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PERCORSI DI LETTURA: commenti e riflessioni intorno al saggio di Antonio Damasio "Alla ricerca di Spinoza"

C. Vecchiato, G. Fornaro, T. Chendi, I. D’Orta, S. Guida, E. Nikolaidou, F. Pannocchia

INTRODUZIONE

di Caterina Vecchiato

All’interno dell’insegnamento di Clinica Psichiatrica presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università degli Studi di Genova, ho proposto agli specialisti in formazione di "incontrare" il saggio di Antonio Damasio, "Alla ricerca di Spinoza", e di provare a fornire, sulla scorta di quelle riflessioni, le proprie chiavi di lettura e il proprio avviso riguardo all’inesausta aspirazione all’integrazione e al superamento dei vecchi, ma non ancora del tutto messi fuori gioco, dualismi, come anche riguardo al discorso, strettamente conseguente, sugli spazi di libertà nei quali può o meno agire il nostro fare terapeutico. Ho trovato particolarmente interessanti le riflessioni elaborate, che ho successivamente discusso con il dr Fornaro, all’interno della collaborazione lavorativa, ma anche di condivisione di idee, nascendone la postfazione che presentiamo a seguire. Per proporre il lavoro si è cercato di sintetizzare i vari contributi tagliando qualche frase, nel tentativo di eliminare solo ridondanze e di abbreviare il testo per adattarlo alla pubblicazione che spero possa risultare stimolante come è stata la discussione durante le lezioni e poi nel rivedere gli elaborati.

Per quanto mi riguarda, si trattava di riprendere alcune riflessioni che avevo avuto occasione di svolgere durante un intervento tenuto all’interno di un simposio della SOPSI 2006, dal suggestivo titolo de Il fantasma della libertà. Ci si rivolgeva, infatti, a un tema cruciale per lo psichiatra: lo sfondo della sua pratica, la cornice di senso e significato della sua identità, 1'angusto ma essenziale spazio che le nostre conoscenze possono o non possono concedere al concetto di libertà umana.

Prendevo allora spunto dal saggio di Damasio, che, partendo dalla folgorante e anticipatoria illuminazione contenuta nell'espressione "la mente è l'idea del corpo", passa in rassegna la produzione spinoziana, descrivendo il filosofo sotto varie angolazioni, anche attraverso la metafora biologica: "...questo Spinoza è a tutti gli effetti un'immunologo della mente che tende a sviluppare un vaccino per creare anticorpi contro le passioni". Tutto ciò per acquisire potere della mente sui processi emozionali, potere che Spinoza riteneva dipendesse dalla scoperta delle cause delle emozioni negative.

E' possibile in una certa misura cogliere, nello sforzo verso la consapevolezza delle cause delle emozioni, un intento simile agli obiettivi del progetto psicoanalitico freudiano. Il risultato di questo sforzo, dice Damasio, riguarda la libertà intesa come riduzione della dipendenza dall'oggetto che,

tuttavia, nel discorso spinoziano appare come emancipazione dai bisogni emotivi.

Damasio definisce questo "tipo" di libertà ben lontano da quello contemplato nelle discussioni sul "libero arbitrio", ma qualcosa di più radicale. Non sfugge a Damasio, anzi è in primo piano, il problema della spiritualità e della religiosità che si concretizza in quella che viene definita "religiosità laica di Spinoza", che egli compara alla religiosità di Albert Einstein. Il grande fisico descriveva un sentimento che definiva "sentimento cosmico" di ammirazione estatica delle leggi della natura (sentimento senza dubbio affine all'"amor intellectualis Dei" di Spinoza). Egli riteneva questo sentimento una religiosità superiore, patrimonio di personaggi spesso "eretici", per lo più considerati atei o santi dai contemporanei. Peraltro Einstein, a proposito dei limiti della libertà umana, cita l’aforisma di Schopenauer, "è certo che l’uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere che ciò che vuole".

Sembra che tradizione umanistica e scienza si riavvicinino oggi con modalità nuove e d’altronde è lo stesso concetto di interdisciplinarietà che impone riflessioni critiche. Compare una chiave di lettura del concetto di libertà umana strettamente connessa alla "comprensione" scientifica ed estetica.

CONTRIBUTI DI LETTURA

1) Isabella D’Orta

Alla ricerca di Spinoza è il saggio del neurofisiologo portoghese Antonio Damasio che conclude la sua trilogia di opere sull’interpretazione della coscienza. Il primo, dal titolo L’errore di Cartesio, prendeva in considerazione il ruolo di emozioni e sentimenti nell’attività decisionale; il secondo, Emozione e coscienza, affrontava la costruzione del sé.

L’autore si propone di affrontare, anche alla luce degli ultimi dati di ricerca neuroscientifica sull’argomento, la natura e il significato dei sentimenti, intesi come espressione del sentire umano, "così come essi hanno luogo nella mente e nel corpo".

Damasio parte dal presupposto che anche i sentimenti possano entrare a far parte del complesso scenario neurobiologico di studio delle interazioni mente-corpo.

"L’emozione e le reazioni affini sono schierate sul versante del corpo, mentre i sentimenti si trovano su quello della mente".

Tramite la rilettura della metafisica spinoziana l'autore sposta il dibattito mente-corpo (centrale nel pensiero scientifico degli ultimi anni), in un campo più esteso di quanto non sia stato fatto finora, e consente un approfondimento completo e, per certi aspetti, sorprendente.

Secondo Spinoza infatti mente e corpo costituirebbero un processo unitario "La mente è l'idea del corpo", superando quindi il tradizionale dualismo cartesiano. Cervello e mente, sostiene Damasio, sono rappresentazioni di un medesimo organismo e, in quanto tali, indisgiungibili.

L’autore affronta, fra gli altri, il tema del conatus, inteso come sforzo naturale di autoconservazione degli uomini attraverso il quale hanno origine i sentimenti. Dal punto di vista biologico si può parlare di "dispositivi contenuti nei circuiti cerebrali che, una volta attivati dal verificarsi di particolari condizioni interne o esterne, puntano alla sopravvivenza e al benessere dell'organismo"

Nella concezione di Spinoza la sofferenza allontana l'uomo dal proprio conatus, ossia dalla tendenza all'autoconservazione.

2) Francesca Pannocchia

L’autore forse un po’ provocatoriamente sostiene l’idea che i sentimenti possano essere spiegati nel come, nella loro localizzazione, nel loro meccanismo e che se ne possa fornire una mappa a livello cerebrale.

Sembrano le due facce dell’affetto: l’emozione, la manifestazione esterna, e il sentimento la sua manifestazione interna. Questo non vuol dire che siano due forme separate perché emozione e sentimento appartengono ad unico processo, così come mente e corpo appartengono alla stessa sostanza.

Sulla base delle emozioni si forma una mappa cerebrale e poi una rappresentazione dello stato interno dell’organismo. Praticamente i sentimenti traducono lo stato interno in cui si trova l’organismo.

…la mente emerge da un cervello che è situato in un corpo con cui interagisce costantemente.

Le due sequenze di eventi che configurano l’emozione e il sentimento si esibiscono rispettivamente nel teatro del corpo e in quello della mente e fungono da regolazioni dei processi vitali, ma in due gradi o livelli distinti. I sentimenti regolano i processi vitali ad un livello superiore.

La precedenza delle emozioni sui sentimenti corrisponde all’evoluzione e alla necessità dell’omeostasi di ogni organismo vivente.

I sentimenti traducono nel linguaggio mentale lo stato vitale in cui versa il corpo, soggetto a molteplici processi omeostatici di regolazione.

La conclusione è inequivocabile: nel sentimento, le entità della mente e del corpo sono intimamente fuse. All’origine del sentimento è il corpo, le cui diverse parti sono continuamente registrate in strutture cerebrali.

Ciò conferma l’affermazione di Spinoza secondo la quale corpo e mente costituiscono attributi paralleli della medesima sostanza, circa la possibilità di modificare o cambiare completamente un sentimento sulla base di un’idea indotta dalla ragione.

L’integrità dei meccanismi dell’emozione e del sentimento è necessaria per un comportamento sociale normale, conforme alle norme dell’etica e alle leggi". Il comportamento etico risulta impossibile laddove è compromesso il sistema dell’emozione e del sentimento.

3) Tania Chendi

Damasio ha in questa opera il merito di essere riuscito a creare in modo chiaro e coerente un ponte tra due approcci di conoscenza, diversi non solo per strumenti d’indagine ma anche per epoca storica in cui si sono sviluppati. L’aspetto affascinante sta anche in questo: nel riscoprire che un filosofo di 400 anni fa potesse, per usare un’espressione dello stesso Damasio, "prefigurare la scienza".

…ritengo molto onesto e arguto da parte dell’autore il rendersi conto che il progresso neurobiologico non porta necessariamente a realizzare finalmente la sintesi di un pregresso dualismo, ma può creare una nuova dicotomia: cervello-mente da una parte e corpo dall’altra.

Mi chiedo se sia davvero plausibile che il rifiuto del dolore e la ricerca della gioia possano considerarsi esclusivamente dipendenti dall’individuo o se piuttosto l’ambiente socio-culturale o anche i casi della vita abbiano gran gioco. E non posso, nell’abbozzare una risposta, che propendere per una via di mezzo.

4) Eleni Nikolaidou

Damasio nel primo capitolo ha fatto una distinzione tra sentimenti e emozioni che mi ha colpito; era un’illuminazione per me. Leggevo avida per vedere dove sarebbe arrivato con le sue teorie ma sono rimasta insoddisfatta dalle sue spiegazioni. Continuavo a chiedermi "e allora?". Era come se un illusionista facesse una magia senza concluderla.

…un affermazione che mi ha lasciata perplessa se non addirittura arrabbiata: Damasio sostiene che nella vita dobbiamo cercarci la gioia usando la nostra ragione, cosa che considero irreale, una vera utopia e in parte crudele perché parafrasandolo si potrebbe dedurre che i pazienti che soffrono di depressione non cerchino la gioia "per decisione ragionata" e per questo si ammalino. Questo a mio parere può diventare pericoloso in quando colpevolizza i malati per essere tali.

…il libro ha provocato in me un’alternanza di sentimenti contrastanti tra di loro, delle domande a cui non ho risposte soddisfacenti; quello però che mi ha fatto capire è che si deve avere la mente sgombra da impostazioni e pregiudizi se si vuole vedere i pazienti nelle loro diversità e unicità.

5) Silvia Guida

Il tentativo di Damasio di scardinare il pregiudizio dell’inanalizzabilità scientifica degli affetti, per dirla con Spinoza, appassiona ed affascina perché critico e libero. E’ apprezzabile anche il fatto che Damasio ponga la sfera affettiva al centro dell’interesse neuroscientifico.

Damasio sa raccontare bene l’entusiasmo neuroscientifico degli anni 90 intorno alla questione della ridefinizione del rapporto mente-corpo. Riprendendo il superamento spinoziano della dicotomia cartesiana, Damasio descrive una più verosimile ipotesi di natura umana, dove il posto della mente non risiede solo nel cervello ma in tutto il corpo. Quando penso al mistero del rapporto mente-corpo immagino una sfera tridimensionale ancora oscura, indagabile solo mediante intersezioni bidimensionali che ne restituiscono quindi solo una circonferenza di diametro variabile a seconda se si usa il ‘microtomo’ neuro-logico o quello molto più fine, forse anche perché meno giovane, psico-logico.

Quando Damasio scrive "Se, pur non vivendo in condizioni di oppressione o di miseria estreme, non riusciamo a convincerci di quanto siamo fortunati a essere al mondo, forse non ci stiamo impegnando abbastanza" l’impressione che provoca nel lettore è che non abbia mai avuto a che fare con un paziente depresso.

Forse bisogna interpretare le parole di Damasio come il punto di vista parziale del neurofisiologo che ci dà preziose informazioni da tenere nella cucina mentale dello psichiatra, per dirla con Antonino Ferro, che ci fornisce quegli attrezzi utili per cucinare il pasto terapeutico con strumenti il più possibile aggiornati, senza dimenticare però che la scelta degli ingredienti si basa anche su altre competenze, di tipo psicologico e sociale.

Forse quel che più conta non è trasformare l’uomo peccatore in uomo buono, ma riconoscere la natura dell’uomo che abbiamo di fronte, e restituirla nel modo a lui più comprensibile, in una costante ricerca dell’autenticità del soggetto che si realizza nell’incontro con l’altro, in una prospettiva intersoggettiva che la psicologia fenomenologica e psicodinamica sanno ancora descrivere molto meglio delle neuroscienze, con buona pace dei neuroni specchio.

 

POSTFAZIONE

di Gaetano Fornaro

Fra le numerose suggestioni e gli stimoli provenienti dalle colleghe, ha maggiormente catturato la mia attenzione e provocato la mia curiosità l’insistito accento che alcune di loro pongono su quella sorta di posizione "stenica" di Damasio che sembrerebbe allertare il lettore intorno ai temi di un’orgogliosa rivendicazione delle possibilità di "dirigere" i propri stati d’animo, attraverso una rigorosa disciplina della gioia di vivere. Come a dire: dalle passioni tristi, giustappunto di spinoziana memoria, rievocate nel famoso libro di Benasayag e Schmit, alle passioni gioiose da questi stessi autori auspicate.

E’ parso che una simile concezione semplificasse oltremodo la posizione nel mondo e nell’esistenza di chi invece si dibatta nel "male di vivere" clinicamente significativo (l’altro, non rilevante clinicamente, essendo invece fenomeno squisitamente umano). Damasio sembrerebbe aver suggerito loro una sorta di facile — e colpevolizzante — riduzionismo dell’essere umano alla sua parte "positiva", conservativa, al conatus garante del volitivo e gioioso all’esistenza. Ciò equivarrebbe, sembrano suggerire, a un’implicita messa sotto accusa di chi non riesca, per motivi che noi fino a prova contraria intendiamo "patologici" e quindi non dipendenti dalla volontà individuale, a forzare in senso positivo e conservativo il proprio sentire nei confronti della vita e di se stesso, perlomeno nel momento del manifestarsi, per esempio, di ciò che chiamiamo "episodio depressivo maggiore".

Ciò che più mi colpisce è l’apparire del concetto di "colpevolizzazione", e di conseguenza l’indiretto far equivalere un eventuale discorso sui margini della responsabilità individuale agenti anche nel disagio — ammesso che le tesi sostenute da Damasio implichino necessariamente questo risvolto morale sconfinante nella clinica della salute mentale — a un mero discorso intorno alla colpa.

I nostri maestri provenienti da concezioni psicodinamiche ci hanno insegnato come essa sia prossima all’onnipotenza, essendone magari paradossale filiazione. "Sentirsi in colpa" o evocare la colpa nel momento stesso in cui si abbozzi un discorso sulla responsabilità e quindi si faccia appello, tentando di allertarle, alle parti presumibilmente attive anche in chi definiamo "affetto da…" rischia, a mio parere, di relegarci in una visione eccessivamente deterministica e passivante della sofferenza psichica; un pessimismo che talvolta tradirebbe un’istanza onnipotente che in certi frangenti potrebbe addirittura rinunciare al fare in nome della costitutiva imperfezione e limitazione di questo stesso fare.

Il fare terapeutico è qualcosa che ci impegna e quasi "costringe", nel senso che ci muove anche a costo di una epoché della domanda, per altri versi fondamentale, sulla libertà e sui gradi di essa ancora agenti nel "disturbo".

Peraltro, se come afferma Plessner l’uomo è, a differenza di altre forme di vita o di essere, "eccentrico", ovvero non coincide mai del tutto con se stesso, può uscire dal proprio centro e oggettivarsi, avvicendando nella sua storia posizione e superamento — tradotto in termini heideggeriani ha nel suo proprio essere inscritto anche un non-essere, e qui risiederebbe la cifra di una paradossale libertà — nell’uomo "malato" l’eccentricità potrebbe risiedere nell’assunzione di una sua propria posizione all’interno di una cornice di coartazione che non esclude la possibilità di pro-gettarsi. La psicosi, intesa come riduzione illiberale a un numero minore di possibilità esistenziali sotto il giogo del sistema dittatoriale del delirio o della sottrazione del versante sintomatologico cosiddetto "negativo", non è illibertà assoluta e senza scampo; anche l’individuo psicotico progetta comunque un mondo di significati e di rimandi significativi; anch’egli vi assume il suo posto personale, come brillantemente chiariscono Stanghellini e Rossi Monti (Psicologia del patologico, 2009): "pensare a un soggetto che possa in qualche modo prendere posizione rispetto alla propria malattia significa introdurre una visione autenticamente dinamica della malattia mentale. Vedere la malattia mentale come la risultante di un gioco di forze e conseguenza della rottura di un equilibrio in cui anche le vicende di vita e l’ambiente giocano un ruolo della massima importanza".

Ricordiamo, seguendo questa scia, anche il discorso di Zapparoli su quelle parti attive segretamente persino nella forma più sorprendente e sbaragliante della apparente reductio ad absurdum della psicosi, ovvero nella catatonia.

Nel richiamo a questa eccentricità, a questo non-essere come non-essere-ancora, alla silenziosa e segreta attività in movimento sotto la superficie del negativismo catatonico, può risiedere, a mio modo di vedere, la speranza precipua del nostro fare terapeutico e il nostro "il faut nous engager" intorno al quale allertarci insieme ai pazienti.

Altro tema che torna nelle riflessioni delle colleghe è quello del dualismo cartesiano intorno al quale Damasio, nella prospettiva di una riscoperta e di un rilancio di Spinoza opportunamente adattato ai tempi, fondamentalmente incentra le sue opere.

Il dualismo, come tutte le visioni dicotomiche, è assai difficile da spiazzare, segnalando, a mio parere, di non nascere semplicemente da un incidente del pensiero che grazie a Cartesio avrebbe disteso la sua ombra sinistra fino ai nostri giorni. Nel caso del neurofisiologo portoghese, esso è "risolto" annettendo la mente al corpo, a mio avviso in una riedizione mascherata del monismo materialistico che illumina la faccenda alla luce della fisica, della biologia e della chimica del corpo.

Nel celebre romanzo "L’insostenibile leggerezza dell’essere", Kundera racconta di una donna che raggiunge l’uomo che ha conosciuto poco prima e di cui si è innamorata e, mentre gli è di fronte, bagnata di pioggia e offrente tutta la sua vita nelle mani di lui, in una scena altrimenti assai lirica e patetica, sente la propria pancia gorgogliare in un imbarazzante e rumoroso borborigmo. Quello che è più interessante è però la successiva chiosa di Kundera: "ormai sappiamo anche che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori moda. Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino perché l’unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell’età della scienza, svanisca di colpo".

Nessuno di noi può sopprimere l’esperienza, come nella narrazione di Kundera, della coesistenza di due istanze e velocità in noi, che perlomeno in certi casi appaiono dolorosamente divaricate. Possiamo per esempio, banalmente, non riconoscerci in un corpo che invecchia visibilmente, che fatica, laddove un inapparente pensiero e una sfrenata immaginazione possono coprire istantaneamente distanze siderali, essere qui ed essere al contempo altrove, heideggerianamente presso-le-cose di cui pensiero e immaginazione si prendono cura. Ma gli esempi in cui questo iato si spalanca sarebbero innumerevoli e ognuno può rintracciarli nella propria silenziosa esperienza.

Da dove arriva allora questa divaricazione così renitente agli sforzi unificatori del Pensiero? Siamo condannati alla inesausta nostalgia per una unità che appare mitica o perduta in chissà quali tempi, magari prima, come suggerisce Heidegger, della riduzione dell’Essere all’essere-semplicemente-presente — di cui il dualismo cartesiano sarebbe filiazione? E’ nel big bang neurocognitivo, ovvero nella realizzazione di un numero critico di neuroni e connessioni interneuronali, in corrispondenza del quale sarebbe apparsa la "coscienza della coscienza", la jaspersiana coscienza dell’Io, è nel momento dell’autoscopia della coscienza che si determina il paradossale allontanamento da quel mondo — res extensa — che pure l’avrebbe evoluzionisticamente partorita?

Ripenso ad alcune parole di George Steiner e non mi paiono lontane da questa ipotesi: "la padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a se stesso e all’enormità del mondo".

Nel pensiero che pensa se stesso in un abissale circolo autoreferenziale, possibile solo per mezzo della coscienza dell’Io, è dunque quel dubbio privilegio dell’uomo che nell’elevarlo lo condanna allo smarrimento della possibilità di sentirsi una sostanza unica, al di là di liriche illusioni?


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