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Soggetti e follia. Un approccio storico-epistemologico
di
Mario Galzigna

"La malattia dell'uomo normale è la comparsa
di un'incrinatura nella sua fiducia biologica in se stesso (…).
L'uomo detto sano non è dunque sano.
La sua salute è un equilibrio che egli riacquista su fratture incoative.
La minaccia della malattia è una delle componenti costitutive della salute"

(G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p.249)


  • I. RADICI
  • II. PERSONA
  • III. INTUIZIONE E CONOSCENZA
  • N O T E

  • III. INTUIZIONE E CONOSCENZA

    In armonia con le precedenti annotazioni, dobbiamo allora chiederci: come può l'intenzionalità terapeutica rivolgersi al mondo interno del soggetto malato senza conoscere i processi storici che lo hanno "costituito"? Giova forse ripeterlo: solo attraverso l'intuizione eidetica e l'Einfuhlung è possibile, entro una prospettiva husserliana, andare verso l'altro, immedesimarsi con l'altro, "conferire un senso" alla sua presenza. Ma questo movimento, su cui Stanghellini fonda la sua stessa prospettiva terapeutica (cfr. p.72), rischia di essere acefalo e scarsamente efficace senza un'indagine metodica, senza una conoscenza puntuale – di carattere storico-genealogico – dei percorsi e delle condizioni (familiari, sociali, culturali, istituzionali) che hanno reso possibile una certa strutturazione della persona e dei suoi disagi.

    A questo livello, credo, ogni buon psichiatra dovrebbe riconoscere, con grande umiltà epistemologica, l'insufficienza di un itinerario monodisciplinare. In altre parole, proprio nella misura in cui l'approccio fenomenologico non riduce la persona ad ente naturale, astratto, astorico, ci sembra inevitabile che l'impresa terapeutica mobiliti altri saperi, capaci di restituirci, in tutta la sua articolata pienezza, lo scenario complessivo di un'esperienza individuale: penso alla psicoanalisi, alla storia, all'antropologia, alla sociologia, alle neuroscienze.

    Entro tale svolta epistemologica, intuizione e conoscenza diventano complementari: intuizione e conoscenza dell'altro – in quanto destinatario dell'analisi e della pratica curativa – e di sè, in quanto osservatore, teorico e clinico direttamente coinvolto e continuamente modificato dalle qualità interattive del dispositivo terapeutico. Per quello che Gregory Bateson aveva definito lo psichiatra dinamico [28] – orientato verso una "consapevolezza riflessiva" dell'azione terapeutica - intuizione e conoscenza concorrono alla realizzazione di un ideale filosofico perseguito da non pochi grandi interpreti della cultura del nostro secolo: l'ideale di una "teoria unitaria" [29] (così la definiva l'indimenticabile Norbert Elias), di una scienza umana unificatrice, capace di trasformare ogni specialista – ogni psichiatra, ogni storico, ogni biologo – in un viaggiatore di frontiera. Con Bateson, con Elias, con Edelman, per non citare che loro. [30]

    Su questa frontiera, credo – che è poi, al tempo stesso, la grande trincea della lotta contro l'alienazione e la sofferenza – dovranno misurarsi le scienze dell'uomo nel secolo a venire. Su questa stessa frontiera una psichiatria radicale, imperniata sulla persona, sulla sua storia e sul suo destino, potrà svolgere un ruolo insostituibile.

    Rimane comunque problematica l'individuazione di una tattica adeguata ad una svolta teorica così radicale. Nell'ambito dell'alienistica, realizzare un approccio olista ed antiriduzionista al paziente significa, conseguentemente, ripensare e rinnovare – sviluppando le indicazioni di Fausto Petrella - sia il contenitore ed il setting in cui può svilupparsi una relazione terapeutica, sia i processi formativi dello psichiatra, ancor oggi troppo settoriali, parcellizzati e monodisciplinari.

    La "restaurazione della soggettività", in psichiatria, implica necessariamente, come afferma Eugenio Borgna, una ristrutturazione delle "aree istituzionali", che dovranno essere "ribaltate in senso anti-istituzionale". Se mutano gli approcci alla follia e se cambiano, ad esempio, "gli aspetti tematici della esperienza psicotica", dovranno conseguentemente modificarsi anche "le articolazioni di una organizzazione istituzionale". L'assetto istituzionale dovrebbe insomma diventare variabile dipendente della relazione terapeutica.

    Occorre mettere a fuoco gli effetti iatrogeni dell'azione e dell'istituzione terapeutica, che strutturano, o perlomeno influenzano, le forme ed i contenuti della sofferenza psichica: che ci portano, quanto meno, a considerare la cronicità – ad esempio nel caso della schizofrenia – come un autentico artefatto istituzionale, [31] cioè come un vero e proprio "sinonimo dell'ospedalizzazione". [32]

    In questa prospettiva, la riflessione storica può essere funzionale ad un ripensamento critico della disciplina. Vediamo.

    La struttura asilare segregante, pensata dai padri fondatori del primo 800 come strumento della guarigione, rivela, nell'arco della sua compiuta realizzazione storica – cioè nell'ultimo terzo del secolo XIX - valenze distruttive e patogene. Nella pratica e nei progetti di Esquirol, la popolazione asilare ottimale, non superiore alle 200 unità, non doveva internare né i folli ritenuti incurabili né i malati non assistiti, cioè privi del sostegno economico delle famiglie o del governo locale. Si prevedeva, per questi degenti, un periodo di ospedalizzazione non superiore ai due anni, poiché la prospettiva e la finalità dell'internamento era quella della guarigione e della conseguente dimissione. Non a caso, l'assetto teorico della prima alienistica lascia poco spazio al concetto di cronicità, che diventerà invece prevalente in tutta la cosiddetta psichiatria classica successiva. [33]

    Fino a metà ottocento, la maison des fous viene pensata e fondata come struttura assistenziale - terapeutica e non produttiva - che può accogliere dai 200 ai 490 degenti. Nelle realizzazioni successive di fine secolo, che generalizzano il sistema del grand établissement, vengono costruiti asili destinati sia a malati curabili che a malati ritenuti incurabili: asili che diventano in realtà vere e proprie imprese agricole ad economia chiusa, con più di mille ricoverati, la maggior parte dei quali poveri e non assistiti, utilizzati come forza-lavoro a bassa produttività ed a bassissimo costo, che l'amministrazione non ha nessun interesse a dimettere. La lunga durata del soggiorno ospedaliero – il cui correlato nosografico diventa la diagnosi di cronicità – è dunque iscritta in condizioni materiali specifiche, che influenzano profondamente l'attività clinica e l'assetto teorico della psichiatria. Il soggetto internato, povero e non assistito, come si diceva, vive in un realtà asilare separata, che lo rende sempre meno reintegrabile, sempre meno adatto agli standard sociali e produttivi della vita urbana. Egli appartiene, in ogni caso – come ci insegnano le ricerche di demografia storica - ad una popolazione più longeva, che ha visto crescere, rispetto all'epoca di Pinel, la sua speranza di vita. E' in questo preciso contesto socio-economico ed istituzionale che si afferma la centralità epistemologica del concetto di cronicità: la patologia mentale cronica, dalla grande alienistica classica di fine secolo fino agli attuali DSM, è diventata l'asse portante della teoria psichiatrica. Ed "i clinici – come afferma Lantéri-Laura, allievo di Ey e di Minkowski – a partire da un certo momento, hanno descritto come un dato di natura la lunga durata media delle ospedalizzazioni". Ed ancora: "Si assumono allora le condizioni di possibilità della vita economica degli stabilimenti per dati specifici della patologia mentale. I malati, in grande maggioranza, vengono osservati in una istituzione che può sopravvivere solo a patto che essi rimangano a lungo ospedalizzati; questa condizione viene occultata, ed il sapere teorico arriva ad affermare , al suo posto, che la cronicità è una caratteristica essenziale della psichiatria; la conoscenza dottrinale rimpiazza allora, e maschera, l'elucidazione delle condizioni concrete che, al tempo stesso, la rendono possibile e la determinano". [34]

    Certo: la ricerca clinica ha evidenziato forme di cronicità che si sviluppano anche in situazioni extra-asilari, cioè fuori dalle tradizionali dimensioni della segregazione manicomiale. Diventano insomma fattori cronicizzanti non solo certi trattamenti farmacologici, oppure interventi psicoterapici dannosi, [35] - molto spesso ispirati ad una sorta di ideologia della non-guaribilità e della irreversibilità naturale del processo schizofrenico – ma anche condizioni familiari e situazioni sociali che confermano e rinforzano pesantemente i cosiddetti sintomi primari del soggetto sofferente. L'evoluzione cronica della schizofrenia – molto meno frequente nelle aree del sottosviluppo ed in culture preindustriali - non è insomma una fatalità costituzionale, un destino genetico universale, un decorso naturale inarrestabile. E', essa stessa, un prodotto sociale, un esito della storia individuale del soggetto e della storia sociale, collettiva e istituzionale che lo include: un artefatto istituzionale, quindi, ma anche un "artefatto sociale", e perciò "una condizione - come è stato già detto - che si forma e si concreta storicamente" e culturalmente. [36]

    Le strutture della follia intrattengono dunque un rapporto preciso con le condizioni che ne consentono la decifrazione e la cura. Se questo è vero, occorre allora ripensare criticamente l'intero quadro teorico della psicopatologia, rinunciando a vedere, in quelle stesse strutture, icone disincarnate, modelli immodificabili, forme indifferenti al mutamento storico e alla differenza culturale. Nell'ambito della psicopatologia, si è parlato frequentemente di sintomo base, o di fenomeno base - come preferisce chiamarlo Stanghellini (p.26) -, oppure di sintomo primario: ad esempio di delirio primario. [37] Conseguentemente, si è attribuito ad ogni processo primario, ad ogni indicatore psicopatologico della vulnerabilità, l'attributo di primitivo, di inderivabile. Occorre, io credo, diffidare di questo impianto oggettivante, sempre esposto al rischio di una destoricizzazione e di una ricaduta nelle aporie del naturalismo.

    All'interno di una visione dell'uomo concepito come "homo biographicus", Stanghellini riconosce la necessità di inserire "l'evento ‘psicosi' o, per meglio dire", la "condizione di vulnerabilità", "nel contesto della storia di vita di colui che tale evento ha attraversato e che con tale condizione continua a confrontarsi" (pp. 72-73).

    Ma questo riconoscimento non può essere privo di conseguenze. A partire, insomma, da questa inflessione storicizzante dell'analisi, sarà sempre possibile, di volta in volta, smontare e decostruire l'inderivabile - quello che Binswanger chiama l'apriori esistenziale della malattia - individuando gli elementi che lo compongono e i processi diacronici che lo hanno preparato. Di più: sarà sempre possibile, imboccata questa strada, mettere a fuoco i fattori istituzionali che influenzano la stessa configurazione della struttura patologica, le stesse modalità in cui si manifesta ogni disturbo dell'attività costitutiva dell'Io, ogni stabilizzazione che ha contribuito a renderlo cronico ed apparentemente irreversibile. Scavare la superficie della struttura – per meglio storicizzarla, per meglio coglierne la pregnanza semantica e la coerenza interna – significa spiare le sue increspature, mettere a fuoco la sua cifra individuale, svelare le sue zone d'ombra e le sue dimensioni implicite, riscoprendo, dietro la sua maschera irrigidita, il fluire segreto del desiderio e l'attesa inespressa del cambiamento: un cambiamento che potrà coinvolgere, in forme differenti, sia il paziente che il suo terapeuta.

    L'indagine metodica sulla storicità, auspicata dallo stesso Husserl, diventa così uno strumento indispensabile per il clinico: l'intuizione eidetica, che lo avvicina al paziente rendendo possibile la cura, trova nella conoscenza storica un supporto fondamentale.

    Il nostro tentativo di fondare filosoficamente una correlazione necessaria tra intuizione e conoscenza – si trattava, in questo caso, di una conoscenza di tipo storico - attende ancora una verifica empirica estesa e significativa, che realizzi la trasformazione di un'ipotesi teorica in una metodologia clinica.

    In ogni caso, è stato già compiuto qualche passo, in una direzione analoga, da parte di psichiatri e di psicoanalisti che hanno utilizzato, ad esempio, le neuroscienze, ed in particolar modo la teoria della mente di Gerald Edelman: sfatando così il luogo comune che vede, in ogni approccio di tipo neurobiologico, un orientamento terapeutico reificante e necessariamente riduzionista.

    Il caso di Arnold Modell sembra particolarmente significativo. Il concetto di memoria come ricategorizzazione – sviluppato da Edelman all'interno della sua teoria della selezione dei gruppi neuronali (altrimenti detta darwinismo neurale) – serve a Modell per superare la concezione, di matrice freudiana, relativa alla permanenza delle tracce mnestiche, recuperando invece una concezione dinamica – oserei dire proustiana – fondata sulla categoria della posteriorità (Nachtraglichkeit), applicata dallo stesso Freud "all'idea che un ricordo venga ricopiato" e riattivato "per effetto di esperienze successive". [38] La ricreazione di una memoria categoriale – processo che scandisce, nel paziente, la variazione del rapporto tra se stesso e il tempo – porta Modell a una diversa impostazione della relazione terapeutica, modulata soprattutto sulla possibile moltiplicazione dei livelli di realtà e sulla loro capacità, mutevole nel tempo, di riattivare vecchie immagini e di produrne di nuove. [39]

    In questo caso, come si può constatare, l'ancoraggio al fondamento biologico – ed alla sostanziale plasticità della matter of the mind rispetto all'influsso dell'ambiente e della storia - produce una visione dell'uomo molto distante sia da un innatismo fatalista sia da un determismo meccanicistico e riduzionista: una visione aperta, di conseguenza, all'uso della terapia come costruzione e rafforzamento di un Sè plurale, al tempo stesso "proteico" ed integrato, cioè portatore di nuove dimensioni dell'identità personale, di nuovi spazi di libertà soggettiva, riconosciuti ed attraversati sia dal paziente che dal suo analista. Il famoso racconto di Borges , La biblioteca di Babele – che ricalca i temi di una pagina filosofica di Jaspers – potrebbe rappresentare un'efficace metafora del Sè multiplo e plurale, visto come necessario complemento di un Io strutturato ed integrato. [40]

    Tale impianto antiriduzionista contraddice il bilancio apocalittico di James Hillman, che assegna a tutte le "scuole terapeutiche" una sorta di vocazione liberticida: una vocazione che le porta a considerare il soggetto, attraverso "il gioco reciproco tra genetica e ambiente", un effetto terminale, una "vittima", un "mero risultato" dei determinismi che lo producono. [41]

    La materia prima dell'attività mentale, secondo Modell, è la metafora, che si fonda sulla corporeità - percepita attraverso il tatto e le articolazioni - e quindi, per dirla ancora con Husserl, sul corpo proprio, sul corpo vissuto, sul Leib. [42] Questa concezione, che scopre nella metafora uno strumento creativo – uno strumento indispensabile, come voleva Roman Jacobson, lettore di Freud, ad ogni processo di simbolizzazione - viene sviluppata attraverso l'utilizzazione del modello "plastico" della memoria, caro ad Edelman: e la memoria, vista da Edelman come ricategorizzazione continua dell'esperienza individuale e del vissuto corporeo, rappresenta la base dell'attività metaforica e della stessa produzione artistica. Anche qui, il fondamento biologico gioca a favore di una maggior comprensione della storia del soggetto e delle sue esperienze individuali, e quindi delle sue possibilità espressive e creative. Il nostro corpo - la maniera di percepirlo, di viverlo, di "ricategorizzarlo" - rappresenta uno strumento indispensabile del pensiero. [43]

    E' forse lecito pensare che l'attività terapeutica, supportata da queste acquisizioni provenienti dalle neuroscienze, potrebbe talvolta riorientarsi, superando l'impasse determinata – ad esempio nel setting psicoanalitico - dal predominio della parola, a scapito di una esclusione della dimensione corporea. La nostra, ovviamente, è solo un'ipotesi. La conoscenza dell'interazione tra corpo proprio e metafora – tra Leib e rappresentazione psichica verbalizzata – potrebbe, in altri termini, gettare nuova luce su alcune disfunzioni ideative, su alcune deformazioni deliranti, dando allo psicoterapeuta la possibilità di ricondurle, con relativa certezza, alla centralità del vissuto corporeo. Il delirio, dunque, come spia di un rapporto disturbato tra il paziente ed il proprio corpo. La successione, ovviamente, potrebbe essere rovesciata, rimanendo egualmente significativa: da un'anomalia percepibile (o intuibile) del vissuto corporeo alla comprensione di certe distorsioni rappresentative, oppure di un certo deficit della funzione metaforica.

    In entrambi i percorsi, la conoscenza scientifica – in questo caso oggettivante ma non estraniante -produrrebbe un arricchimento qualitativo della relazione, aumentando le possibilità di un successo terapeutico. [44] La posta in gioco, qui, non può essere soltanto teorica: riguarda l'assetto complessivo di un sapere dell'uomo ed il suo inveramento nelle pratiche che lo rendono efficace e credibile. All'interno di

    queste pratiche – cioè nella dimensione della clinica – scire per causas e scire per phaenomena trovano un fecondo terreno di integrazione: [45] fatta salva, tuttavia, l'avvertenza epistemologica di affidarsi ad un modello di causalità circolare,

    che include tra i fattori influenti (variabili nel tempo) anche lo psichiatra, cioè il soggetto capace di assumere, al tempo stesso, il ruolo dell'attore e quello dell'osservatore. L'alienista dinamico, di cui parlava Bateson, non è altro che questo. L'alienista statico, che pretende di mantenersi immodificato all'interno del processo terapeutico, sarà fatalmente portato ad assumere una postura estraniante ed a vedere nel malato un mero oggetto, una malattia, un'entità naturale ed astratta, fuori dalle vicissitudini del tempo e della storia.

     

    ( FINE DELLA PRIMA PARTE )

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