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Dia-tige ("ombra recisa"). Strutture antropologiche della depressione

e metamorfosi del legame sociale in Africa

 

 

 

Roberto Beneduce (*)

(*) Questo testo Saggio - tratto, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, da: M.GALZIGNA (a cura di), "La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale", Marsilio, Venezia 1999 - viene pubblicato in "POL.it" anche al fine di suscitare un dibattito e di ricevere on line critiche, consigli e suggerimenti da parte dei lettori. E' possibile comunicare direttamente con l'autore tramite e-mail [ sbbm858p@cisi.unito.it ].

 

"L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.

I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta.

Black depression.

Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.

Legame sociale, disincanto e depressione.

Bibliografia

 

 

5. Legame sociale, disincanto e depressione

La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo

di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell'umanità.

Ogni epoca si presenta irrimediabilmente moderna e ciascuna

ha le sue buone ragioni per essere così concepita

Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo

"We don't know what to teach

the children any more"

(Malus, cit. in Kirmayer, 1993)

Quali sono allora le condizioni che contribuiscono a creare la configurazione sociale e antropologica di una sofferenza come quella depressiva, come quella del suicidio? Sebbene non bisogna mai generalizzare (ad esempio, presso alcune culture il suicidio rimane tuttora un atto di libertà, non l'equivalente estremo di una sofferenza psicologica), e sebbene i modelli durkheimiani siano stati pensati per un problema come il suicidio nella prospettiva di un fenomeno sociale (dunque non utili a spiegare questo o quel particolare suicidio), possiamo ricordare con Kirmayer (1993) ed altri autori (Hunter, 1991; Reverzy, 1993; ecc.) che la deculturazione massiccia di popoli e gruppi (quale che sia la sua ragione), la deriva o l'alienazione del legame sociale, l'indebolimento della memoria comune e l'impoverimento dei meccanismi sociali e simbolici che ne permettevano il riprodursi, segnano drammaticamente il futuro di una cultura (l'impennata di tassi di suicidio o di comportamenti come l'alcolismo fra gli indiani del Nordamerica, fra i Maori della Nuova Zelanda, fra gli Aborigeni d'Australia, fra gli abitanti delle Isole della Riunione, ne costituiscono testimonianze inoppugnabili). Analoghe riflessioni sono state proposte laddove, in relazione a conflitti bellici, lutti e traumi, si è sottolineato come la categoria del disturbo da stress post-traumatico e l'approccio psico-sociale realizzato in rapporto alla sua precoce individuazione, fossero a dir poco privi di senso. Allorquando questa mancanza di speranza coinvolge un'intera comunità, un approccio individuale, che pure è utile nell'aumentare il senso di autostima e di potere personale, può rivelarsi decisamente inadeguato. Piuttosto che collocare le comunità tradizionali in un milieu terapeutico dove tutti sono preoccupati in rapporto ai problemi della salute mentale, può risultare più utile indirizzare la nostra attenzione ai problemi sociali, alla frattura prodottasi nei meccanismi che presiedono alla trasmissione delle tradizioni culturali e dell'identità collettiva, al"politico"e alla particolare modalità con la quale si definisce la forma e la legittimità della memoria. La rinascita di pratiche terapeutiche tradizionali che invocano la dimensione spirituale come una sorta di legame (con gli antenati, con un passato mitico, con il tempo delle perdute libertà, con una propria immagine valorizzata) rappresenta - nel caso specifico della Ghost Dance - una prova ulteriore di questo bisogno e dei meccanismi simbolico-sociali spontanei che spesso lo realizzano.

In conseguenza di quanto detto, possiamo affermare ora che la ricerca ostinata della presenza della"depressione"in Africa o, alternativamente, la dimostrazione della sua assenza, rappresentano strade entrambe insoddisfacenti se si resta all'interno delle categorie della psichiatria occidentale e della sua nota ossessione nosografica, con i connessi rischi essenzialisti che altre volte hanno condotto a reificare vissuti e condizioni, attribuendo loro cioè uno statuto ontologico. Lo stesso problema veniva posto già con estrema chiarezza da Sow nei termini seguenti:

"Le categorie dette classiche, puramente descrittive, esterne perché troppo generali, sono superficiali ed artificiali, e pertanto inadeguate a rendere conto delle realtà cliniche, umane, sociali e psicologiche incontrate in Africa (...)". E in nota egli aveva poco prima dichiarato:"Siamo stati sempre profondamente convinti delle aporie costitutive di una nosografia descrittiva senza il supporto di una nosologia e di una psicopatologia esplicite che la rischiarino e la rendano coerente"(Sow, 1978).

Più recentemente Kleinman affermava qualcosa di simile quando sosteneva che molti disturbi sono virtualmente intraducibili quando rimossi dalle loro naturali reti semantiche, dai loro"locali mondi morali". Rimane pertanto da comprendere quale sia la strada più idonea nell'approccio ai problemi sino ad ora discussi, ma vorrei proporne un preliminare riposizionamento, almeno parziale, a partire da una prospettiva che solo in apparenza può sembrare eccentrica.

"Fra i Goun del Benin, quando due persone si incontrano per la prima volta, quella più anziana prende l'iniziativa di domandare all'altra chi sia: quest'ultima dice il suo nome, quello dei suoi parenti da parte di madre e di padre. Se fra le due persone non viene reperito alcun legame immediato di parentela, cominciano i saluti e può poi svilupparsi la conversazione. Ma se capita che esse appartengano ad una stessa famiglia, prima di scambiare ogni altra parola, la persona più anziana ripete all'indirizzo di quella più giovane l'albero genealogico di quest'uultima risalendo nel tempo quanto più lontano possibile, poi comincia a salmodiare le lodi e le gesta dei loro comuni antenati. Ad ogni incontro si può essere così condotti ad evocare i morti, poi le persone vive: ad ogni istante l'appartenenza al lignaggio viene confermata, la filiazione è stabilita o ristabilita, in ogni caso viene ricordata"(Guyotat, Agossou e Cappadoro, 1981).

Il minlam, questo il nome del cerimoniale descritto, rappresenta un'eccellente metafora di quel legame, di quella memoria e di quella traccia che si snoda nel tempo e a partire dalle quali ha senso parlare, come si è proposta da parte di qualche autore a proposito delle culture africane, di"naturale prevenzione della depressione"(altre, più elaborate, forme di prevenzione del lutto patologico e della depressione reattiva sono riportate in Beneduce e Collignon, 1995). Credo che il minlam, come il peculiare rapporto con gli antenati e, in generale, le rappresentazioni della morte proprie delle società africane, svolgano un'azione fondamentale di supporto dell'individuo, attenuando in lui l'angoscia del divenire, la violenza della separazione e del lutto, radicandolo in un mosaico di riferimenti, di connessioni, di obblighi la cui portata terapeutica, in senso proprio, non ha bisogno di essere dimostrata: essa ci appare evidente ed immediata quando assistiamo ai rituali funerari o alle cerimonie che chiudono il periodo del lutto fra gli Evé del Togo, quando periodicamente si offrono agli spiriti degli antenati sacrifici e si versa crema di miglio sui loro altari, quando fra i Lobi del Burkina Faso si erige un altare nel corso dell'antenatizzazione di un defunto (Fiéloux, 1994), o quando fra i Dogon del Mali si augura all'anima del defunto di passare nel mondo dell'al di là, ove potrà incontrare finalmente i suoi antenati. Troviamo in questi rituali anche un'espressione esemplare, una prova empirica, della celebre nozione lévistraussiana di"efficacia simbolica"(come pure degli irrisolti problemi che ancora l'affliggono): le metafore che scandiscono la parola rituale e il ritmo delle invocazioni stanno a celebrare il tempo del mutamento e del distacco, ma insieme modificano il tono dell'umore, agiscono su stati affettivi ed emozioni, influenzano i comportamenti e le percezione dei legami che mutano, in molti casi"curano". D'altronde sono proprio questi legami che progressivamente, nel corso di mutamenti sociali o eventi quali la migrazione e l'esodo di massa, si indeboliscono; sono questi atti di riconoscimento reciproco e quotidiano, di rinnovato senso di appartenenza che, una volta perduti, lasciano i singoli sprovvisti dei fondamentali meccanismi di protezione e, potremmo dire, di riproduzione della propria identità e del senso della propria appartenenza, senza che nuovi dispositivi siano per altro già operanti.

Allorquando si dirada la trama simbolica e sociale dentro cui gli individui si definiscono e si riconoscono, si fa strada, insidioso, il rischio psichico della depressione, che la luce cruda dei processi di urbanizzazione, con i suoi effetti sulla struttura economica e familiare, rende ancora più evidente. Nelle metropoli africane, dove le risorse terapeutiche tradizionali sono anch'esse sottoposte a drammatici cambiamenti mentre, i sentimenti di solitudine, le derive della memoria del gruppo, gli insuccessi affettivi o nel lavoro, possono incontrare altre definizioni e altri dispositivi di cura. Non diversamente, anche sfumati disturbi somatici, certi dolori cronici ed inspiegabili, o la certezza di essere caduto vittima di un maraboutage, possono venir catturati da un'altra rete di significati, o definiti all'interno di un'altra ragnatela di rapporti e di nomi: ci riferiamo al discorso medico-psichiatrico e alle sue categorie diagnostiche, alla possibilità che su quelle esperienze venga finalmente apposta l'etichetta"depressione". Possiamo ricordare a questo proposito quanto scrive Kirmayer:

"Il significato dato ai sintomi e all'angoscia possono trasformare la sofferenza stessa (...). Dato uno specifico significato, la malattia diventa metafora - una risorsa retorica cioè da usare per esplorare e comunicare il significato più esteso della nostra condizione"(Kirmayer, 1994; il corsivo è nostro).

Il problema si situa proprio qui: in un contesto culturale quale quello africano, quanti riuscirebbero ad utilizzare come nuova risorsa un"significato"straniero quale quello veicolato dalla nostra categoria medico-psichiatrica di depressione, derivato da altri saperi, da altri modelli psicologici e da altri aggregati nosologici? Questo scenario non si osserva ubiquitariamente, ma rappresenta un'eventualità ormai non più rara. Le premesse antropologiche a partire dalle quali si erano mosse le critiche a quegli approcci rivelatisi poco sensibili alla dimensione culturale, s'incontrano qui con la necessità di risituare la psicopatologia della black depression dentro il mutevole quadro del contesto sociale e simbolico che di volta in volta la caratterizza: solo una volta che ci si sia collocati per intero al suo interno possiamo arrivare a disegnare, della condizione che solo per semplicità continuiamo a etichettare come depressione, un profilo intelligibile. Ma per evitare di reificare, dopo le malattie, anche concetti come life event, supporto sociale, fattori di protezione, la clinica e l'antropologia della depressione, insieme all'etnolinguistica e alle altre discipline di cui abbiamo prima ricordato i contributi, devono necessariamente procedere gomito a gomito, entrambe affondando i piedi fra le conflittuali dinamiche del senso e del potere e fra i meccanismi che contribuiscono a far emergere o riprodurre in altre realtà geografiche esperienze, categorie, sintomi della depressione. Non è un modello di ricerca facile da realizzare, e le categorie usuali sembrano vacillare insieme alle risposte e a quelle prospettive dicotomiche che hanno sempre dominato in psicopatologia. Le domande che si pongono, per ricordarne solo qualcuna, sono quanto mai dense: l'identità culturale è solo un'invenzione degli antropologi o una dimensione forte e irriducibile dell'esistenza? non è forse il caso di chiedersi meno se esista o no l'identità etnica quanto piuttosto in quali contesti essa assurge a caratteristica dominante o unica di un'interazione fra gruppi e individui? i legami familiari e di lignaggio costituiscono la realtà più profonda dell'individuo nelle culture africane o rappresentano unicamente costrutti che nascondono percorsi esistenziali e scelte autonome non dissimili da quanto accade nelle società occidentali? l'universalità dello psichismo è un fatto indiscusso o possiamo costruire modelli in cui siano evidenti anche i luoghi in cui tale principio vale solo in parte e altri modi, altre sue realizzazioni diventano evidenti? la modernizzazione ha fra i suoi costi inevitabili un accresciuto rischio di depressione o non consente, alternativamente, anche l'esplorazione di altre risorse nell'individuo e nel suo gruppo di appartenenza? Risposte soddisfacenti o riformulazioni utili di tali interrogativi non possono derivare che da una pratica e da una riflessione profondamente mutate, dove lo sguardo dell'epidemiologo, l'ascolto del clinico, l'interpretazione dell'antropologo sono l'uno accanto all'altro, e solo così possono utilmente proseguire il loro lavoro di frontiera. Non è un caso se Augé (1997) nuovamente riprende il suo studio sulla comunità di Bregbo, condotto oltre vent'anni fa, per ritrovare nell'esperienza dei profeti-guaritori della Costa d'Avorio singolari premonizioni delle dinamiche e dei problemi ai quali oggi l'uomo di ogni società di questo pianeta si trova confrontato. Le inusitate esperienze della solitudine sono la prova imprevista per molti, ovunque (nelle metropoli africane come in quelle dell'Occidente estremo), e Augé coglie nel comportamento di Atcho e di altri come lui che si sono ispirati al profeta Harris la singolare anticipazione di riflessioni, conflitti, strategie e problemi che sono oggi propri della surmodernità:

"I suoi successori (...) cercheranno di proporre una riflessione d'insieme sul senso dell'attualità. Per loro, la malattia individuale è uno dei sintomi di tale attualità (per esempio, la punizione della menzogna, dell'invidia e della gelosia che frenano lo spirito del progresso), e la guarigione dimostra la fondatezza di questo discorso e di questa riflessione (...) Ma si può andare oltre e affermare che i movimenti profetici in se stessi costituiscono un'anticipazione, se non una profezia, di una situazione oggi generalizzata e condivisa da tutti: la mondializzazione del pianeta. I popoli colonizzati sono stati i primi a farne l'esperienza perché sono stati i primi a subirla (...). I soggetti colonizzati hanno fatto una triplice esperienza che è oggi anche nostra e che loro hanno pagato dolorosamente: l'esperienza dell'accelerazione della storia, del restringimento dello spazio e dell'individualizzazione dei destini".

I percorsi della mente umana disegnati dall'evoluzionismo psichiatrico di questo secolo sembrano qui rovesciarsi, e le inquietudini che credevamo specifiche delle solitudini urbane dell'Occidente mostrano di avere i loro presupposti ovunque, anche in quelle culture tradizionali dove lo sguardo post-romantico aveva colto spesso solo armonia e solidarietà. I processi economici e le dinamiche del potere (ieri quello coloniale, oggi quello della globalizzazione dei mercati) s'intrecciano ostinatamente alle cosmogonie, i rapporti di forza raschiano la superficie levigata dei simboli e costringono individui e gruppi a popolare le loro memorie di altre metafore, di altre angosce, di altre parole. Il senso di colpa, l'avventura ambigua dell'emigrazione, l'individualizzazione dei destini sono l'inevitabile riflesso delle metamorfosi del legame sociale: il mondo esterno e i legami che lo popolano possono farsi radi, veder diminuita la loro densità, disincantarsi e l'individuo scopre l'inumana potenza della sua solitudine e del suo Io. Le vie neurobiologiche della depressione non confutano questa prospettiva: esse sono solo il pallido nome per una condizione che, se è presentata come un drammatico problema epidemiologico, lo è diventato anche nella misura in cui forse meglio di altri mostra il profilo inquieto del nostro tempo.

L'etnopsichiatria della depressione che ho provato a tracciare a partire dalle rappresentazioni della morte, dalla percezione e dall'organizzazione rituale dello spazio in alcune culture africane, dalle trasformazioni del legame sociale o dalle sue peculiari espressioni, non cerca di dare risposte definitive alla questione di che cosa sia la depressione e perché essa mostri così significative variazioni di incidenza: più semplicemente essa prova ad allargare l'orizzonte della domanda clinica ed epidemiologica ricollocandone le premesse fra categorie eminentemente antropologiche e storiche, e così facendo spera di poter contribuire a problematizzare in modo più efficace anche il significato delle strategie di cura (spontanee o savantes che siano).

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