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Dia-tige ("ombra recisa"). Strutture antropologiche della depressione

e metamorfosi del legame sociale in Africa

 

 

 

Roberto Beneduce (*)

(*) Questo testo Saggio - tratto, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, da: M.GALZIGNA (a cura di), "La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale", Marsilio, Venezia 1999 - viene pubblicato in "POL.it" anche al fine di suscitare un dibattito e di ricevere on line critiche, consigli e suggerimenti da parte dei lettori. E' possibile comunicare direttamente con l'autore tramite e-mail [ sbbm858p@cisi.unito.it ].

 

"L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.

I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta.

Black depression.

Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.

Legame sociale, disincanto e depressione.

Bibliografia

 

 

3. Black depression

Fra le difficoltà comunemente invocate nelle ricerche etnopsichiatriche sulla depressione quelle linguistiche sono certo le più frequenti. Si è spesso sottolineata, ad esempio, la mancanza di un termine corrispondente a quello di"depressione"nelle lingue delle culture africane di volta in volta considerate. L'obiezione più ovvia a questa osservazione (dalla quale deriverebbe la prova dell'inesistenza della depressione in Africa), è che non necessariamente l'assenza del termine indica l'incapacità di concepire o rappresentare il corrispondente denotatum (a simili conclusioni era giunta, in altro ambito, la ricerca di Berlin sulla percezione dei colori). Ma quando si è provato a individuare espressioni che potevano in qualche modo essere assimilate alla nozione di depressione ci si è trovati confrontati con ben altri problemi.

Nel caso della lingua Yoruba (Nigeria), la traduzione letterale per i termini 'depressione' ed 'ansia' sarebbe"il cuore diventa debole"e, rispettivamente,"il cuore non è a riposo". Queste traduzioni, tante volte riportate nei lavori di psichiatria transculturale, suonano come la conferma indiretta di un altro assioma: le culture africane non psicologizzano ma somatizzano, la capacità di discriminare fra stati emozionali è bassa, prevalgono i riferimenti al corpo o ad organi simbolicamente pregnanti (come la testa o il cuore, per rimanere nell'esempio yoruba), non esistono pertanto le premesse per poter discorrere intorno alla propria condizione interiore, ai propri vissuti. Se depressione esiste, essa si manifesterebbe dunque prevalentemente sotto forma di disturbi somatici o somatoformi. Queste conclusioni possono essere assimilate in buona parte al modello evoluzionistico di Leff (1981), che proponeva nel suo studio sull'espressione delle emozioni l'idea (ripresa da un lavoro di Miner del '52) di un continuum che evolveva nel tempo da un lessico o"modo"somatico ad uno psicologico: quest'ultimo proprio delle culture occidentali, almeno nelle classi medio-alte e scolarizzate

Contro questo modello si è battuto Bibeau (1981), riprendendo dalla sua lunga esperienza di lavoro fra gli Angbandi dello Zaire numerosi esempi che dimostravano la ricchezza lessicale della loro lingua e la connessa possibilità di sottili differenziazioni fra stati di rancore o di gelosia secondo lo statuto sociale di colui che li provava, la causa particolare che li aveva generati, ecc. Più in generale, riflessioni come quella di Beeman (1985), contribuiscono a dissolvere l'idea secondo la quale i linguaggi occidentali siano più sviluppati perché meglio differenzierebbero l'espressione degli stati psicologici o"interni"(idea che, in forme solo di poco rinnovate, ripropone un precedente assunto: quello inerente alla presunta inadeguatezza del pensiero"primitivo"nell'elaborazione e comunicazione dei concetti astratti e nella narrativizzazione dell'interiorità).

Lutz ha da parte sua dimostrato, a partire da ricerche condotte in un altro contesto geografico e culturale (l'Asia), come le distinzioni fra mondo interno ed esterno, fra emozioni come atti non intenzionali, soggettivi da un lato e cognizioni dall'altro, fra eventi interiori ed azioni, fra disturbi affettivi e disturbi del pensiero, ineriscano a costrutti culturali tipicamente occidentali: primo fra tutti quello che distingue natura e cultura (le categorie diagnostiche relative alla depressione riflettono precisamente tali costrutti, e non possono pertanto essere rivendicate come universali): a Bali, nelle isole Marchesi, in Micronesia, un diverso orientamento epistemologico connota esperienze ed espressioni della sofferenza in modo altrettanto diverso. Più in particolare, a partire dall'analisi etnosemantica delle espressioni adottate dagli Ifaluk (Micronesia) per riferirsi a diverse condizioni emozionali, l'autrice mostra come tali espressioni non rinviano tanto ad un mondo interno, individuale (quello che, secondo Leff, solo una maggiore familiarità con il lessico psicologico ed introspettivo permetterebbe di esprimere appropriatamente, ben al di là del"modo somatico"), quanto ad un ricco intreccio di coordinate situazionali, relazionali (gerarchie sociali, ad esempio) o propriamente morali (Lutz, 1985).

Nel mio lavoro in Mali, quando ero accanto ai guaritori dell'altopiano dogon specialisti nella cura della follia, quando li osservavo mentre ricevevano i loro pazienti e prestavano loro le cure, ho avuto occasione di registrare un'analoga ricchezza semantica in merito all'espressione e alla rappresentazione dei sentimenti di angoscia e di afflizione. Ad esempio, il termine usato per indicare uno stato di preoccupazione, di ansia, è àlmi; ma quando lo stato di inquietudine supera un certo livello, si può utilizzare il termine ku-kommu, letteralmente"testa legata", cioè"avere un'idea fissa", che bene esprime quella condizione in cui tutta la nostra esperienza è come assorbita da un solo, ricorrente pensiero, il nostro mondo si contrae in esso, e diventiamo incapaci di pensare ad altro. Uno stato di tristezza che non sia accompagnato invece da particolare preoccupazione può essere espresso come kinde yayade, ossia"cuore, interno che piange"(5). Uno stato di considerevole angoscia, di profonda sofferenza, viene indicato con l'espressione kinde yamu,"cuore guastato, rovinato", ma anche, per gli altri significati del termine kinde indicati in nota,"principi spirituali guastati, deteriorati". La grave perdita di interesse per il mondo circostante e per la vita in generale fu resa da una paziente ricorrendo all'espressione seguente:"il mio cuore è disgustato con ogni cosa". La condizione di dubbio, di incertezza, viene tradotta con l'espressione kinde lei lei (letteralmente"cuore due due"o"cuore doppio": essere cioè fra due cose, fra due possibilità, fra due stati mentali ad uno stesso tempo; analoga soluzione esiste in bamanan, lingua parlata in Mali dal gruppo etnico maggioritario, i Bambara, i quali indicano la condizione di dubbio e di incertezza con l'espressione hakili fila fila,"spirito due due, spirito doppio") (Beneduce, 1996).

Proprio in bamanan, Koumare e Coudray, psichiatri operanti presso l'ospedale psichiatrico di Bamako (Mali), avevano indagato l'articolazione lessicale in merito a questi stessi stati psicologici. Dall'esame del termine kamanagan adoperato da un loro paziente, relativo a una condizione che non sembra mostrare via d'uscita nella consapevolezza di non poterne uscire comunque da soli (formulazione implicita dunque di una richiesta di aiuto), gli autori avevano tratto elementi per definire un ben più complesso albero semantico: prima di giungere alla condizione di kamanagan, come in un gradiente, c'è uno stato iniziale che possiamo identificare cone l'esperienza dello stare in pena e del rammarico (son ja e, rispettivamente, jigi tige). Si raggiunge poi, in situazioni di maggior vacillamento e sofferenza psichica, quello stato di profonda perplessità, d'incapacità a risolversi a prendere una qualsivoglia decisione che viene indicato con il termine kononagan, per giungere infine alla condizione di kamanagan e di totale, disperato abbandono (dabali ban). Un crescendo negli stati di ansia sino all'angoscia estrema viene descritto dai termini ja tige ("ombra, doppio reciso"), ja pan ("doppio volato via"), ja menen ("doppio bruciato") (Koumare e Coudray, dattil. non pubb.). Ja (o dia) costituisce una delle componenti fondamentali della persona nella cultura bambara (CNRS, 1981), e tali espressioni pertanto celano un ulteriore problema: la rappresentazione della persona, dell'individuo, delle sue componenti, della sua origine e del suo destino come aspetti fondamentali ed ineludibili nei nostri tentativi di comprensione degli stati emotivi, delle condizioni di sofferenza, della depressione eventualmente, in altre culture. Ma quante ricerche transculturali, approdate alla conclusione che non era possibile riconoscere sindromi e vissuti di ordine depressivo nelle culture indagate, hanno svolto con accuratezza queste preliminari ricerche? E quante invece, per giungere alla medesima conclusione, si sono limitate a mostrare foto e disegni rappresentanti attitudini"tipiche"della depressione?

I brevi esempi ripresi dalla cultura dogon e da quella bambara testimoniano, se ve ne fosse stato ancora bisogno, la disponibilità di un elaborato lessico"psicologico"nelle culture africane, la capacità di distinguere fra stati emotivi anche di poco diversi per intensità e struttura, e la presenza di una accurata fenomenologia delle esperienze di ansia, di angoscia, di incertezza, di esitazione, di disperazione (fenomenologia che da queste stesse espressioni può essere direttamente desunta).

L'ipotesi citata all'inizio di questo paragrafo ci sembra definitivamente confutata. Tuttavia dobbiamo riconoscere che in queste espressioni i rinvii al corpo (testa, cuore, ecc.), sebbene in parte ovvi in quelle culture dove si registra da un lato l'assenza di una rappresentazione"cartesiana"della persona e dall'altro il ricorso ad un modello medico di tipo umorale, sono sin troppo frequenti. Qui si annida però a mio avviso un secondo equivoco, questa volta non generato dallo scarso approfondimento etnosemantico preliminare di molti studi quanto derivante piuttosto dal confondere le metafore del corpo per un indice di scarsa capacità d'introspezione, di difficoltà alla verbalizzazione, e così via. Ancora una volta il nostro pregiudizio psicologistico, ed il"gioco linguistico"prodotto da molte delle psicologie del nostro secolo, rischiano di nasconderci che la potenza comunicativa di queste espressioni è considerevole, che l'ordito alla cui trama esse partecipano è quanto mai sofisticato, e che esse hanno probabilmente nei locutori che le pronunciano o le ascoltano un'eco maggiore per il fatto stesso che l'immagine riverberata origina proprio dal corpo o da sue parti: da quel corpo che è"materia e forma del simbolismo"(Augé), e che in talune culture giunge ad impregnare ed informare l'intera esperienza dei parlanti (Fedry, 1976). Nell'ascoltarle, nel rievocarle, noi sentiamo come una prossimità inusitata con tali esperienze, sentiamo che esse sono prossime a quell'embodied thinking di cui ha scritto Michelle Rosaldo, che la loro potenza deriva dall'attingere a un'esperienza comune: e cioè che emozioni ed affetti disincarnati, come già rilevava James agli inizi di questo secolo e oggi ricorda Kleinman, propriamente parlando non esistono, e che pertanto"il corpo", con il suo sentire, rappresenta la sorgente inesausta di metafore e significanti capaci di veicolare esperienze complesse. Lo ripetiamo: il silenzio o la scarsa attenzione delle passate ricerche su questi temi hanno avuto certo un ruolo nel concludere che la depressione era assente o mascherata nelle società africane (Beneduce e Collignon, 1995).

Riassumendo, abbiamo riconosciuto che 1) non mancano i termini per esprimere stati di angoscia, di depressione o altre condizioni che condividono con esse la stessa"aria di famiglia", 2) questi termini, pur facendo talora riferimento al corpo, veicolano con straordinaria efficacia comunicazioni concernenti vissuti, emozioni, stati"interni", esperienze psicologiche: intessono cioé una complessa ragnatela che è già una fenomenologia della sofferenza psichica, sottilmente ma tenacemente connessa al peculiare mondo della vita di queste culture. In esse le diverse condizioni (di ansia, di irritabilità, di incertezza, di disperazione) possono essere collocate, narrate e riconosciute adeguatamente. Se dunque la depressione, per come viene definita dai manuali della psichiatria occidentale, sembra essere meno frequente, a diversa espressione clinica o addirittura"mascherata"nel contesto di vita africano, le ragioni devono essere altre e forse rinviano soprattutto all'infondatezza della metodologia adottata e dei suoi stessi interrogativi ("esiste la depressione, la schizofrenia, la bulimia in Africa?").

Ma, a partire dall'esempio bambara e dal concetto di doppio e di ombra prima evocati a proposito degli stati di angoscia, si era detto che in essi viene alla luce anche la particolare rapresentazione dell'individuo e della persona (e, torniamo a ipotizzare, la peculiare struttura dello psichismo umano all'interno di un contesto culturale specifico). Senza approfondire un tema il cui spessore ci porterebbe quanto mai lontani (con le connesse nozioni di volontà, di responsabilità, di colpa, ecc.), è necessario ricordarne sommariamente alcuni aspetti: quelli in particolare riguardanti il rapporto fra l'individuo e il gruppo, l'individuo ed il mondo a lui circostante, perché è in relazione a questi rapporti che si struttura ed organizza anche l'espressione più caratteristica della depressione nelle società africane (soprattutto in quelle dove i cambiamenti sono stati meno accelerati): ossia l'istanza persecutoria. Riprendiamo a questo proposito alcuni passaggi da Ibrahima Sow (1978):

"La rarità, o meglio l'assenza di psicosi malinconiche e paranoiche e di nevrosi ossessive, per essere spiegata, deve essere messa in rapporto alla strutturazione della persona/personalità nella cultura africana. Queste forme cliniche, perfettamente individuate nella nosografia internazionale, rinviano ad una interiorizzazione estrema dell'istanza persecutoria; in un certo linguaggio, si potrebbe dire che in Africa gli interdetti relativi alla condotta sono ingiunti tardivamente al bambino (dopo i 6 anni), ed è difficile parlare di una istanza della legge (Super-Io) interiorizzata ed individualizzata; il controllo morale, benché ovunque presente, resta esterno all'individuo in quanto tale".

"Non si può concepire una psicologia e, a fortiori, una psicopatologia africana senza riferimento alle strutture antropologiche dell'esperienza di sé nelle tappe della vita tradizionale:

- da una parte, la persona africana non è un sistema chiuso, che si oppone al mondo esterno; l'individualità, in modo più netto che altrove, non può esser qui pensata che in stretto rapporto con tutto ciò che la circonda: un ambiente popolato da significanti culturali in un universo esso stesso onnistrutturato;

- d'altra parte, la persona/personalità africana non è un sistema"compiuto" (intorno ai 3-5 anni, ad esempio): l'essere umano, in quanto tale, è in un farsi perpetuo (...). Lo statuto di Persona non è realmente acquisito che con la vecchiaia, che è vicina al mondo degli antenati. Inseparabile dalle sue dimensioni sociali, la persona africana appare composita nello spazio, multipla nel tempo...".

Le parole di Sow (in assonanza con le ipotesi espresse da Murphy sul ruolo dello stile educativo dell'infanzia, del legame sociale, e delle loro recenti trasformazioni nella protezione o, all'opposto, nell'esposizione dell'uomo africano ad un analogo rischio di depressione), sottolineano come sia proprio nella maturità, nella vecchiaia, quando si è vicini cioè alla morte, che la persona raggiunge nella rappresentazione delle culture africane - quasi paradossalmente - il culmine della sua forza sociale, del suo potere; inoltre, i processi di interiorizzazione non raggiungono quella violenza che è propria dei nostri modelli culturali, dal momento che il senso dell'evento quotidiano, dell'esperienza e la stessa dimensione normativa vengono generati in prevalenza da istanze esterne (gli antenati, i geni e gli spiriti che popolano quello che l'autore definisce come il"mesocosmo"). Le sue osservazioni mettono in rilievo come l'individuo sia costantemente preso in un tessuto sociale non certo privo di conflitti e lacerazioni, tuttavia"denso"di senso e intrecciato di rapporti e connessioni; soprattutto, le sue parole ci dicono che l'individuo non cerca dentro di sé, pervicacemente, la risposta al suo Desiderio, non conduce una solitaria (e solipsistica) lotta contro i limiti dell'esistenza e le sue inquietudini: la famiglia, il gruppo, il villaggio, il clan, sono istanze sociali (e simboliche) che concretamente soccorrono in queste lotte il singolo individuo, pur se al prezzo di non poche rinunce.

Così definita, la struttura dell'immaginario africano, almeno nel suo assetto tradizionale, allorquando cioè esso riposi sull'organizzazione abituale della vita del villaggio, parrebbe naturalmente protetta dall'evento della depressione. L'individuo non è concepibile che all'interno di questa trama che lo accompagna ovunque, è stato scritto, che ne pervade le strutture psichiche, che permette un'attenuazione (quando non la risoluzione) delle prove più minacciose per il suo equilibrio.

Tuttavia, senza mettere in discussione i fondamenti di queste analisi, altri ricercatori si sono adoperati per mettere in rilievo piuttosto la dimensione di conflittualità esistente fra l'individuo ed il gruppo, i costi psicologici che il primo paga perché non venga erosa la coesione del secondo, i drammi che una rigida gerarchizzazione (di genere, di età, di caste, ecc.) talvolta comporta, facendo sì che il desiderio ed il progetto del singolo finiscano spesso con l'essere sacrificati a vantaggio della collettività. D'altronde anche sul piano del mito non mancherebbero elementi per cogliere i nessi fra queste interconnesse dimensioni della trasgressione, della colpa, della sanzione: Luc de Heusch (1976) analizzava la figura della volpe pallida (che, nella mitologia dogon, esemplarmente incarnerebbe le contraddizioni della condizione umana), mettendola in rapporto con la rivolta del figlio nei confronti del padre, l'incesto, la circoncisione e il significato del sacrificio. Heusch giunge sino ad ipotizzare un parallelo fra la mitologia dogon da un lato, Totem e Tabu dall'altro: la prima come una sorta di"rovescio"del secondo (castrazione e morte del figlio in luogo del parricidio proposto dal paradigma freudiano). Altri (René Girard e Maurice Godelier, ad esempio) hanno espresso riserve relativamente a simili interpretazioni del sacrificio: noi ci accontentiamo di aver evocato queste tracce che hanno comunque il pregio di riproblematizzare il nesso filiazione, rivolta contro la legge, colpa, sanzione, morte mostrandone espressioni e profili che non siano unicamente quelli ben noti della cultura giudaico-cristiana e della nozione di depressione che, in quella, troverebbe le sue radici"ontologiche"(Pewzener-Apeloig, 1993). Un altro motivo ci soccorre in questo riposizionamento dei termini del problema, stranamente trascurato da molti ricercatori che pure fra i Dogon hanno a lungo lavorato: quello del significato stesso dell'etnonimo.

Bouju (1995) s'interroga in modo originale sul costituirsi dell'identità dogon, sulla dimensione dell'etnicità dogon, e soprattutto sui modi che contribuiscono a delimitare questa identità (rispetto degli interdetti, regole matrimoniali, forme di reciprocità che marcano frontiere sociali, appartenenze: ciò che in parte sarà ripreso più innanzi). Ma l'autore ci offre anche un prezioso elemento di riflessione ricordando l'etimologia dell'etnonimo: dogó significa"il disonore, la vergogna"e si oppone a ogó,"l'onore, il comando, la ricchezza". L'etnonimo si riferirebbe dunque alla categoria morale di coloro che, conoscendo ciò che è la vergogna in quanto liberi di nascita (cioè non schiavi), hanno il senso dell'onore. Un dogó-no (un Dogon) sarebbe"qualcuno che appartiene alla famiglia di coloro che hanno il senso dell'onore". Gli obblighi, gli interdetti da osservare, i riti da compiere (odé yeyé , dove odé è"cammino, viaggio, rito"), costituiscono nel loro insieme la cultura dogon (dogó odù, letteralmente"la via dogon"). Ci sembra interessante notare che nell'etnonimo stesso sia inscritta la dimensione della vergogna e del disonore, allusiva di una infrazione antica, di una colpa mitica, di antiche dispute ed errori di cui l'etnonimo parrebbe essere il ricordo perpetuo. Anche Van Beek (1991) non manca di rilevare questo aspetto e di fare a questo proposito un'ipotesi:

"I segreti dei Dogon non sono affatto del genere di quelli iniziatici. Il sapere definito dai Dogon come segreto è in fatti del genere"scheletri nell'armadio". I segreti meglio custoditi nella società dogon appartengono a fatti che li disonorano e li umiliano in quanto membri delle loro famiglie o dei loro lignaggi: come ad esempio alcuni conflitti lontani, o i meccanismi e le strategie di riconoscimento relativi alla stregoneria e alla magia. La vergogna (dogo) è un concetto cruciale che è stato trascurato da Griaule, fra gli aspetti più ambigui della cultura dogon e continuamente nascosto sotto il tappeto nelle relazioni con gli stranieri. Anche fra loro i Dogon parlano con molta difficoltà di vecchie dispute o di sospetti attuali di stregoneria. Sarebbe disonorevole sia per loro stessi che per chiunque senta parlare di cose disdicevoli. Dal momento che una delle cose peggiori nella cultura Dogon è una accusa falsa, che causa l'immeritata perdita della faccia in colui che è stato erroneamente accusato, le persone sono molto caute quando parlano".

È davvero strano che tanti psicanalisti e neuropsichiatri abbiano accettato l'armonia di un popolo come testimone dell'assenza di conflitti senza interrogarsi sul suo significato, sui resti ai quali alludeva, giungendo a pensare quella cultura come vaccinata contro sensi di colpa originari. Se i meccanismi che presiedono al legame sociale e alle forme della narrazione sono così accurati nel prescrivere norme che contengano la conflittualità, che evitino riferimenti o allusioni a dissidi lontani e accuse come quelle di stregoneria (che segnano proprio nel legame sociale e fra lignaggi una sorta di catastrofe), la naturale conclusione avrebbe dovuto essere piuttosto che il senso di una colpa atavica e il sentimento di disonore che ne sarebbe derivato (inscritto nell'etnonimo stesso) potrebbero essere alla base di una complessa e sempre rinnovata strategia simbolica e rituale di trattamento degli effetti psicologici che agli individui pongono tensioni, vincoli, rinunce, eventi, sfide dell'esistenza: certo non che l'esperienza individuale della colpa, del fallimento, dell'umiliazione e dell'esclusione, o se si preferisce della depressione, siano ontologicamente estranei a questa cultura!Non si situa il mito di fondazione stesso di questo popolo nel solco di una trasgressione quale l'incesto? Non sarebbe quest'ultimo all'origine di un sapere particolare quale quello della divinazione? (Griaule e Dieterlen, 1965; Michel-Jones, 1978)

Da un'altra prospettiva, eminentemente etnopsicologica, Ellen Corin (1980, 1985) ha indagato le dinamiche del conflitto interpersonale e generazionale offrendo suggerimenti preziosi per riconoscere proprio nell'evento della malattia, o in un rituale come quello dello zebola messo in opera per la cura degli stati di possessione in Zaire, il sentiero tortuoso ed originale attraverso il quale ci si può riappropriare di una dimensione individuale, ridefinendo e negoziando il proprio statuto di soggetto. Al di là dell'arricchimento prospettico che il contributo di Corin ha reso possibile (evitando che si restasse prigionieri, in altri termini, di talune concezioni manichee che opponevano l'individuo occidentale, con la sua maledizione originaria, al gruppo africano, eternamente benevolo e protettivo), preme qui evidenziare che proprio questa dialettica, soprattutto se collocata all'interno delle più complesse e spesso drammatiche dinamiche sociali (si pensi alle guerre di questi anni), ci lascia intravedere che un rischio psicopatologico consistente, anche di tipo depressivo, può generarsi nelle faglie dell'organizzazione sociale tradizionale (Collomb e Collignon, 1974). Non voglio ripercorrere per intero il dibattito sul ruolo della modernizzazione e della deculturazione nello sviluppo delle sindromi depressive nel continente africano, ma almeno ricordare una ricerca antropologica che riprende proprio l'interrogativo centrale sullo sviluppo del senso di colpa e delle autoaccuse nelle società in transizione.

Si tratta dell'analisi condotta da un'équipe di ricercatori a Bregbo, in Costa d'Avorio. Qui il profeta Atcho aveva costruito una comunità alla quale giungevano persone affette da diverse malattie (in molti casi malattie mentali) per ottenere salvezza e guarigione (Piault, 1975). La condizione perché il processo terapeutico e salvifico disegnato sullo sfondo dello harrismo (una delle religioni sincretistiche sviluppatesi nel corso del nostro secolo nell'Africa Occidentale) potesse essere svolto con successo, era la confessione pubblica, da parte dei malati-adepti, delle loro colpe"diaboliche"(essi si accusavano in altre parole di aver compiuto innumerevoli omicidi, di provare desideri inconfessabili e di altre colpe terribili, frutto della presenza demoniaca). La lettura che ce ne offrono Zempleni ed Augé è esemplare prece riesce ad evidenziare l'articolarsi complesso fra trasformazioni economiche e sociali da un lato (la modernizzazione dello stato ivoriano, il suo"miracolo economico"che si andava intrecciando alla distruzione dei legami del villaggio, alla dissoluzione delle antiche alleanze di lignaggio e alla soppressione dei nessi anche simbolici della filiazione) e mutamento psicologico ed antropologico negli individui dall'altro. Alle loro coscienze"deterritorializzate"e"monadiche", il discorso di Atcho si offriva come risorsa unica ed estrema di"transizione"fra mondi diversi, transizione nel corso della quale molti erano quelli votati alla sconfitta, all'insuccesso, alla deriva del loro progetto economico. Nonostante la relativa funzionalità della comunità di Bregbo alle logiche del potere governativo, Zempleni vi coglieva inoltre come la possibilità di una negoziazione, di una mediazione nei confronti di un processo altrimenti intollerabile, nel quale potevano essere individuati elementi di conflittualità e di opposizione (desumibili, questi ultimi, anche dal contraddittorio atteggiamento del governo al suo riguardo).

Rimane sullo sfondo questo: le trasformazioni economiche, mai naturali ed oggettive, che sono proprie dei processi di modernizzazione ed urbanizzazione che hanno scandito in molti paesi africani il periodo coloniale e post-coloniale (ne abbiamo visto esempi nel corso delle monoculture intensive di arachide in Senegal e nella Casamance o di cacao in Ghana), inducono nel soggetto così atomizzato e allontanato dall'orizzonte del proprio villaggio, da quella cosmogonia quotidianamente reiterata e riprodotta attraverso rituali e sacrifici, gerarchie dello spazio e modi di riproduzione del legame sociale, una profonda modificazione della percezione di se stesso, dei confini della propria persona, delle proprie responsabilità, del senso del proprio destino Sono queste le premesse"idonee", ovunque, allo sviluppo di sintomi persecutori o depressivi che permettono di concludere che in Africa come altrove la condizione depressiva può essere"costruita"ed esperita. Essa non deve però essere riconosciuta in questi contesti quasi si trattasse di un'essenza o adottando il profilo sintomatologico ritagliato sulla definizione diagnostica della psichiatria occidentale, quanto piuttosto nel senso di una"condizione"presa nel mutevole ed imprevedibile gioco delle definizioni, delle egemonie culturali e discorsive, delle categorie del linguaggio comune quanto di quello medico-psichiatrico (del loro successo o del loro declino), non meno che sullo scenario delle relazioni umane e del loro mutare: relazioni che sono sempre, al medesimo tempo, di potere (di forza) e di senso (Augé, 1977).

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