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spazio biancoJaspers e Freud, ovvero i limiti della psicoterapia ad orientamento fenomenologico

di Mauro Fornaro

Repliche di Salvatore Manai e di Andrea Angelozzi


1) Prima parte del contributo di Mauro Fornaro
2) Seconda parte del contributo di Mauro Fornaro
3) Commenti di Andrea Angelozzi e Salvatore Manai
4) Risposte di Mauro Fornaro
5) Repliche di Salvatore Manai e di Andrea Angelozzi

30/12/97, Salvatore Manai:

Riprendo il discorso su Jaspers e l'orientamento fenomenologico, non prima di aver ringraziato Mauro Fornaro per la generosità profusa nella sua risposta e per gli innumerevoli stimoli che in essa ho trovato. Un grazie anche a Paolo Migone per la sua ottima regia nell'ambito delle discussioni intorno alla psicoterapia e a Marco Longo per l'ospitalità che ci offre nella lista di discussione "Psicoterapia" di Psychomedia.

Caro Fornaro, giustamente tu osservi (i simboli ">" a sinistra di ogni riga indicano citazioni dalla E-Mail di Fornaro del 26/12/97 [N.d.R.]):

> - Richiami molti nomi di fenomenologi, ma divergenti sono le posizioni tra
> di essi e anche l'accezione di fenomenologia non è univoca. Pertanto, se si
> vuole fare un discorso più approfondito occorre aver la pazienza di
> contestualizzare i concetti autore per autore.
...
> In altre parole, e penso anche all'intervento di Angelozzi, mi pare un errore
> storiografico leggere lo Jaspers della "Psicopatologia" attraverso Husserl:
> Husserl, più che suo maestro mi appare a lui parallelo.

Mi troverei senz'altro d'accordo, se l'intento fosse quello di narrare la storia del pensiero fenomenologico in base a specifici criteri metodologici. Ciò che avevo in mente, accostando i vari autori, era tutt'altra cosa. Come avrei potuto altrimenti citare nella stessa pagina un Pirrone di Elide accanto a un Binswanger? Mi è su questo punto di conforto proprio una citazione dall'Existenzphilosophie di Jaspers:

...La comprensione storica dei grandi maestri del passato si distingue dall'assimilazione di ciò che in ogni tempo è sempre stato attuale in ogni filosofia. Anzi soltanto questa assimilazione rende possibile la comprensione storica di quanto è ormai lontano, ed a noi è divenuto anche estraneo... (K. Jaspers, La filosofia dell'esistenza, Bari: Laterza, 1996, p. 14).

La mia opinione è appunto che la nozione di epoché come "sospensione del giudizio" sia sempre stata presente nella storia del pensiero e che sia del tutto attuale. Questo soltanto volevo mettere in evidenza. Poi dici:

> Non so, ad esempio, quanto la nozione cara a Husserl di epoché
> abbia rilevanza in Jaspers; mentre certo Jaspers ha difficoltà
> ad accettare la nozione husserliana di intuizione eidetica.

In effetti lo stesso Jaspers afferma:

...Husserl usò il termine [fenomenologia] inizialmente per designare la "psicologia descrittiva" delle manifestazioni della coscienza - e in questo senso si applica nelle nostre indagini - ma in seguito per la "intuizione dell'essenza", che qui non prendiamo in considerazione. La fenomenologia è per noi un procedimento empirico; viene soltanto mantenuto per la comunicazione da parte del malato (K. Jaspers, Psicopatologia Generale, Roma: Il Pensiero Scientifico, 1964, p. 58, nota 1).

Per quanto riguarda la nozione di epoché, intesa come "sospensione del giudizio", in quale altro modo possono essere interpretate le seguenti parole di Jaspers?

Ci dobbiamo rappresentare in modo vivo ciò che avviene veramente nel malato, ciò che egli ha veramente vissuto, come sia sorta qualche cosa nella sua coscienza, come egli si senta; per questo si deve prescindere innanzitutto dallo stabilire relazioni, dal considerare la esperienza vissuta su un piano generale, e ancor più dall'integrare con l'immaginazione, dal ritenere qualcosa come fondamentale, da concezioni teoriche. Solo ciò che è veramente presente nella coscienza può essere rappresentato in modo vivo, tutto ciò che non è dato realmente nella coscienza non è presente. Dobbiamo lasciar da parte tutte le teorie che sono giunte fino a noi, tutte le costruzioni psicologiche, tutte le pure interpretazioni ed i giudizi, e dobbiamo interessarci solo a ciò che possiamo comprendere, distinguere e descrivere nella sua vera esistenza... (ibidem, p. 58).

Un'altra tua importante osservazione riguarda il tuo seguente punto:

> - Una breve nota sull'uso del termine rappresentazione. Lo intendo,
> personalmente, in un senso assai affine a quello di fenomeno, anzi è quanto
> di "fenomenologico" si traduce nella psicoanalisi di Freud - debitore in
> qualche misura al suo maestro viennese Brentano. Penso infatti all'etimo
> tedesco di vor-stellen, alla lettera "porre davanti", da cui Vorstellung
> (solo approssimativa mente reso con "rappresentazione"), che intenderei a
> sua volta come ciò-che-si-pone-di-fronte. Come non vedervi assonanze con
> la prae-sentia dei fenomenologi?
...
> proprio Vorstellung mi pare un termine fecondo per confronti
> tra fenomenologi e psicoanalisti.

Ma appunto, "presenza" è

Automanifestarsi di tutto ciò che c'è per il solo fatto di esserci. La presenza è "già lì" offerta alla nostra esperienza prima di ogni giudizio e di ogni riflessione comune o scientifica che la interpreta in un certo ordine, adottando determinate categorie. In questo senso la presenza è un'unità precategoriale che fa da sfondo ad ogni successiva costruzione categoriale... Per cogliere la presenza Husserl dice che occorre un'epoché, ossia una sospensione del giudizio con cui siamo soliti considerare ciò che abbiamo davanti. Mettendo tra parentesi ogni impianto categoriale giungiamo all'esperienza originaria della presenza... (U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, Torino: UTET, 1992).

mentre "rappresentazione" è

...l'atto con cui la coscienza riproduce un oggetto esterno come può essere una cosa, o interno come uno stato d'animo o un prodotto fantastico... (Ibidem)

e, in quanto "riproduce", non sembra cogliere originariamente l'esperienza della presenza. C'è in tutto questo, se non ho preso un abbaglio, una differenza non trascurabile: la differenza che distingue ad esempio "appresentazione" (ciò-che-si-pone-di fronte a...) da "rappresentazione" (ciò-che-si-ri-pone-di fronte a...). Davvero non esiste differenza tra Vorstellung e Erscheinung (tra "rappresentazione" e "fenomeno") nell'ambito della psicopatologia? Se così è, il confronto tra fenomenologia e psicoanalisi non può davvero più essere dilazionato, purché sia conservata la capacità di "mettere tra parentesi" (epoché) l'esperienza. E da questo punto di vista, appare di estrema attualità l'affermazione di Binswanger, lasciata quasi a mo' di testamento, in una conferenza tenuta nel 1955:

...non è forse superfluo ribadire come non sia vero che con l'indagine e la descrizione analitico-esistenziale dell'uomo, dei fenomeni psicopatologici e psichici in generale, "tutto è fatto" per la psichiatria. Non vi potrebbe essere errore più grave. Se l'analisi esistenziale ci mostra di che cosa "propriamente si parla" in psichiatria, essa può adempiere l'intero suo compito psichiatrico solo in concorso con gli ambiti scientifici che sono oggetto della psicopatologia, della biologia e della psicoanalisi... (L. Binswanger, Der Mensch in der Psychiatrie, Pfullingen: Günther Neske Verlag, 1957; trad. ital. di B. M. d'Ippolito: La psichiatria come scienza dell'uomo. Firenze: Ponte alle Grazie, 1992, p. 75)

Passiamo poi a un ulteriore tuo punto:

> - L'obiezione principale che mi fai è che fenomenologia come teoria e
> psichiatria come prassi stanno su due piani affatto distinti, che dunque
> non c'è una terapia ad orientamento fenomenologico, ma che la fenomenologia
> è una sorta di grosso contenitore cui dovrebbero attingere un po' tutte le
> tecniche psicoterapiche. Intendo bene?

Ciò che ho sostenuto nel mio intervento precedente è una fenomenologia intesa come "metodo" nell'ambito della psicopatologia, sempre che a noi interessino i "fenomeni" di cui facciamo esperienza e non le "rappresentazioni" categoriali degli stessi (escluderei, come lo stesso Jaspers sembra indicarci, anche le categorie della fenomenologia eidetica, trascententale, assoluta, limitandoci alla fenomenologia descrittiva). La fenomenologia non è quindi un contenitore, ma un "atteggiamento", che può consentirci anche di continuare a fare ciò che abbiamo sempre fatto, ma in un modo significativamente diverso. Per esempio, un conto è dire, parafrasando Sergio Moravia (L'enigma dell'esistenza, Milano: Feltrinelli, 1996): "l'uomo è un animale biologico", e un conto è dire "l'uomo è 'solo' un animale biologico" (la seconda affermazione sembra richiedere con urgenza un bel bagno fenomenologico...)

Continuando, dici:

> a) l'uso del termine psicoterapia - e "psicoterapia ad orientamento
> fenomenologico" non è certo espressione dei fenomenologi - può avere una
> legittimità, sia per la grande diffusione che ha oggi, sia per avere un
> termine-terreno comune di confronto tra indirizzi diversi. Ma, se
> l'espressione non ti piace, puoi pure sostituirla con la denominazione
> storicamente più accreditata di "psichiatria fenomenologica".

Preferisco sicuramente la denominazione di "psicopatologia fenomenologica" in quanto la "psichiatria fenomenologica" sembra talvolta riferirsi aprioristicamente a categorie che difficilmente si lasciano "mettere tra parentesi", mentre una "psicologia fenomenologica" è ancora tutta da fondare e una "psicoterapia fenomenologica"... forse è solo in gestazione.

Altro tuo punto interessante e il seguente:

> b) Certamente è difficile individuare una specifica tecnica psicoterapica
> fenomenologica e qui come altrove ho l'impressione che quando si chiedono
> precisazioni, determinazioni sul piano concreto spesso il fenomenologo
> guizzi via, dicendo appunto che la fenomenologia fornisce solo le
> condizioni a priori ecc., l'atteggiamento di base, la fondazione. Il
> risultato è che - se consenti questa improvvisata generalizzazione - tanto
> i fenomenologi hanno voluto fondare e rifondare le varie discipline (penso
> alla logica, alla sociologia, ecc.) che ben poco poi, nella più modesta
> empiria, hanno costruito su quelle fondamenta, loro o gli specialisti della
> relativa disciplina. Tu me ne dai conferma in certa misura, quando dici
> appunto che la fenomenologia non ha nulla di specifico da offrire, ma
> sarebbe premessa di ogni tecnica psicoterapica: salvo il fatto poi che i
> vari indirizzi psicoterapici non se ne fanno praticamente nulla di quella
> premessa o fondazione (come appunto accaduto nel rapporto con altre
> discipline scientifiche).

Credo che le cose non stiano proprio in questi termini. La mancanza di una "teoria fenomenologica" e, accanto a questa, di una "tecnica fenomenologica", dovrebbe risultare come conseguenza coerente del metodo e dell'atteggiamento fenomenologico di cui stiamo trattando. Per dirla, tra altri, con W. Van Dusen:

...Non esiste una tecnica psicoterapeutica ufficiale nell'analisi esistenziale. La tecnica varia con l'analista. Ciò che rimane è lo stesso programma generale di come il paziente dovrebbe essere considerato e compreso. Tutti gli analisti di tale tipo cominceranno col tentativo di capire il mondo fenomenologico dell'altra persona. Oltre a questo, esistono ampie differenze nella pratica. Tali differenze sono in parte fruttuose, in quanto rappresentano una ricerca continua, non ostacolata dal dogma di una tecnica (W. Van Dusen, Analytic Psychotherapy, American Journal of Psychoanalysis, 1960, trad. italiana in P. D. Pursglove, a cura di, Esperienze di terapia della gestalt, Roma: Astrolabio, 1970; vedi anche R. May et al., Existence, A New Dimension in Psychiatry and Psychology, New York: Basic Books, 1958).

Più oltre dici:

> ...mi pare che ci sia uno stile, quanto meno una modalità,
> una sensibilità peculiare dello psichiatra fenomenologo, nell'affrontare il
> paziente: vedi non solo i casi clinici di Binswanger, ma anche i recenti
> lavori del nostro Borgna. A me pare questo un modo di lavorare di grande
> sensibilità e di grande umanità verso il paziente, nonché ricco di
> penetrazione nel "significato" ontologico, esistenziale del malessere
> psichico - cosa che deve fungere da utile richiamo ad ogni tipo di psicoterapia.

Condivido pienamente queste tue opinioni; penso comunque che il lavoro di Borgna non si limiti a "umanizzare" la psichiatria, bensì intenda esplicitamente "falciare" (il termine è dello stesso Borgna) le categorie conoscitive della psichiatria naturalistica, sulla base dei dati della ricerca psicopatologica fenomenologicamente orientata. Ecco quindi un ottimo esempio di "radente impostazione fenomenologica" attuata (resa concreta) nel lavoro clinico di tutti i giorni.

Più oltre dici ancora:

> Ma l'approccio fenomenologico mi pare povero di strumenti esplicativi
> sul piano delle "dinamiche" psicologiche, dell'eziopatologia psichica.

Diciamo pure che, fino al punto in cui si mantiene coerente al proprio metodo, l'approccio fenomenologico non può che rinunciare ad ogni tentativo esplicativo, in vista della semplice (si fa per dire...) "comprensione". Continuando, affermi:

> (non vedo una contraddizione, al contrario una complementarità
> tra ricerca del senso, ontologico, esistenziale, e spiegazione ovvero
> ricerca della causa, psicologica, relazionale del disturbo mentale).

Ciò che sostengo è che questa "complementarità", auspicabile anche dal mio punto di vista, non può essere confusa con una pretesa "simultaneità" nell'approccio clinico tra ricerca naturalistica della causa e ricerca del senso esistenziale. Questa forzata "sincronizzazione" dei due momenti porterebbe soltanto a riconsiderare l'altro come "oggetto" di studio, magari con un po' più di "tatto" e di "umanità". Ecco quindi la necessità di distinguere il momento della scienza psicopatologica e quello dell'approccio empirico (psicologico, psichiatrico o psicoterapeutico), ma anche l'importanza di non confondere una modalità di approccio al paziente di tipo scientifico-naturalistico (tendente alla spiegazione) da quello fenomenologico-esistenziale (tendente alla comprensione). Poi dici:

> d) Se non fosse come dico, cioè se non fosse vero che gli psichiatri
> fenomenologi traggono anche conseguenze in specifiche modalità di approccio
> al paziente, come spieghi gli attacchi (penso a Jaspers e a Binswanger) ad
> altre prassi terapeutiche, quella psicoanalitica nella fattispecie, e alle
> correlative supposizioni teoriche?

Più che "attacchi", le considerazioni di Jaspers e Binswanger sembrano obiezioni critiche di carattere epistemologico. Binswanger, come sappiamo, ebbe una formazione analitica e praticò l'analisi; in tarda età così si espresse nei confronti di Freud:

Con la sua teoria dell'inconscio, dell'"intenzionalità inconscia" Freud ha avvicinato l'uomo al mondo e il mondo all'uomo. Egli ha mostrato che noi siamo nel mondo, abbiamo un mondo e disponiamo di un mondo non solo con la nostra coscienza, ma anche in modo "inconscio"... A questa esperienza di Freud dobbiamo la trasformazione della nostra conoscenza dell'essere umano e della nostra idea di scientificità (L. Binswanger, "Alla scoperta di Freud". In: La psichiatria come scienza dell'uomo, Firenze: Ponte alle Grazie, 1992).

Passo ad un'altra tua citazione:

> (Non credo che ci sia alcuna prassi psicoterapica che non abbia almeno
> implicitamente delle presupposizioni teoriche: anche il discorso
> fenomenologico è una - legittima - preconcezione; ma parimenti
> preconcezione è ogni concezione che suppone - sbagliando - di non avere
> preconcezioni! Heidegger stesso, prima dei post-neopositivisti, come saprai,
> ha falsificato l'epoché husserliana, e lo stesso Husserl della "Crisi delle
> scienze"...).

Scusa, qui proprio non capisco. Cosa significa "falsificazione dell'epoché"? In che modo è possibile falsificare "la sospensione del giudizio"? Tu dici:

> e) Un atteggiamento di tipo epocale - anzi più radicale ancora della epoché
> prima maniera perché metterei tra parentesi l'ego cogitans stesso - è quello
> che richiederei ad ogni analista (e in certa misura ad ogni psicoterapeuta).

Su questo punto non posso che essere d'accordo. Ma poi dici:

> La sua posizione ideale dovrebbe essere assolutamente uno
> stato di disposizione mentale passivo-recettivo: "fare la parte del morto"
> in seduta, per dirla con Lacan, essere "senza memoria e senza desiderio",
> per dirla con Bion, senza memoria di teorie, senza desiderio di guarire.

Su questo punto ho delle forti perplessità. Ma perché mai un analista non deve trovarsi in nessun'altra disposizione mentale che non sia passivo-ricettiva con il proprio paziente? E soprattutto perché "deve fare una qualsiasi parte"? Quella del "morto" poi... Non nego che questa possa costituire una delle posizioni diciamo pure "ideali" nel lavoro di analisi, ma in base a quale criterio dovrei considerarla esclusiva? Forse in base appunto a una particolare concezione (teoria) psicoanalitica. Certamente, ma proprio qui risiede quello iato tra "fenomeno" e "rappresentazione", almeno credo. Ti cito ancora:

> Inoltre resta aperto tutto il campo della riflessione successiva alla seduta:
> su ciò che è accaduto in seduta, sulla psicogenesi del caso, ecc. E qui la teoria
> massicciamente interviene, anche nella semplice descrizione del caso clinico.

Penso che sia esperienza comune riscontrare che le differenze teoriche tendono a ridimensionarsi durante la discussione di un caso clinico (vorrei dire, di una storia di vita interiore...). Che significato può avere questo fatto?

Grazie per l'attenzione e... passo parola.


4/1/98, Andrea Angelozzi:

Ringrazio Fornaro per l'attenzione e la pazienza che ha dedicato alle mie annotazioni. Le sue osservazioni sono certamente puntuali e stringenti. Vi sono tuttavia alcuni aspetti che ancora non mi convincono del tutto e che mi permetto pertanto di sottoporre al suo vaglio critico. Il primo riguarda la questione della causalità. Mi sembra che la possibilità di accedere ad una causalità psicologica - se ho ben capito - sia un punto essenziale per Fornaro, per due ambiti specifici: la questione epistemologica, dove la causalità diventerebbe essenziale in ogni teoria psicopatologia, e la questione psicoterapeutica. Concordo pienamente sulla importanza cruciale di questa questione ed sono lontano da porre in dubbio la validità di un approccio causale alla realtà (lo confesso: non tanto per una mia piena convinzione di questo aspetto, ma perché certe tentazioni che pure mi attraversano la mente - sincronicità, taluni approcci quantistici radicali, intuizioni del pensiero orientale - non hanno raggiunto in me argomentazioni sufficientemente razionali da essere difendibili dignitosamente). Quello che metto invece in dubbio è: in primo luogo che per il solo fatto di parlare di causalità nasca un immediato privilegio epistemologico per una teoria; ma soprattutto, metto in dubbio che Jaspers releghi tale causalità esclusivamente al biologico, come, se ho ben capito, sostiene Fornaro. Nella sua risposta infatti, mi scrive:

> Come già dicevo, Jaspers vive in maniera rigida la dicotomia
> tra causa e senso, tra approccio naturalistico e approccio
> umanistico - metodi per lui sì parimenti accettabili, ma purché stiano
> nel rispettivo e predeterminato ambito! Me lo confermi indirettamente tu,
> proprio quando pensi di smentirmi, là dove dici che "la conoscenza
> causale non è limitata al fisico, ma entra anche nei processi psichici,
> ove può utilizzare i concetti della psicologia comprensiva".
> Cito da Angelozzi: "Comprendiamo i nessi all'interno di uno stato
> depressivo, che non di meno può essere, nella sua interezza,
> causato da eventi biologici" (corsivo mio).
> Certo usi la nozione di causa per spiegare la depressione, ma solo
> per il momento somatico: né in te né in Jaspers trovo la possibilità
> di usare la stessa nozione per il rapporto tra processi mentali,
> tra rappresentazioni, la stessa nozione per spiegare dei vissuti,
> per spiegare come delle idee possano "causare" disturbi somatici
> (alludo all'isteria, ai disturbi psicosomatici, ecc.).

Così, nota Fornaro nel suo primo scritto,

demandare alla biologia (al cervello) la causa favoriscono che lo psichiatra di orientamento fenomenologico finisca, malgré lui, coll'adottare la terapia farmacologica come trattamento primario, se non elettivo nei disturbi gravi.

Ora, a me pare che in Jaspers la causalità psicologica viene pienamente ammessa, solo che i criteri per la sua legittimazione a fregiarsi a diritto di tale denominazione sono fatti più stringenti. Jaspers ritiene esplicitamente (Psicopatologia Generale. Roma: Il Pensiero Scientifico, 1964 - d'ora in avanti: PG - p. 327) che la psicopatologia miri a relazioni causali, limitata tuttavia in questo dalla natura dello psichico, che non si presta alla quantificazione, e in cui appare difficile la costruzioni di leggi. Scrive Jaspers:

L'idea che lo psichico sia il campo della comprensione e il fisico il campo della spiegazione causale è erronea. Non esiste alcun processo reale, sia di natura fisica che psichica che non sia accessibile per principio alla spiegazione causale; anche i processi psichici possono essere soggetti alla spiegazione causale. Nel pensiero psicologico casuale abbiamo bisogno di elementi che consideriamo come cause o come effetti di un processo, per es. causa: un processo fisico, effetto: un'allucinazione. Tutti i concetti della fenomenologia e della psicologia comprensiva possono entrare nel campo del pensiero causale e servire così alla formazione di elementi di spiegazione causale. Unità fenomenologiche, quali per es. una allucinazione, un tipo di percezione, sono spiegate mediante processi corporei; relazioni comprensibili di natura complicata sono considerate come unità, per cui ad es. una sindrome maniacale con tutti i suoi contenuti risulta l'effetto di un processo che si svolge nel cervello o di una scossa emotiva (per es. la morte di una persona cara) (Jaspers, PG, p. 330).

Così, per fare un esempio, quando Jaspers parla delle "reazioni patologiche" (e come potrebbe, se non ponesse la possibilità causale anche in eventi ambientali, mentali o emotivi?) segnala l'"importanza di eventi per l'anima, il loro valore come esperienza vissuta, il perturbamento affettivo che ad essi si accompagna" come qualcosa che "provoca una reazione che in parte è comprensibile". Dice Jaspers:

Come il perturbamento psichico ha per conseguenza diretta una quantità di fenomeni concomitanti corporei, così esso provoca anche una modificazione passeggera dei meccanismi psichici che creano ora le condizioni degli stati anormali della coscienza e della realizzazione di relazioni comprensibili (in offuscamenti della coscienza, ed in scissioni, in idee deliranti e così via) (Jaspers, PG, p. 415).

Ma per Jaspers parlare di "causa" ponendo un nesso non mediato fra due eventi psicologici, trova due limiti: da una parte il fatto che noi individuiamo così una singola esperienza, fra le tante che in realtà possono avere contribuito; dall'altra che bisognerebbe conoscere (cosa che non è) i "meccanismi extracoscienti", intendendo cioè i passaggi fisici, biochimici, somatici, che consentono di descrivere adeguatamente i nessi necessari che così si creano.

Mi pare che la posizione di Jaspers sia chiara: quelli che noi cogliamo in genere nella dinamica della vita psichica sono le relazioni comprensibili. Ma sarebbe erroneo cercare di costruire leggi e causalità in un qualcosa che cogliamo dall'interno e che ci colpisce per la sua evidenzia di significato. Il limite è metodologico: la causalità richiede leggi e meccanismi chiari e certi, quantificabili. In questo opera l'extracosciente, che qui diventa i meccanismi cerebrali che mediano gli eventi psichici e sui quali si potrebbero costruire leggi e cause applicabili al singolo caso. "Si potrebbero", poiché rappresenta un'ipotesi di ricerca, tutt'altro che qualcosa di dato di fatto. Poco più oltre aggiunge:

Ogni comprensione, in quanto riguarda un fatto psichico reale implica naturalmente una relazione causale. Ma questa è prima di tutto accessibile solo per via comprensiva; in secondo luogo è sterile e vano svilupparla e costruirla mediante l'extracosciente, finché mancano le basi per fare constatazioni empiriche su una via diversa da quella della comprensione. Sicuramente allora si troveranno relazioni causali importanti, non banali, ma ancora da scoprire. Quando si asserisce però che una relazione psichica causale può essere nel contempo vissuta in modo affettivo e che perciò per mezzo della partecipazione affettiva può venire scoperto anche un meccanismo causale, si cade in errore. La conseguenza di questa idea è che immaginare meccanismi extracoscienti, fondandosi esclusivamente sulla comprensione affettiva, diventa un giuoco sterile. Troppi di tali giuochi si trovano a buon mercato nella letteratura. La comprensione come tale non porta alla spiegazione causale, ma vi giunge urtando contro l'incomprensibile (Jaspers, PG, p. 331).

Il somatico in Jaspers entra nelle cause non nel senso che le cause sono solo somatiche, ma nel senso che le relazioni comprensibili per poter diventare causalità e cioè spiegazione, devono poter essere descritte obiettivamente, il che soprattutto significa nei meccanismi cerebrali che ne sono la "trasposizione neurofisiologica". Metto fra virgolette perché il rapporto fra evento mentale e evento cerebrale in Jaspers non può semplicemente essere descritto non tale terminologia.

L'accusa a Freud, quello di confondere relazioni comprensibili e meccanismi causali è appunto l'accusa a stabilire un rapporto di condizione necessaria e legge fra eventi certo evidenti, che certo mostrano una possibile regolarità, ma in cui il nesso di causa è certo un'affascinante ipotesi, ma tutt'altro che dimostrata. La dimostrazione appartiene all'empirismo, a meccanismi che possono essere studiati "dall'esterno" e che trovino strutture certe, quali quelle fisiche o neurofisiologiche.

Se Fornaro qui obiettasse che, questo affidare la dimostrazione alla presunta oggettività delle scienze naturali e di approcci quantitativi è una visione discutibile della scienza, sarei pienamente d'accordo. Non sono certo disposto a sostenere che l'ambito del reale sia quello della oggettività fisica e che bisogna prendere in prestito i vestiti dalle altre scienze, camuffandosi in qualcosa di loro simile. Ma sarei comunque un po' indulgente con Jaspers, il cui tentativo mi sembra quello di ricercare un rigore della dimostrazione che non consenta a qualunque stupidaggine di essere vera per il semplice fatto di essere detta da un "conoscitore dell'animo umano". E qui il discorso allora si espanderebbe a coinvolgere tutto il problema della validazione in psicologia. Quanto a Freud, la sua capacità di sostenere ora un modello epistemologico, ora un altro, lo salverebbe per un po', ma non certo a lungo. In Jaspers ripeto, non mi sembra un privilegio delle scienze fisiche, ma dell'uso di metodi specifici per i singoli linguaggi e le modalità della dimostrazione, con il tentativo di richiamare a discorsi rigorosi e critici. Quando Fornaro spiega che il tentativo che sta conducendo è quello di superare una troppo rigida distinzione fra comprendere e spiegare e fra scienze dello spirito e della natura, non posso che trovarmi solidale e interessato. Sono preoccupato tuttavia dalla possibilità che, per non cadere nel fisicalismo, emerga come soluzione il calderone epistemologico di Freud.

Tornando a Jaspers, il problema è che le relazioni comprensibili sono evidenti, ma non necessarie. Esse non sono applicabili come legge al singolo caso. Nota Jaspers:

La nostra esigenza causale viene soddisfatta più profondamente dalla regolarità più semplice e necessaria e c'è da sperare che da essa vengano le grandi possibilità per l'intervento terapeutico; ma ciò soltanto quando il causale è veramente riconosciuto empiricamente e non è stato solo pensato teoricamente come possibile (Jaspers, PG, p. 494).

Gli aspetti necessari sono quelli che appartengono all'empirico, allo psicologicamente incomprensibile, che è poi l'extracosciente,

i processi corporei che supponiamo nel cervello, specialmente nella corteccia cerebrale e nel tronco encefalico e ce li figuriamo come processi biologici altamente complicati. Siamo molto lontani dall'averli esplorati. Non conosciamo alcun processo del corpo che sarebbe la base particolare di determinati processi psichici. Tutto ciò che conosciamo nel cervello è da ascriversi alla fisiologia del corpo, in nessun punto conosciamo reperti utilizzabili psicologicamente in modo diretto (Jaspers, PG, p. 491).

Ancora una volta riemerge la coscienza metodologica a mettere in guardia contro la dogmatica dell'essere, e a segnalare i pericoli di indebiti identitismi, riduzionismi o privilegi del biologico: "Quantunque noi facciamo l'ipotesi che tutti i processi psichici, normali ed anormali, abbiano la loro base corporea, non conosciamo questa in nessun punto. Dobbiamo guardarci specialmente dal considerare i processi cerebrali noti, quali fondamenti diretti di determinati processi psichici". E quando più oltre si trova a discutere la formula "Le malattie mentali sono malattie del cervello" afferma che

questa frase è un dogma, come sarebbe un dogma la negazione di questa frase. Chiariamo ancora una volta la situazione: in diversi casi noi troviamo rapporti fra modificazioni corporee e psichiche tanto che possiamo ritenere con certezza quelle psichiche conseguenza delle prime. Sappiamo inoltre che in generale non esiste alcun processo psichico senza qualche fondamento corporeo: non esistono "spettri". Però non conosciamo alcun processo corporeo del cervello che sarebbe per così dire "l'altro aspetto" identico al processo psichico morboso. Conosciamo sempre solo condizioni dello psichico: mai conosciamo la causa di un processo psichico, ma sempre solo una causa. Se si considerano le ricerche attualmente possibili e le esperienze reali, quella celebre frase rappresenta quindi forse uno scopo possibile della ricerca, scopo posto all'infinito - ma in ogni caso non indica un oggetto dell'indagine. Discutere tali proposizioni, per voler a tutti i costi risolvere teoricamente il problema, significa una mancanza di coscienza metodologica (Jaspers, PG, p. 493).

Non credo che possa annoiare riportare un ulteriore passo di Jaspers su questo punto, di drammatica attualità appunto contro le tendenze totalizzanti della psichiatria biologica.

Storicamente il dominio del dogma: "le malattie mentali sono malattie cerebrali" ha avuto un effetto favorevole ed uno dannoso. E' stato favorevole per lo studio del cervello. Ogni clinica ha il suo laboratorio anatomico. Sfavorevole è stato invece per la sua vera ricerca psicopatologica: involontariamente si è impossessato di molti psichiatri questo sentimento: "Quando conosceremo esattamente il cervello, conosceremo anche la vita psichica ed i suoi disturbi". Essi hanno trascurato completamente gli studi psicopatologici e li hanno ritenuti addirittura antiscientifici, perdendo perfino la conoscenza del materiale ormai acquisito dalla psicopatologia. Oggidì si è formato il concetto che la ricerca anatomica e quella della vita psichica debbano esistere indipendentemente l'uno dall'altro (Jaspers, PG, p. 493).

Non mi pare che questa sia un demandare alla biologia la causa o la scelta incondizionata per un trattamento biologico, rappresentando una posizione di apertura alle possibili cause e una richiesta di rigore circa la descrizione dei meccanismi quando si pretenda un ruolo causale. D'altra parte (non riesco a trattenermi da un confronto con la psicoanalisi, visto che il problema originario era Freud e Jaspers...) chi pensasse che Freud prescinda dal biologico - a mio parere - sbaglierebbe: sono innumerevoli i punti in cui, portando all'estremo la sua teoria eziologica e trovandosi a dover "spiegare" perché in certi pazienti nasca il conflitto ed il suo esito poi sia talvolta patologico e talvolta no, finisce per parlare solo di disposizione biologica, di costituzione, di ereditarietà, come causa ultima. Per non parlare dei maldestri tentativi di stabilire una connessione fra eventi mentali ed eventi cerebrali, costruendo complesse e indimostrate (e probabilmente indimostrabili) ipotesi che danno per scontati "stimoli", "strutture cerebrali eccitate", legando mente, pulsioni e eventi biologici.

Per quanto riguarda la psicoterapia la faccenda si fa ancora più intricata. Mi pare che Fornaro distingua - e sono pienamente concorde - la causalità come struttura teorica di sfondo dell'agire del terapeuta e un atteggiamento invece di esplicita ricerca causale con il paziente nell'ambito della terapia. Questa distinzione, per cui un'idea sulle cause può stare nella testa del terapeuta senza necessariamente entrare nella testa del paziente, consente al terapeuta di avere una sua teoria, anche se nel corso della terapia il suo atteggiamento è "come morto" ed è di puro ascolto, senza memoria e desideri, con un richiamo di Fornaro a Lacan, a Bion e alla "attenzione fluttuante". Non entro nella questione di questo vuoto zen della "non mente" argomento che mi sta affascinando da tempo, ma per il quale (mi si consenta la battuta) il training mi sembra un po' diverso da quello analitico (mi sono sempre domandato se sia un caso che Bion sia nato in India...), di come comunque poco si accordi con la interpretazione e con un meccanismo a tempo per cui la teoria viene, non si sa come, temporaneamente lasciata da parte. Né c'è bisogno per fortuna di entrare nella questione della ingenuità di una visione che pensa che il paziente debba semplicemente andare a ricercare le "cause" di non si sa bene cosa, per essere miracolato non si sa bene come. L'evoluzione della psicoterapia da cause esterne (il trauma) a dinamiche interne, la problematica della verità storica e di quella ermeneutica sono elementi che non si possono certo perdere.

Piuttosto mi interessa un'altra questione, con cui si scontra ad un certo punto lo stesso Freud: la realtà che tecniche diverse, con mondi teorici diversi e strutture patogenetiche ed eziologiche altrettanto lontani, poi alla fine ottengono risultati terapeutici abbastanza simili. Non dovrebbe ingenerare un certo atteggiamento di sospetto? E non si elimina discutendo sulla maggiore efficacia (che a mio parere è dubbia) di una rispetto alle altre: sappiamo dalla filosofia analitica di tipo anglosassone che nessun risultato terapeutico può confermare la teoria che lo ha consentito (e la logica del primo grado ricorda che da premesse false si possono ottenere conseguenze vere). Le causalità della (o meglio, delle) psicoanalisi non sono le stesse della Gestalt di Perls, non quelle della sistemica o dei cognitivisti o dei programmatori neurolinguistici. E Milton Erickson, che creava costantemente modelli terapeutici diversi, con risultati straordinari? Dire "ma comunque al fondo hanno una teoria, un modello causale" non rischia di essere un modo per impedirsi di andare un po' oltre a domandarsi quanto poi conti il modello teorico, l'effettivo valore di queste strutture causali nel processo terapeutico? Siamo proprio sicuri che questi modelli talvolta non siano altro che le cornici che, credendo di fare chissà che altro, alla fine comunque costruiscono un "senso", individuale, relazionale (ed ecco che torniamo a Jaspers) con il paziente, senza alcuna pretesa di verità causale o storica, e che sia poi in questo gran parte della psicoterapia. Non ricordo dove (e la citazione è forse imprecisa) il buon Nietzsche diceva "Sopportiamo molto meglio una sofferenza che per noi ha un senso...". Alcuni aspetti di taluni autori (ad es. Milton Erickson: si pensi alle sue esperienze con la induzione di nevrosi traumatiche per curare nevrosi "reali": quando svela la realtà illusoria della nevrosi traumatica, scompare la nevrosi "reale") fanno talvolta perfino pensare al valore terapeutico della consapevolezza che anche quello del "senso" è forse un gioco senza realtà.

Sinceramente, non so bene se questo possa essere semplicemente un regresso all'infinito per cui si rientra sempre in qualche modo in una logica causale... Personalmente sono molto preoccupato ogni volta che sento proclamare (intendiamoci: non è un riferimento a Fornaro, non certo è il suo caso) che "queste" sono le cause e "questi" sono i meccanismi, per cui "questa" è la terapia. Di questa preoccupazione devo ringraziare in parte l'attenzione alla coscienza metodologica che mi suggerisce Jaspers. Per carità, è certo possibile che nelle singole esposizioni emergano rigidità in Jaspers, ma che l'atteggiamento di fondo sia di costante ricerca ed apertura mi sembra innegabile.

Sinceramente credo che di questi aspetti varrebbe la pena parlare. L'attuale nostro dibattito sta assumendo invece un orientamento sul quale vorrei fare qualche riflessione. Originariamente esso era sorto da un "confronto" fra Freud e Jaspers circa il modo di intendere la psicoterapia (e circa quindi le teorie soggiacenti), con una curiosa asimmetria che lasciava la critica attenta in particolare a Jaspers mentre Freud emergeva del tutto indenne (come se la epistemologia avesse fino ad ora risparmiato qualche suo aspetto!). Nel prosieguo del dibattito la asimmetria si è ancora più accentuata: ogni problema epistemologico in Freud è scomparso, mentre rimangono le critiche, gran parte delle quali innegabilmente ben fondate a Jaspers e da lui a tutta la fenomenologia. Probabilmente in questo attenuarsi del confronto e perdere un po' di vista la questione della psicoterapia, hanno giocato le istanze emotive, che hanno portato, in Manai ed in me, a difendere la posizione Jaspersiana e inevitabilmente a spostare il discorso solo su questa e su taluni aspetti specifici che sono stati sollevati.

Il problema sembra ora diventato un problema di validità e difendibilità della posizione epistemologica di Jaspers e della fenomenologia. Freud da tutto ciò è sparito non si sa per quale immunità. Infine, non so bene se questo sia il metodo giusto per questa discussione.

Mi sembra che stiamo tutti un po' correndo il rischio della "critica all'osservatore" di cui parla Popper (e di cui ha sempre abusato Freud nelle sue discussioni): solo che in questo caso invece di occuparci della vita personale del critico per fare fuori una critica, andiamo a risalire agli antenati filosofici.

Personalmente, non credo che Jaspers sia difendibile epistemologicamente ad oltranza. Lo stesso grande progetto fenomenologico non lo è, a mio parere, ed ho già osservato che è per tanti versi una opera lasciata incompiuta, una grande intuizione che non è stata portata fino in fondo. In realtà mi domando se esista una sola scuola di psicoterapia che possa essere attualmente veramente difesa e se non corriamo il rischio di voler portare elementi metodologici prescrittivi quando non c'è nemmeno una sola epistemologia (che dovrebbe fornirceli) che sia poi in grado di sopravvivere ad un attento vaglio critico. Credo che il senso della epistemologia debba essere quello appunto della coscienza metodologica, più di "mettere in guardia", che di avere la pretesa di dire "bisogna fare così e così" (sono grato a Favaretto e Galzigna per una interessante e piacevole conversazione su questo argomento).

Jaspers ha dei grandi meriti epistemologici, sui quali mi pare che siamo concordi, e credo, rappresenti un qualcosa (in questo momento) ancora da scoprire nelle sue potenzialità; credo che quanto ci dice e la sua capacità di indurci alla riflessione (qui divento Lakatosiano) siano tuttora ad alto valore euristico, proprio per quella apertura, quel non voler definire pregiudizialmente le cause, quella attenzione metodologica, su cui Fornaro non concorda. Mentre personalmente credo (ah, il mio spirito polemico...) che la spinta euristica (o anche la capacità di prospettare e risolvere problemi) della psicoanalisi si sia esaurita da tempo.

Ringraziando per la attenzione.


5) Repliche di Salvatore Manai e di Andrea Angelozzi

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