi la “cura sia peggiore della malattia” non deve più essere un problema nelle terapie con psicofarmaci. Ad esempio, nel passato recente, pazienti schizofrenici preferivano conservare le proprie allucinazioni piuttosto che assumere antipsicotici tradizionali che determinano effetti collaterali di tipo extrapiramidale ed endocrino, che non solo risultavano soggettivamente sgradevoli, ma anche socialmente evidenti e dunque stigmatizzanti. Per fortuna la ricerca in questo campo ha sviluppato nuovi farmaci antipsicotici ben tollerati che determinano nel breve e lungo termine un sostanziale aumento della qualità della vita nei pazienti con diagnosi di schizofrenia, malattia grave, di lunga durata ed altamente disabilitante, che determina un enorme carico di sofferenza in che ne è colpito e nei suoi famigliari.

La necessità di ridurre le spese da parte del Servizio Sanitario Nazionale, non deve precludere a pazienti le terapie farmacologiche più innovative con pronta efficacia e minori effetti collaterali e la loro somministrazione per tempi adeguati. Negli ultimi anni è nato il concetto della “Evidence-based medicine” (medicina basata sulle evidenze), con lo scopo di unificare le conoscenze, rendere nota l’insufficienza metodologica di alcuni studi ai fini di fornire conclusioni utilizzabili in ambito clinico.

La medicina basata sulle evidenze in campo psichiatrico viene applicato non solo alla psicofarmacoterapia ma anche ad altri tipi di intervento, come le psicoterapie e i trattamenti riabilitativi.

Un trattamento in psichiatria deve essere eticamente accettabile solo quando funziona ed i suoi obiettivi siano chiari e condivisi dal prescrittore e dal paziente attraverso un consenso informato.

Coloro che divulgano e prospettano interventi terapeutici non basati su questi principi, non solo fanno una falsa informazione ma creano un allarmismo inutile nei pazienti che ricevono terapie adeguate e comprovate da numerosi studi pubblicati su riviste scientifiche qualificate sottoposte al vaglio di referee internazionali. Un importante punto di forza della medicina basata sulle evidenze è proprio nel cercare di razionalizzare e rendere più efficienti le risorse disponibili, in un momento di difficoltà economica e di fornire linee-guida utilizzabili a questo fine.

L’obiettivo di un trattamento psicofarmacologico è certamente quello di ridurre la sofferenza legata alla malattia e l’introduzione dei nuovi farmaci antipsicotici, antidepressivi ed ansiolitici, dotati di caratteristiche quali una maggiore maneggevolezza e di una efficacia più mirata ha reso il loro utilizzo sempre più estensivo al di là di quelle indicazioni per cui erano stati inizialmente progettati. Il rischio evidente è quello di una medicalizzazione impropria.

Bisogna quindi tenere sempre ben definiti i confini per certe aree della psicopatologia e distinguere chiaramente quello che è un semplice disagio esistenziale da una malattia psichica diagnosticata precisamente dal punto di vista nosografico. D’altra parte è dimostrato che gli psicofarmaci agiscono solamente nelle situazioni psicopatologiche chiaramente diagnosticate.

Questo concetto permette di introdurre alcune considerazioni sull’uso, abuso e valutazione dei costi del trattamento con psicofarmaci.

Tra le voci di spesa dell’Italia e degli altri Paesi industrializzati, quella dedicata alla tutela della salute dei cittadini è sicuramente una delle più importanti. La spesa farmaceutica è una delle componenti più studiate tra quelle che costituiscono il costo sociale complessivo dell’assistenza sanitaria.

I dati più recenti presentati dall’OMS hanno dimostrato che la percentuale dei costi (DALYs intesi come oneri che derivano alla Società dalla mortalità e dalla disabilità provocate da una determinata patologia) attribuibile alle malattie mentali è dell’11,6% (stima riferita all’anno 2000), superiore a quella per le malattie oncologiche (5,3%) e cardiovascolari (10,3%).

In altri termini, la disabilità prodotta dalle malattie mentali ed i costi legati a queste sono circa il doppio della disabilità e dei costi dovuti a tutte le forme di cancro; inoltre la depressione, che attualmente occupa il quarto posto, salirà al secondo posto entro l’anno 2010 tra tutte le malattie per disabilità e costi. Questi dati evidenziano che la psichiatria rappresenta uno degli ambiti di maggiore interesse nella valutazione economica degli interventi sanitari nei vari Paesi.

Negli ultimi anni sono stati introdotti in terapia diversi nuovi antidepressivi che mantengono la stessa efficacia degli antidepressivi triciclici, ma dimostrano un più favorevole spettro di effetti collaterali; questo beneficio è ottenibile a fronte di un prezzo del farmaco più elevato. Nel clima attuale di contenimento dei costi, il problema principale è quello tuttavia di dimostrare l’effetto reale di questi nuovi farmaci per quanto riguarda l’analisi costo-beneficio, costo-efficacia, costo-utilità nella depressione. In sintesi, gli studi finora pubblicati, anche se alcuni contrastanti tra loro per le diverse metodologie utilizzate, hanno dimostrato che, quando sono presi in considerazione tutti i costi diretti ed indiretti, i nuovi antidepressivi hanno un migliore rapporto costo/efficacia-utilità-beneficio rispetto ai triciclici ed in ultima analisi un costo minore per il Servizio Sanitario Nazionale.

Uno studio recente condotto dalla ASL 20 di Verona ha riferito che il consumo di antidepressivi sia aumentato negli ultimi anni. La prevalenza d’uso di questi farmaci è passata dall’1,7% del 1998 al 5,7% del 2001. Questo dato ha suscitato molto scalpore, tuttavia tali stime sono in accordo con i dati di prevalenza della depressione ricavabili dalla letteratura che vanno dal 5 al 6%. Ciò sta ad indicare che in quelle realtà c’è maggiore attenzione alla diagnosi e alla cura da parte di psichiatri e medici di medicina generale.

In conclusione la psicofarmacologia si è evoluta con ritmi rapidissimi ed ha contribuito in modo essenziale a rendere la psichiatria una branca scientifica della medicina ed ha assunto un ruolo importante nella vita quotidiana di un numero sempre più vasto di persone. Malgrado ciò, esiste ancora oggi un’erronea percezione verso gli psicofarmaci da parte del grande pubblico, dei pazienti, di alcuni medici di medicina generale, degli specialisti delle altre branche e anche di alcuni psichiatri.

Abbiamo il dovere di chiederci perchè debba persistere uno stigma associato solo alle malattie mentali e non verso altre patologie mediche. E’ pertanto auspicabile che si affermi un modello concettuale unico che renda omogenea l’interpretazione delle malattie mentali e conseguentemente il loro trattamento.

Rubrica realizzata in collaborazione con

Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA
http://www.psichiatriabrescia.it

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