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Soggetti e follia. Un approccio storico-epistemologico
di
Mario Galzigna

"La malattia dell'uomo normale è la comparsa
di un'incrinatura nella sua fiducia biologica in se stesso (…).
L'uomo detto sano non è dunque sano.
La sua salute è un equilibrio che egli riacquista su fratture incoative.
La minaccia della malattia è una delle componenti costitutive della salute"

(G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p.249)


  • I. RADICI
  • II. PERSONA
  • III. INTUIZIONE E CONOSCENZA
  • N O T E

  • I. RADICI

    Nel linguaggio corrente l'aggettivo vulnerabile, se non è riferito al corpo, indica la fragilità psicologica di una persona: e si dice, solitamente, che qualcuno è o diviene vulnerabile sia perché colpito o stressato da avvenimenti, da stimoli esterni, sia perché, per sua natura, per sua costituzione, non sa o non riesce ad affrontare le prove e le difficoltà della vita. Questo duplice registro eziologico - presente nel buon senso comune ed applicato anche all'organismo biologico - è stato sviluppato dalla medicina greca classica per studiare le cause della malattia: già con Galeno, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, cause esterne (dieta, regime di vita, ambiente fisico e sociale) e cause interne (cioè fattori geneticamente determinati come il temperamento e le predisposizioni patologice di carattere organico), concorrono a produrre la malattia. Una prospettiva, come diremmo oggi, olista e multifattoriale, appartiene dunque alle origini del sapere medico occidentale.

    Sfruttando la grande fioritura settecentesca del vitalismo medico-biologico, l'alienistica nascente, nei primissimi anni del XIX secolo, riprende e riarticola questa prospettiva, a partire dalla figura di Philippe Pinel, padre fondatore della clinica psichiatrica moderna.

    Giovanni Stanghellini, psichiatra di scuola fenomenologica, rivaluta a più riprese, in un saggio recente, la rottura epocale introdotta da Pinel. La sua ricca esplorazione prende le mosse proprio dal nome del primo alienista della Salpétrière. Sentiamo: "Così come ogni uomo va in cerca di un padre, ogni pensiero va in cerca di una tradizione". Ed in psichiatria questa ricerca di una tradizione antropologica, "questa ricerca del padre, ci conduce alle soglie dell'Ottocento, alla rivoluzione borghese, e al cittadino Philippe Pinel". [1]

    Dopo aver dedicato, a partire dal 1980, molto lavoro di carattere storico ed epistemologico alla nascita della psichiatria moderna, sono diventato un convinto assertore dell'importanza strategica della rivoluzione pineliana, ora ribadita anche da Stanghellini.

    Risalgono infatti a Pinel – ma anche e soprattutto, occorre aggiungere, al suo erede, il grande Esquirol, inventore della monomania – un nuovo punto di vista sulla follia ed una straordinaria lezione di metodo, che ogni psichiatra, credo, dovrebbe rimeditare: la follia non è quasi mai totale, non annichilisce quasi mai interamente la ragione umana. La follia – ed il suo fenomeno più direttamente visibile, il delirio – è parziale. Rimane sempre vivo, nel folle, come dirà Hegel, attento lettore di Pinel, un resto di ragione: proprio puntando su questo resto, cioè sulla parte sana dell'io, è possibile comprendere, curare e guarire la malattia mentale.

    Di più: la pineliana mania senza delirio - autentica invenzione concettuale, radicale rottura epistemologica rispetto al pensiero medico classico - rende accessibile al terapeuta anche un particolare tipo di follia: la follia che non è (o che non è soltanto) sragione; la follia che non coincide con il delirio, come pretendeva la tradizionale medicina mentis; la follia che lascia più o meno integre le facoltà intellettuali, sviluppandosi principalmente attorno a disordini di carattere affettivo e passionale. I folli, scrive Esquirol nella sua thèse di dottorato del 1805, "più o meno, ragionano tutti". Ed ancora: "Non solo le passioni sono la causa più comune dell'alienazione, ma intrattengono con questa malattia e con le sue varietà dei sorprendenti rapporti di somiglianza. Tutte le specie di alienazione trovano la loro analogia e, per così dire, il loro tipo primitivo nel carattere di ogni passione". [2]

    Tra il normale ed il folle esiste insomma, sullo sfondo di una differenza quasi sempre percepibile, una strana e sotterranea continuità, che sembrò scandalosa a molti - medici, magistrati, moralisti - nel primo Ottocento, ma che oggi viene riconosciuta, da più parti, come condizione di possibilità della comprensione e della cura. [3]

    La grande lezione della prima alienistica parigina non si limita tuttavia solo all'aspetto fenomenologico e nosologico del lavoro clinico – cioè alla descrizione dei vissuti e alla concettualizzazione dello stato morboso – ma si estende anche alle sue articolazioni di carattere terapeutico, a quell'epoca radicalmente innovative; il trattamento morale, proposto e praticato dai Pinel e dagli Esquirol, si fonda, perlomeno nella sua fase pionieristica, su due livelli fondamentali, tra loro correlati e indissociabili: da un lato i risvolti disciplinari e repressivi dell'istituzione segregante, dall'altro lato il dialogo, l'ascolto e l'empatia tra l'alienista e il suo paziente. Entro le mura dell'asilo, i successi del trattamento morale dipenderanno anche dalla capacità del terapeuta di "mettersi in armonia" – lo affermava Esquirol nella sua thèse - con "l'idea-madre", con il nucleo generativo dei deliri di ogni paziente. [4]

    Per realizzare questa armonia e per guarire il malato il ragionamento non basta. Occorrono "scosse morali": è necessario agire sulle passioni e sulle emozioni dell'alienato, sapendo "quanto poco il ragionamento da solo, senza scossa agitatrice, sia capace di far tornare la ragione smarrita". [5]

    Il tutto, lo si è già detto, entro le mura dell'asilo: cioè nella cornice di un potere disciplinare specifico e capillare, che trova nel corpo e nell'anima del soggetto internato i suoi punti di applicazione. Infatti, la produzione di scosse morali e l'utilizzazione delle passioni - considerate, come recita il sottotitolo della thèse, "cause, sintomi e mezzi curativi dell'alienazione mentale" - non prescindono mai dal contenitore istituzionale che le rende praticabili ed efficaci. Nei testi inaugurali della psichiatria moderna questo legame essenziale viene lucidamente affermato: empatia e trattamento morale fondato sulla parola si accompagnano all'uso prudente della repressione e dell'apparato di forza – così lo chiama Esquirol – reso possibile dalla struttura e dall'organizzazione interna dell'asilo. Per avviare il dialogo ed il conseguente traitement moral, è necessario placare il folle – ad esempio il furioso o il maniaco - sia attraverso efficaci mezzi di repressione e di controllo (l'uso degli infermieri, la cella d'isolamento, un sistema di premi e di punizioni), sia attraverso particolari strumenti di contenzione e di dissuasione (docce calde o fredde, sedia rotatoria, camicia di forza, letto di contenzione, manicotto contro la masturbazione, eccetera): strumenti oggi rimpiazzati, molto spesso, dall'azione sedante dei farmaci.

    Scindere queste due istanze – il dialogo e la contenzione -, ed enfatizzare solo le componenti intersoggettive della relazione medico-paziente, significa occultare la vocazione istituzionale e disciplinare della prima alienistica; significa celebrare, entro una sterile mitologia del gesto umanitario e innovatore (Pinel, medico e filantropo, che toglie le catene ai folli), una sorta di retorica dell'atto terapeutico fondatore, talmente "democratico" e liberatorio da rendere meno importanti e meno appariscenti le sue stesse condizioni di possibilità, cioè le sue valenze autoriatrie e coercitive [6] .

    Di questo travisamento storiografico sono responsabili studiosi come Marcel Gauchet e la psichiatra Gladis Swain. Nelle loro ricche e documentate indagini sulla psichiatria nascente e sulla thèse esquiroliana, il trattamento morale è stato visto soprattutto come aurorale processo di scavo nell'interiorità del folle. In questo approccio marcatamente ideologico, di ispirazione neo-liberale, si rischia di stravolgere la cifra originale e complessa di autori come Pinel ed Esquirol: alienisti attenti a sottolineare non solo l'aspetto dialogico del traitement moral, fondato sull'ascolto e sull'interazione emotiva, ma anche le sue valenze di potere e il suo contesto istituzionale. Il manicomio nascente – tassello essenziale della nuova dottrina- viene concepito, al tempo stesso, come macchina segregante, come apparato sicuritario e come "strumento di guarigione". I maestri della Salpétrière ci trasmettono dunque un'acquisizione metodologica tutt'altro che trascurabile: qualità della relazione terapeutica e sua appartenenza istituzionale non possono essere pensate separatamente.[7]

    Insegnamento, questo, quanto mai vivo ed attuale: dovrebbero tenerne conto anche le recenti riformulazioni, in chiave fenomenologica, dell'incontro terapeutico come luogo dell'empatia (dell'Einfuhlung, dell'intuizione eidetica). L'enfasi sull'approccio empatico rischia infatti di trasformarsi in una vuota e fuorviante retorica se non si accompagna ad una valutazione critica della misura in cui la qualità di questo stesso approccio viene influenzata, oggi, almeno da due fattori: le caratteristiche del suo contenitore istituzionale e l'azione sedante del farmaco: nuova camicia di forza chimica, che può rendere inutile la misura segregativa e che sovente ottunde i sintomi, o li modifica, oppure – caso non infrequente – crea nuovi sintomi specifici, sia somatici che psichici. [8]

    Alla cancellazione storiografica delle valenze di potere del trattamento morale, corrisponderebbe così la cancellazione ideologica delle valenze repressive e produttive dell'intervento chimico: con il risultato di far emergere una sorta di falsa coscienza dell'operatore, o, quantomeno, una pericolosa divaricazione tra le teorie espresse e le pratiche taciute.

    Nell'ambito dell'alienistica, l'opzione storiografica non è mai neutra: il modo di interpretare la rottura pineliana esprime, lo si è visto, orientamenti di carattere politico e teorico. Non a caso, nella voce Follia/delirio scritta da Franco Basaglia per l'Enciclopedia Einaudi tutto il primo paragrafo viene dedicato a Pinel ed alla nascita della psichiatria. [9]

    La lettura di Basaglia rappresenta il completo rovesciamento delle tesi di Gauchet e della Swain: l'asilo nascente è soltanto macchina dispotica, struttura emarginante, apparato repressivo. Le componenti dialogiche ed empatiche dell'incontro terapeutico vengono ignorate. Le categorie nosografiche, a loro volta, vengono interamente ricondotte a tecniche di controllo, di punizione e di esclusione che reificano il paziente, fino al punto in cui "la follia scompare nell'oggettivazione del delirio come infermità".

    Cercando la difficile strada di un equilibrio, per dirla con Norbert Elias, tra coinvolgimento e distacco, [10] abbiamo proposto una terza via, che vede nella maison de traitement, come si diceva, una dimensione segregativa e sicuritaria indissociabile dall'assetto epistemologico del nuovo sapere. Nella maison des fous del primo ottocento si realizza una mirabile sintesi tra due forme differenti di potere – il potere di sovranità e il potere disciplinare - che troveranno nelle società liberal-democratiche del XIX secolo un più vasto e più generale campo d'applicazione: da un lato, appunto, un potere repressivo, che limita, che interdice, che si impone come negazione e come esclusione; dall'altro lato un potere tutelare, dettagliato, regolare, previdente e dolce – così lo definiva Tocqueville in De la démocratie en Amérique – che attraversa le coscienze, che orienta, che produce, che si dispiega come affermazione e come investimento produttivo. Sovranità e disciplina, dunque, si integrano reciprocamente. L'asilo, perlomeno ai suoi esordi, non è più la prigione, poiché pretende di riabilitare, di trasformare e di guarire i soggetti. E' tuttavia un dispositivo che in una qualche maniera la trascende e la include. La prigione non è quindi, come voleva Basaglia, il vero ed unico volto dell'asilo: riferendoci, lo ripeto, all'asilo del primo 800, possiamo affermare, semmai, che essa ne rappresenta il vizio occulto, il registro meno appariscente, così come – e questo lo aveva colto lucidamente Tocqueville guardando al sistema carcerario americano - il dispotismo d'ancien régime rappresenta il vizio occulto ( versteckte Mangel, secondo la definizione del giovane Marx ) dello stato moderno, nato sulle ceneri della rivoluzione francese e dell'Impero. [11]

    La percezione della psichiatria nascente come dispositivo capace di produrre questo nesso, apparentemente contraddittorio, tra coercizione ed ingiunzione, diventa così un formidabile supporto alla comprensione della nostra modernità politica.

    Riprendendo le fila della precedente argomentazione storico-critica, potremmo dire, in ogni caso, che non basta abbattere le mura dell'asilo per eliminare il rapporto di potere. Contenzione e contenimento, oggi, passano anche attraverso sistemi di cura estranei alla pratica manicomiale: sistemi che possono essere iatrogeni, entro certe condizioni, almeno quanto lo era la maison des fous. Dalla camicia di forza chimica al setting analitico, è comunque impensabile una qualsiasi azione terapeutica che si svolga fuori da un intreccio ineludibile tra sapere e potere. Perdere di vista tale intreccio – sognando una impossibile simmetria, una irragiungibile reciprocità tra l'alienista e il suo paziente – significa, ancora una volta, portare acqua al mulino di una falsa coscienza dell'operatore. L'asimmetria costitutiva del rapporto terapeutico non viene meno neppure nel momento in cui si riconosca nel malato un soggetto, una persona; neppure nel momento in cui – come voleva Bateson, già nel 1951 – si ammetta che "il processo terapeutico induce un processo dinamico continuo nel terapeuta stesso". [12]

    Pretendere una piena simmetria ed una compiuta reciprocità vuol dire, molto semplicemente, uscire dal rapporto terapeutico o, nel caso della psicoanalisi, dal setting analitico tradizionale. Groddeck e Ferenczi, giova ricordarlo, sostennero la legittimità di un'analisi recirpoca: l'idea, così come emerge dalla loro Corrispondenza, [13] verrà poi riproposta e sviluppata da Ferenczi nel suo Diario clinico del 1932. [14]

    La cornice di questa proposta innovativa – rimasta poi lettera morta nei successivi sviluppi della psicoanalisi ufficiale – era ancora scandita, in ogni caso, dalla relazione duale tra paziente e terapeuta.

    In aperta rottura con l'ortodossia psicoanalitica si è invece sviluppata, in anni più recenti, la schizoanalisi di Deleuze e Guattari, concepita come "analisi militante", che sceglie, quale punto d'applicazione, "i gruppi", poiché "è qui che si dispone immediatamente di un materiale extra-familiare". [15] Si tratta di "promuovere un'altra logica, una logica del desiderio reale, che stabilisca il primato della storia sulla struttura; un'altra analisi, svincolata dal simbolismo e dall'interpretazione". [16]

    Ma questa, lo si sa, è un'altra storia: ancora tutta da ripensare e da scrivere.

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