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Dia-tige ("ombra recisa"). Strutture antropologiche della depressione

e metamorfosi del legame sociale in Africa

 

 

 

Roberto Beneduce (*)

(*) Questo testo Saggio - tratto, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, da: M.GALZIGNA (a cura di), "La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale", Marsilio, Venezia 1999 - viene pubblicato in "POL.it" anche al fine di suscitare un dibattito e di ricevere on line critiche, consigli e suggerimenti da parte dei lettori. E' possibile comunicare direttamente con l'autore tramite e-mail [ sbbm858p@cisi.unito.it ].

 

"L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.

I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta.

Black depression.

Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.

Legame sociale, disincanto e depressione.

Bibliografia

 

 

1. "L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.

 

L'approche psychanalytique des contes est chose trop sérieuse

pour être laissée entre les mains des psychanalystes

Dundes (1987)

I rapporti fra antropologia e psichiatria si sono rivelati nel corso di questi anni via via più necessari, fecondi per l'una e l'altra delle due discipline: la nota domanda di Sapir, che si chiedeva"perché l'antropologia culturale ha bisogno della psichiatria", ha trovato ascolto fra molti ricercatori ed il suo reciproco è stato ripreso da non meno numerosi psichiatri e psicanalisti che, pur nell'eterogeneità dei metodi e del grado di rigore della loro riflessione, hanno fatto propria la consapevolezza che la psichiatria dovesse essere fondata sull'antropologia. Nella riflessione di Devereux questa consapevolezza ha raggiunto alcune delle sue più brillanti formulazioni, e il complementarismo diventava per questo autore il principio base della sua ricerca. Autori come Zempleni avrebbero continuato ad ispirarvisi sin dai primi lavori continuando ad attraversare in modo singolarmente originale il dominio che vede sovrapporsi ricerca etnografica e riflessione clinica o psicopatologica (Zempleni 1968, 1988, 1993), Nathan avrebbe adottato gli stessi presupposti per portare avanti il suo sforzo di definire la specificità dell'etnopsichiatria (Nathan, 1997). Tuttavia sotto il profilo epistemologico il rapporto fra l'antropologia da un lato e la psichiatria o la psicanalisi dall'altro è stato spesso ricco di malintesi quando non di critiche feroci: quelle di antropologi come Dundes, riportata in epigrafe, di Muller (1993) contro Pradelle de la Tour, o di Henry (1997) contro Nathan ne sono eloquenti esempi. Recentemente Augé (1997) si interrogava sulle ragioni di un analogo fraintendimento favorito dall'uso incerto (talora solo retorico) che del termine"antropologico"era stato fatto da non pochi ricercatori (storici, soprattutto) negli ultimi anni. Si è parlato così secondo i casi di un'alleanza difficile (Skultans, 1990), di un rapporto incompiuto, di una attrazione fragile o addirittura di un dialogo handicappato (Juillerat, 1996), secondo alcuni ancora da cominciare (Audisio, Cadoret, Douville e Gotman, 1996; Charuty, 1992). Autori come Skultans hanno voluto cercare le radici della diffidenza di molti antropologi nei confronti della psichiatria nell'avvertimento espresso già nel secolo scorso da Durkheim: diffidare di qualsiasi modello di interpretazione della società che faccia ricorso a modelli psicologici e a processi mentali individuali. E Rivers, psichiatra ed antropologo, ha da parte sua rovesciato specularmente questa diffidenza affermando che solo un'interpretazionedi tipo psicologico poteva fornire una buona chiave di lettura dei fenomeni sociali, e alla prima questi dovevano essere pertanto necessariamente ricondotti.

In molti casi i luoghi dell'incontro fra antropologia e psichiatria o fra antropologia e psicanalisi sono stati rappresentati dalle società non occidentali: l'indagine etnografica ha costituito la porta d'ingresso privilegiato (e non eludibile) a problemi di natura propriamente psicologica o psicopatologica, e la riflessione sulle culture, la dimensione simbolica e antropologica della sofferenza, ha in misura crescente rappresentato per numerosi autori un passaggio obbligato nella loro ricerca o, per riprendere l'espressione di Ellen Corin, etnopsicologa e psicanalista canadese,"la via regia per una psichiatria scientifica"(Corin, 1990). Rechtman e Raveau (1993) hanno ribadito ancora recentemente che la questione dei rapporti fra cultura, psichismo e psicopatologia resta fondamentale e irrisolta, e Rechtman ha cercato inoltre di mostrare - a differenza di quanto troppo spesso si afferma - che Lévi-Strauss, se da un lato non aveva mancato di alludere alla necessità di un confronto serrato con discipline come la neurobiologia oltre che con la psicanalisi (un sistema simbolico né più né meno pertinente degli altri), dall'altro aveva assunto la psicanalisi meno come l'interlocutore di un dialogo che non come l'oggetto di un monologo, un oggetto esaminato con toni che quasi precorrono di vent'anni taluni approcci dell'antropologia medica contemporanea (Rechtman, 1996).

Accanto a questo classico luogo di contatto, se ne offre oggi uno ulteriore e non meno fecondo nel quale tanto l'antropologia quanto l'etnopsichiatria convergono naturalmente: si tratta dei conflitti degli spazi urbani, dello spazio delle metropoli, della coesistenza di mondi e logiche autonomi, dei multiformi profili della surmodernità e dalle sue sfide, delle nuove dinamiche delle identità collettive e individuali, delle nuove forme della soggettività e dei loro nodi capricciosi. Questi processi e la necessità di leggerli con strumenti appropriati per avvicinarsi alle dinamiche sociali e psicologiche dell'individuo sembrano riaffermare che se pure l'antropologia e la psicanalisi hanno un solo punto di contatto, questo rimane - con le parole di Foucault -"essenziale ed inevitabile: ed è quello dove esse si intersecano ad angolo retto, perché la catena significante con la quale si costituisce l'esperienza unica dell'individuo è perpendicolare al sistema formale a partire dal quale si costituiscono le significazioni di una cultura"(Foucault, 1966). Un simile incontro, che deve per altro interrogarsi anche sul significato che oggi attribuiamo alla nozione di"cultura"e di"soggetto", mi pare sostenuto anche dalla seguente duplice constatazione: 1) l'antropologia urbana non rappresenta tanto un abbandono della vocazione originaria dell'antropologia culturale, un ripiegarsi su di sé dell'etnologia, come sostenuto da Luis Dumont, quanto una necessità dettata dal bisogno di comprendere le nuove forme dell'alterità (Augé, 1992); 2) l'etnopsichiatria deve assumere l'autoriflessione critica sulle categorie epistemologiche e diagnostiche della psichiatria occidentale, sui contesti della sua pratica e sulle proprie responsabilità come un ambito di ricerca non più rinviabile (Beneduce, 1997 e 1998): non è un caso che un celebre antropologo abbia recentemente scritto della necessità di una psichiatria culturale"sovversiva"(Bibeau, 1997).

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