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Dia-tige ("ombra recisa"). Strutture antropologiche della depressione

e metamorfosi del legame sociale in Africa

 

 

 

Roberto Beneduce (*)

(*) Questo testo Saggio - tratto, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, da: M.GALZIGNA (a cura di), "La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale", Marsilio, Venezia 1999 - viene pubblicato in "POL.it" anche al fine di suscitare un dibattito e di ricevere on line critiche, consigli e suggerimenti da parte dei lettori. E' possibile comunicare direttamente con l'autore tramite e-mail [ sbbm858p@cisi.unito.it ].

 

"L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.

I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta.

Black depression.

Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.

Legame sociale, disincanto e depressione.

Bibliografia

 

 

2. I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta

"Prima di andare presso i dogon abbiamo studiato la letteratura etnologica relativa a questa etnia. Si trattava dei lavori di Marcel Griaule, di Germaine Dieterlen e di numerosi altri etnologi che nella quasi totalità appartenevano alla scuola di Marcel Mauss (...). Dopo aver letto e minuziosamente studiato tutta questa letteratura siamo andati nei paesi dogon senza avere la minima idea del genere di persone che ci attendeva. Noi non sapevamo se queste persone (...) erano degli uomini e delle donne aperti o chiusi, dolci o aggressivi, felici ed equilibrati o infelici e dal temperamento mutevole. Dopo tutte queste letture era impossibile sapere cioè se queste persone vivevano sotto il peso di un sistema religioso opprimente, come malati ossessivi obbligati a compiere doveri faticosi attraverso obblighi molteplici (...) oppure, al contrario, come noi avemmo modo di verificare una volta arrivati là, che una moltitudine di corrispondenze spirituali e religiose cullava degli individui sereni, gioiosi, stabili e di grande libertà affettiva, come in una rete d'amore che gli dei e gli antenati avevano disteso per attenuare le durezze della vita terrena dei loro cari esseri..."(corsivo nostro).

Questa lunga citazione, tratta da Parin (1976), ci consente di situare il problema di cui intendiamo occuparci in tutte o quasi le sue flessioni: il modello definito da Lucas e Barrett (1995) come"paradigma arcadico", che pensava i"primitivi"liberi dai vincoli della civiltà e dalle sue conseguenze sociali e psicopatologiche, sembra qui riemergere con forza; si allude alla possibilità di un parallelo forte fra religione ed ossessione, fra obblighi religiosi e rituali nevrotici: ambiti che vengono invece considerati oggi da ogni punto di vista non commensurabili (Pewzner-Apeloig, 1993), anche a partire dalla banale considerazione che molte religioni sono povere di rituali o addirittura a-rituali; inoltre, della società di cui si parla viene proposta un'immagine indifferenziata, omogenea, priva di conflitti e di differenze: non conflitti di genere o fra le co-spose, né tensioni familiari o di clan, ma un'armonia che non si discosta molto dalle immagini che i resoconti di viaggi ci avevano lasciato nei due secoli scorsi. Lo scritto di Parin non è lontano nel tempo, ma certo non sembra nemmeno sfiorato dalla consapevolezza oggi consueta alla più recente riflessione antropologica ed etnopsichiatrica (ma si pensi anche ai lavori etnopsichiatrici sul rapporto fra depressione, stregoneria e condizione femminile in Ghana condotti da Margaret Field in quegli stessi anni); esso però ha il pregio di introdurci direttamente nelle questioni seguenti: la depressione nelle culture africane, e nella cultura dogon in particolare, è assente? se di essa non v'è traccia, quali ne sono i motivi? al contrario, se si presuppone che essa sia presente come nelle nostre società benché espressa diversamente, con quali strumenti riconoscere la presenza della sofferenza, della tristezza patologica, o della"depressione"propriamente detta? E se altri sintomi, altri disturbi vengono riferiti in luogo di quelli a noi più familiari (delirio persecutorio anziché di rovina, problemi riferiti al corpo anziché al tono dell'umore, possessione anziché suicidio), è legittimo interpretarli come l'espressione di una depressione mascherata? Infine: è lecito parlare di depressione alla stregua di una sostanza, o di una lesione d'organo, di cui si tratta solo di provare l'esistenza o misurare l'ampiezza in altri corpi? Se le malattie partecipano alla riproduzione delle culture non meno di quanto, inversamente, queste non partecipano alla"costruzione"delle prime, non sarebbe più corretto analizzare una condizione come la sofferenza depressiva (e ogni altro genere di sofferenza) in stretta relazione ai contesti nei quali viene nominata, esperita, comunicata, alle dinamiche sociali e alle egemonie culturali che ne modificano forma e pertinenza?

Le ricerche epidemiologiche condotte in culture non occidentali hanno, come è noto, nella psichiatria il loro tormento metodologico maggiore: negli ultimi anni non poche critiche ne hanno evidenziato inadeguatezze e limiti (category fallacy, secondo l'espressione coniata da Kleinman; diagnostic pitfalls, secondo Arpin per ciò che concerne la diagnosi psichiatrica in pazienti immigrati). Anche quando si è introdotto un fattore di correzione etnosemantico, con la traduzione delle maggiori categorie psichiatriche e degli items abitualmente utilizzati nelle indagini epidemiologiche all'interno delle lingue locali o in concetti più appropriati dal punto di vista"emico"(Pike), le perplessità, espresse in particolare dagli antropologi, sono state numerose (e la trasposizione dalla linguistica alla psichiatria transculturale della nozione emico/etico assai spesso insoddisfacente: solo un nastro colorato per addobbare approcci assai poco diversi da quelli tradizionali); un vizio empirista è sembrato a molti riproporsi anche nell'attenzione ossessivamente portata alle categorie e ai nomi che le lingue locali utilizzavano per indicare le malattie, dal momento che queste finivano per essere considerate dagli studiosi alla stregua di unità discrete, catalogabili in modo non molto differente dalle specie vegetali o animali oggetto di studio di altre etnoscienze.

Nel caso dei disturbi psicologici è d'altronde scontato aspettarsi considerevoli differenze nella rappresentazione, nell'interpretazione e nella cura delle malattie: ma queste differenze sono, come si può facilmente immaginare, anche l'espressione di diverse concezioni e"pratiche"della persona, del corpo, delle emozioni, degli affetti, della morte, della sessualità, del potere. Le particolari norme di costruzione e rappresentazione del sé o dell'individuo in rapporto ai differenti stili narrativi (ci riferiamo qui alle culture orali) ne costituisce un esempio peculiare. É nel confronto fra questi mondi diversi, d'altronde, che la new cross-scultural psychiatry (Kleinman) ha il suo precipuo interesse conoscitivo, non nella pura attività di confronto e comparazione fra entità nosografiche ritenute simili o analoghe. Bibeau (1981), a proposito dei lavori sulla depressione, sottolineava l'urgenza di un'antropologizzazione dell'epidemiologia e la necessità di condurre indagini antropologiche che precedessero sistematicamente ogni ricerca sulla diffusione e il significato della depressione nelle società africane. D'altronde, ancor prima di una nosografia modulata sulla differenza culturale, è la stessa sussunzione della psicopatologia all'interno di un'analisi antropologica della"condizione umana"nelle sue concrete espressionilocali che sembra oggi in gran parte ancora da costruire, sebbene sia stata più volte sottolineata la necessità di"culturalizzare l'epidemiologia psichiatrica"e problematizzare il complesso rapporto che esiste fra contesti di vita e"sistemi di segni, di senso e di azione"(Bibeau e Corin, 1994).

I principi sull'universalità dello psichismo umano, posti alla stregua di assiomi, non hanno d'altronde sempre consentito un'opportuna interrogazione sugli effetti che le differenze culturali possono esercitare sulla psiche. Affermare che cultura e psiche sono strutture omologhe o omotetiche, che la seconda si costruisce sulla prima (Moro, 1994; Nathan, 1986) per poi concludere che tutti gli esseri umani condividerebbero i princìpi di funzionamento dello psichismo, lascia come insoddisfatti per il truismo soggiacente (tutti gli uomini sono uomini) e genera un parziale paradosso che le metafore del carciofo (Wittgenstein), delle scatole cinesi (Littlewood) o della torta a strati (Geertz) non hanno mancato di evidenziare in termini critici. Ciò che bisogna decomporre è in altri termini l'idea secondo la quale ci sarebbe un nucleo duro e privo di scalfitture, un nucleo bio-psichico irriducibile comune ad ogni membro della razza umana, e al di sopra di quello si sovrapporrebbero - in modo vario ed imprevedibile - le"foglie"molteplici delle lingue, le"scatole"infinite dei simboli, gli"addobbi"di zucchero rappresentati dai costumi e dai comportamenti propri di ogni cultura. Ma se lo psichismo umano ha leggi universali, se cambiano i contenuti del delirio e dei sogni ma il delirare e il sognare rimangono comuni, se dunque sono i sintomi ad essere diversi ma le malattie sono uguali, perché Nathan irride poi gli psichiatri africani che parlano di"depressione"nei loro pazienti? è poi così scandaloso adottare un termine della psichiatria occidentale quando d'altra parte non si manca di ribadire che si tratta di un unico e comune psichismo? l'Umanità comune dello psichismo universale dei processi mentali si arresterebbe sulla soglia delle malattie e delle terapie per lasciare solo a queste il privilegio della differenza e della particolarizzazione? Ma perché poi queste ultime soltanto dovrebbero essere diverse e non le strutture mentali"normali"? Allo stesso modo, qual è la portata clinica di un assunto quale quella proposto da Pewzener-Apeloig (1992) quando esclude che il senso di colpa quale è concepito nella cultura occidentale non sia rintracciabile nelle culture africane essendo costitutivamente,"ontologicamente"patrimonio della prima? Perché chi difende l'universalismo delle leggi dello psichismo umano non accetta che il fondamento della sofferenza psichica che chiamiamo depressione possa essere rintracciato ovunque e, viceversa, perché chi afferma che il senso di colpa sia ontologicamente un fatto dell'Occidente, non giunge ad ammettere che lo psichismo in tradizioni culturali diverse possa avere differenti modalità di funzionamento, di realizzazione, di organizzazione? Presi fra le difficoltà e gli opposti paradossi che questi interrogativi generano nella mente di ogni ricercatore, nasce il sospetto che forse sia la loro stessa formulazione ad essere inadeguata o mancante. Non è forse un caso che un autore come Nathan, pronto ad accettare sfide di ogni genere, si ritragga da una riflessione su tale problema rinviadola ad un altro momento e preferendo una delimitazione operazionela dell'etnopsichiatria e dei suoi compiti nei quale prende rilievo soprattutto il condivisibile progetto di considerare tutti i saperi psicologici e psicoterapeutici ("tradizionali"o"moderni"che siano) alla stessa stregua e meritevoli dello stesso interesse (Nathan, 1997).

Quelle domande non sono d'altronde nuove nella ricerca antropologica ed etnografica: la rivalutazione del punto di vista dei nativi, il concetto demartiniano di"etnocentrismo critico"o, ancora più indietro nel tempo, il dibattito fra universalismo e relativismo culturale, stanno sullo sfondo di problemi che l'etnopsichiatria e l'antropologia medica riscoprono quando si rivolgono a considerare le singolari concezioni della salute mentale e della malattia, i modi in cui si definiscono in culture diverse lo psichismo, la nozione di persona o la rappresentazione del corpo: in altri termini la nozione stessa di uomo. Basterebbe richiamare qui le complesse ed eterogenee modalità con cui si"fabbricano"nelle società gli uomini per avere un'idea di quanto le dimensioni simboliche e culturali partecipino della costituzione psichica e (possiamo almeno in linea di principio ipotizzare) generino, proprio in questa, non piccole differenze.

Remotti (1996) ha a lungo insistito sul concetto di antropopoiesi a partire dallo studio dei rituali della circoncisione fra i Nande dello Zaire. In un testo raccolto alcuni anni fa da un altro ricercatore, Remotti analizza i significati del canto iniziatico che così recita:"O dio dei nostri antenati, Katonda l'ordinatore, in una casa, in una famiglia, in un villaggio, che cos'è un uomo?"per poi concludersi con la seguente invocazione:"Che il nostro viaggio generi degli uomini". Sia che si tratti di una pura finzione sociale, sia che si tratti di un riferimento alla ben più problematica ed inquietante questione della carenza o incompletezza ontologica dell'uomo, è necessario interrogare il senso di queste pratiche, la relazione che in esse è possibile cogliere fra dinamiche religiose, storico-sociali e psicologiche: nel"nodo"che si stringe fra questi diversi profili è facile intuire come possa poi giungersi ad una ridefinizione di buona parte degli interrogativi prima proposti. La fabbricazione degli uomini costituisce d'altronde un fatto osservato da tempo e in contesti diversi dagli antropologi. Susette Heald (1982) ha utilizzato l'espressione making of men in riferimento ai rituali dei Gisu (Uganda orientale), sottolineando in particolare come lo studio della psicologia vernacolare permettesse di cogliere, accanto al più noto aspetto transizionale proprio di questi riti (e messo già in luce agli inizi del secolo da Van Gennep), quello propriamente trasformazionale. Godelier (1996), nel ricordare alcune concezioni relative alla nascita e al concepimento fra i Baruya della Nuova Guinea (popolazione appartenente al gruppo etnico dei Kukakuka, da lui a lungo studiata e nota per la cosiddetta"moneta di sale"), fra gli abitanti delle isole Trobriand e fra i Paici della Nuova Caledonia parla delle diverse maniere sociali di"fare"o"fabbricare"i bambini: in tali rappresentazioni, indipendentemente dal fatto che ci si trovi all'interno di sistemi patri- o matri-lineari, il ruolo dello sperma e del padre è come lasciato in ombra dai miti del concepimento e della nascita, che spingono pertanto a chiedersi che cosa significhi essere padre in quelle società e, più in generale, che cosa significhi in esse essere un individuo:

"Queste teorie indigene, locali, sono componenti variabili di quel doppio processo di metamorfosi che costruisce l'intimità impersonale e culturale che va ad imprimersi in ogni neonato e a partire dal quale egli va a vivere il suo corpo e ad incontrare l'altro (...)". Il bambino, continua l'autore,"comincia la sua esistenza già rivendicato dagli adulti, altri che hanno diritti e doveri nei suoi confronti perché si dicono suoi genitori e/o sono riconosciuti socialmente come tali. Il bambino, da un punto di vista sociale già oggetto di un processo di appropriazione, deve però a sua volta appropriarsi di coloro che se ne sono appropriati (...). Più tardi egli deve allo stesso modo separarsene, altrimenti non diventerà mai adulto come loro".

Anche Nathan ha ripreso, da un punto di vista etnopsicanalitico, i modi peculiari che culture diverse hanno di"fabbricare i bambini"(Nathan, 1995). Con termini diversi gli autori sopra menzionati si chiedono in definitiva: costituzione della persona, nascita e costruzione dell'individuo e del sé, nesso radicale fra miti, rituali di transizione e processi di socializzazione (l'eventuale e consapevole uso della finzione o della menzogna, previste e giustificate nei miti, non cambia in nulla la radicalità di questo nesso: semmai vi aggiunge ulteriore peso) (Lattas, 1989), come intervengono nel funzionamento dello psichismo e della società? Come l'uno e l'altro si embricano reciprocamente? Quello che mi sembra in ogni caso ovvio è che queste domande non possano essere accantonate quando si rifletta sul significato, le forme o la frequenza della condizione depressiva all'interno di un'altra cultura o sulla presunta assenza in questa stessa cultura del senso di colpa.

Analogamente a quanto gli antropologi mettono in luce, quando ho lavorato in Mali fra i dogon ho potuto verificare come il problema di riconoscere l'espressione della sofferenza psichica e studiare i modi della sua gestione (Beneduce, 1996 e 1997) si frangesse continuamente su questioni assai più ampie che, pur complicando non poco l'approccio clinico o epidemiologico, avevano però il pregio di ridefinire spessore e significato di molti degli abituali interrogativi della nostra ricerca.

Al di là degli aspetti strettamente metodologici, ci sembra decisivo porre il dibattito sulla"black depression", relativo cioè alla controversa esistenza della depressione nelle società tradizionali africane (Beiser, 1985; Kalunta, 1981; Marsella, Jablensky, Sartorius e Fenton, 1985; Coppo, 1983), anche all'interno delle dimensioni ideologiche che sin dall'inizio lo hanno contraddistinto, segnandone così almeno in parte il successivo profilo (penso soprattutto agli effetti della psichiatria coloniale e all'ideologia relativa alla"mente africana": Littlewood e Lipsedge, 1987; Collignon, 1997). La prospettiva adottata sarà pertanto immersa in una costante attenzione al contesto (culturale, linguisico, ideologico, ecc.) del proprio discorso e dei suoi effetti: ciò che significa già immergersi in una interdisciplinarietà che fra i suoi strumenti di riflessione comprende anche l'analisi storica.

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