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Alla maniera dei Gruppi Balint

Una terza via?

GIANCARLO STOCCORO

mailto:g.stoccoro@libero.it

Ciò che infine ci custodisce

è il nostro essere senza protezione. (R.M. Rilke)

Poiché non siamo noi a sapere, ma è in primo luogo una certa nostra condizione.

(Heinrich von Kleist)

Quando un medico prescrive un farmaco, prescrive se stesso. (M. Balint)

Mi piace pensare all’attualità del pensiero di Balint anche in un corso incentrato sulla "Doppia diagnosi". Qualcuno potrà arricciare il naso o ritenere del tutto inadatto un approccio così "generico" e "datato" per il fine di questa giornata, cioè la "diagnosi, i percorsi terapeutici individuali e gli strumenti" nel "disturbo da uso di sostanze/ altri disturbi psichiatrici".

Ripercorrerò brevemente la nascita e la storia del lavoro del famoso medico e psicoanalista ungherese, per soffermarmi poi su alcuni aspetti del nostro operare, ritenuti da lui centrali e troppo spesso ignorati, e vedere insieme a voi se possono essere ancora utili.

Una frase di Soren Kierkegaard può ben fare da cornice al mio intervento. Essa dice: "Vi sono due vie: una è soffrire, l’altra è diventare professore di ciò che un altro soffre". Nella visione pessimistica del filosofo esistenzialista sembra non essere possibile una terza strada…

Adam Phillips, psicoanalista winnicottiano, ha dedicato un intero libro, Paure ed esperti, alla figura, al ruolo, al senso dell’essere esperto "delle paure altrui". Il libro è ricchissimo di massime anche provocatorie che inducono a più di una riflessione, per esempio: "non appena un teorico ci fornisce una nuova descrizione dell’intollerabile, di ciò che ci fa soffrire o che temiamo, ecco che costui diventa, per lo stesso motivo, padrone della nostra sofferenza"; "l’esperto costruisce il terrore, ed ecco che il terrore fa l’esperto"; "davanti a ogni teoria varrebbe la pena di chiedersi: di cosa bisogna disfarsi per poterci lavorare?" "le ricette spuntano fuori quando la curiosità viene meno". Phillips ricorda che fu proprio Sandor Ferenczi a smascherare la funzione difensiva della professionalità in psicoanalisi e quindi l’atteggiarsi che accompagna l’esercizio di una professione.

Ferenczi, enfant terrible della psicoanalisi, ebbe tra i suoi analizzandi anche Michael Balint (Budapest 1896 -Londra 1970), al quale trasmise l’importanza dei fattori relazionali e delle forme della comunicazione oltre alla rilevanza della soggettività e della partecipazione affettiva del terapeuta nel processo di cura. Come primo direttore dell’Istituto di psicoanalisi di Budapest, Ferenczi fu il primo a creare, all’inizio degli anni 30 del secolo scorso, dei seminari e dei corsi rivolti ai medici generici nel policlinico adiacente. Questi furono poi ripresi proprio da Balint, suo successore nell’istituto ungherese. Senza scendere nei particolari, basti qui ricordare che Michael Balint si rese ben presto conto della scarsa utilità di lezioni teoriche o di incontri di supervisione in cui si creava inevitabilmente quella condizione pur sempre rassicurante ma scarsamente proficua di maestro-allievo. Per i suoi scopi, in particolare quello di sensibilizzare i colleghi alle componenti interpersonali della terapia, egli arrivò a proporre il lavoro in piccolo gruppo eterocentrato (sulla discussione di casi clinici portati a turno dagli 8-10 partecipanti che si riunivano, per un periodo di due-tre anni, settimanalmente per un’ora e mezza circa), in un’atmosfera di libero scambio in cui ognuno potesse presentare i propri problemi con la speranza di riuscire a chiarirli attraverso l’esperienza degli altri (Nella tecnica Balint il gruppo vive la relazione medico-paziente descritta dal collega, ascolta, interviene, chiede ulteriori notizie, evoca fantasie, associa liberamente. Il conduttore (o i conduttori) del gruppo partecipa come se fosse un membro in più, favorendo la libera discussione ma garantendo anche il mantenimento dell’impostazione e degli obiettivi del gruppo: egli contiene minimizzando le intrusioni nell’intrapsichico dei singoli partecipanti, dà rilievo ai fenomeni relazionali non notati dal gruppo in precedenza e che sembrano importanti per la comprensione, la terapia o l’evoluzione della situazione clinica. È capacità del conduttore essere in empatia con il gruppo, identificandosi con la posizione del relatore di turno e comunicando al gruppo questa possibilità di immedesimazione, di "immaginarsi al posto di", che diventa strumento di lavoro. Si lavora insieme sul versante cognitivo, ma soprattutto emotivo, su due livelli: quello del rapporto medico-paziente e quello tra il medico che relaziona il caso e il gruppo, consapevoli che il gruppo facilita la meta-cognizione (cioè la capacità di pensare sul pensare).

Non si tratta tuttavia di "terapia di gruppo" bensì di un lavoro comune operando primariamente sulle componenti controtransferali del medico (cioè del modo "in cui egli utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, i suoi modi di reazione automatici") nei confronti del paziente, al fine di ottenere "una modificazione notevole seppur parziale" della propria personalità. Il partecipante ai gruppi, sosteneva Balint, rispetto alla psicoanalisi individuale sarà non necessariamente meno nevrotico, ma sicuramente più maturo, vale a dire più consapevole di sé, più avvertito dei bisogni dell’altro, più attento agli effetti inintenzionali del suo agire.

<<(...) soltanto in quest’atmosfera è possibile avere ciò che chiamiamo il coraggio(...). Ciò significa che il medico si sente libero di essere se stesso con il paziente-libero cioè di usare tutte le sue esperienze passate e abilità attuali senza troppa inibizione. Nello stesso tempo, egli è pronto ad affrontare le obiezioni severe del gruppo e occasionalmente anche le critiche serrate di ciò che chiamiamo la sua stupidità. Sebbene ogni rapporto e ogni discussione del caso siano nettamente una tensione e uno sforzo, il risultato è quasi sempre un allargamento delle proprie possibilità individuali e una migliore comprensione dei problemi >>. M. Balint, (1956) Medico, paziente e malattia, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1961., pag.360.)

Egli s’imbatté quasi subito nella difficoltà, sempre presente anche oggi, soprattutto in ambito istituzionale, di garantire ai partecipanti questa condizione imprescindibile e cioè la possibilità di sentirsi liberi di essere se stessi o, per usare le parole dello stesso Balint, di avere "il coraggio della propria stupidità" (<<(...) soltanto in quest’atmosfera è possibile avere ciò che chiamiamo il coraggio(...). Ciò significa che il medico si sente libero di essere se stesso con il paziente-libero cioè di usare tutte le sue esperienze passate e abilità attuali senza troppa inibizione. Nello stesso tempo, egli è pronto ad affrontare le obiezioni severe del gruppo e occasionalmente anche le critiche serrate di ciò che chiamiamo la sua stupidità. Sebbene ogni rapporto e ogni discussione del caso siano nettamente una tensione e uno sforzo, il risultato è quasi sempre un allargamento delle proprie possibilità individuali e una migliore comprensione dei problemi >>. M. Balint, (1956) Medico, paziente e malattia, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1961., pag.360.) perché <<il medico deve rendersi conto in primo luogo e in modo elementare di ciò che capita>>, essendo lui stesso <<il farmaco di gran lunga più usato in medicina>>.

Balint fu costretto a interrompere il suo lavoro pionieristico a Budapest perché la situazione politica di quegli anni in Ungheria era tale da impedire l’esperienza stessa: i nomi dei partecipanti ai seminari dovevano infatti venire segnalati alle forze dell’ordine e un poliziotto in borghese trascriveva quanto veniva detto. Egli la riprese quasi vent’anni dopo alla famosa Tavistock Clinic di Londra, dove nel frattempo si era trasferito. Là finalmente trovò le condizioni adatte e lavorò "alla maniera dei gruppi Balint", divenendo conduttore dapprima di un gruppo di assistenti sociali e psicologi (nel 1948) e finalmente di medici di famiglia (nel 1950).

Egli scelse di lavorare proprio con questi ultimi in quanto ritenuti gli unici capaci di cogliere l’esperienza della malattia nell’ambiente socio-culturale nella quale si genera e quindi di superare le scissioni indotte da un approccio iperspecialistico e settoriale e recuperare il paziente come persona.Con la moglie Enid, psicoanalista e allieva di Winnicott, e i molti medici coinvolti nei vari gruppi da lui condotti per tutta la vita, Balint arrivò a modificare il concetto di relazione medico-paziente tradizionale sopravvissuto nei secoli (il medico visita il paziente, riferisce l’esito e fornisce indicazioni per il trattamento al paziente stesso e alla famiglia), spostando l’attenzione su fattori fino ad allora largamente misconosciuti quali: l’individuazione del medico come farmaco, il riconoscimento dell’influenza mutua nel processo di cura, la diagnosi più profonda (globale) associata all’acquisizione della capacità di ascoltare, la collusione dell’anonimità (cioè la tanto deprecabile situazione per la quale nessun medico viene ritenuto responsabile del destino dei pazienti difficili. Questo fattore ebbe (e ha tuttora) notevole rilevanza nelle discussioni all’interno dei gruppi e spinge a esplorare i sentimenti controtransferali dei medici nei confronti dei pazienti e dei colleghi e a rendersi conto della necessità di una formazione personale di tipo psicodinamico nel rapporto medico-paziente (<<ogni medico possiede un’idea vaga ma quasi irremovibile del comportamento che un paziente deve adottare in caso di malattia. (...) quest’idea (...) possiede un potere immenso, capace di influenzare (...) praticamente ogni particolare del lavoro del medico con i suoi pazienti. Tutto avviene come se ogni medico possedesse la conoscenza rivelata di ciò che i pazienti hanno diritto o no di sperare e di ciò che devono sopportare, ed inoltre avesse il sacro dovere di convertire alla sua fede tutti i pazienti ignoranti e increduli.>> ), la cosiddetta, un po’ ironicamente, "funzione apostolica" del medico. Proprio questa funzione veniva considerata da Balint quella più problematica e al contempo più difficile da abbandonare per riuscire a diventare più sensibili ai bisogni dei pazienti e più attenti a ciò che essi cercano di comunicare.

<<Invece di pensare come potevano meglio esaminare, diagnosticare e trattare i loro pazienti, i medici (arruolati nei gruppi di formazione) cominciarono a chiedersi come potevano lasciarsi meglio usare dai loro pazienti>>: questa è la testimonianza di un partecipante presente nel libro, dal titolo emblematico, Sei minuti con il paziente. Esso, insieme al più noto Medico, Paziente e Malattia e a Tecniche psicoterapiche in medicina (<<ogni medico possiede un’idea vaga ma quasi irremovibile del comportamento che un paziente deve adottare in caso di malattia. (...) quest’idea (...) possiede un potere immenso, capace di influenzare (...) praticamente ogni particolare del lavoro del medico con i suoi pazienti. Tutto avviene come se ogni medico possedesse la conoscenza rivelata di ciò che i pazienti hanno diritto o no di sperare e di ciò che devono sopportare, ed inoltre avesse il sacro dovere di convertire alla sua fede tutti i pazienti ignoranti e increduli.>>), contiene tutti gli sviluppi del lungo lavoro di ricerca e formazione e rimane tuttora punto di riferimento per la pratica dei Gruppi Balint.

Conosciuti in tutto il mondo, specialmente nei paesi anglosassoni, negli ultimi anni tali gruppi hanno coinvolto con successo varie figure professionali, affermandosi in particolare come strumento duttile, efficace e di facile attuazione per la formazione psicologica degli operatori d’aiuto e la prevenzione del burn out. Eppure essi faticano a diventare un’acquisizione diffusa a largo raggio: criticati da alcuni per la centralità delle teorie psicodinamiche a scapito di altri orientamenti (per esempio quello cognitivo- comportamentale), per la controversia sulla necessità di un training psicoterapeutico individuale e per il rischio che gli operatori formati con tale metodo focalizzino troppo l’attenzione su fattori psicologici, i Gruppi Balint sembrano non trovare spazio là dove potrebbero essere più utili. L’attuale gestione aziendale dei Servizi di Aiuto alla persona, associata a una cultura fondata quasi esclusivamente sulla Evidence Based Practice e a strategie di formazione mirate a un aggiornamento costante dei protocolli e delle procedure con criteri sempre più standardizzati, rende ben conto di questo paradosso: la scienza oggettiva, con la sua operazione di distanziamento oltre che di misconoscimento dell’importanza delle dinamiche emotive e affettive ( così massicciamente presenti in una relazione asimmetrica e carica di aspettative come quella di cura), lungi dal preservarci dall’angoscia inevitabile insita nella nostra attività, finisce per attivare difese sempre meno funzionali. A fronte della ricerca di un’ acquisizione di un’identità tecnica forte ma al contempo ipersettoriale e parcellare, crescono, infatti, di pari passo il disagio e lo stress lavorativo che lasciano il singolo operatore sempre più infelice e solo, distante non solo dai sentimenti e dai bisogni profondi di chi pretende di aiutare ma anche dai propri.

E’ ormai ben documentato, del resto, nelle ricerche sempre più frequenti sul fenomeno del burn out, che il mancato sviluppo e mantenimento di una buona relazione interpersonale, fruttuosa per il malato e per l’autostima di chi lo aiuta, ha conseguenze negative per entrambi.

Ecco che la formazione in un piccolo gruppo alla Balint, arricchito dall’acquisizione delle tecniche di gruppo che hanno avuto un forte sviluppo negli ultimi anni e reso più evidenti le specifiche funzioni terapeutiche dello stesso (universalizzazione, risonanza emotiva, senso di appartenenza, etc.) può forse apparire meno sovversiva e più "strategica" per "aiutare chi aiuta".

Del resto proprio una sorta di "circolarità virtuosa" sembra attraversare come un sottile filo rosso tutta l’opera pionieristica di Balint che ben si presta a ulteriori approfondimenti.

Basti pensare, per esempio, alla dimensione dell’ascolto nella sua duplice declinazione, di ascoltare ed essere ascoltati: " il problema non è quello di parlare del paziente ma di parlare con lui"; "i medici sanno parlare però non sanno ascoltare" sono frasi lapidarie, l’ultima delle quali pronunciata da un malato d’eccezione, Nanni Moretti, in un episodio del film "Caro diario" dove viene rievocata la personale vicenda clinica del protagonista. Come si può leggere in un testo specialistico piuttosto recente, "Gruppi di specializzandi in psichiatria impegnati in programmi a orientamento biologico lamentano che, pur sapendo tutto sui neurotrasmettitori, non sono in grado di parlare ai loro pazienti. [...] Anche i pazienti stanno cominciando a chiedere di essere ascoltati piuttosto che semplicemente trattati farmacologicamente...".

Balint diceva che era necessario "ascoltare attraverso tutti i pori della pelle" oppure "...come se avessimo un terzo orecchio" ma aveva ben capito come fosse importante anche per noi (medici e tutti gli operatori d’aiuto) trovare la possibilità di essere a nostra volta ascoltati, di "trovare un luogo in cui le cose si diano senza essere preliminarmente tradite" per dirla con Pier Aldo Rovatti.

Attraversando il silenzio, superato un certo disagio iniziale, noi piccolo gruppo di otto- dieci colleghi disposti a cerchio, seduti su sedie uguali, possiamo lasciarci raggiungere dalle parole che portano dentro di sé l’emozione dei nostri incontri con l’altro (la persona malata).

Non si tratta di imparare una teoria, bensì di "liberarsene", come diceva Enid Balint, "per fare esperienza", in una situazione creata ad hoc e quindi da tutti accettata e lavorata, della polifonia emozionale che lo stesso fatto evoca in ciascuno dei partecipanti (in quanto ciascuno è portatore della sua storia e delle sue identificazioni che si riattivano). Le storie dell’uno si intrecciano con quelle dell’altro non sommandole (1 più 1) ma appunto permeando ciascuno in modo differente; ogni storia-situazione narrata diventa del gruppo e ognuno se ne fa carico, secondo le proprie modalità (gruppalità interne ed esperienze), aggiungendo il proprio sguardo, il proprio punto di vista, a quello degli altri. Il gruppo funziona quando emerge la disponibilità o, più semplicemente, accade di essere attraversati da pensieri mai pensati.

"La presenza, la regolarità e la ciclicità degli incontri si inscrivono nella mente dei partecipanti come un rassicurante contenitore ed elaboratore di ansie che permette di evitare la fuga nella routine che protegge dall’ansia in modo disfunzionale eliminando la possibilità di ricevere la soddisfazione insita solo nel risolvere i problemi senza negarli od esserne travolti" .

Certo si tratta di un percorso formativo che non accetta scorciatoie (Balint diceva: "più ce n’è meglio è") ma che accompagna l’evoluzione professionale (consentendo quella "famosa modificazione seppur parziale della propria personalità" che tanto peso ha avuto nella scelta della nostra professione!) non tanto per apprendere nuove nozioni ma per sostenere la nostra inevitabile ignoranza e incompletezza.

 

 

 

Appendice

Caratteristiche essenziali e desiderabili di un gruppo Balint

(approvate dalla British Balint Society, marzo 1994)

Caratteristiche essenziali

1. Il gruppo deve essere ristretto

Non esistono indicazioni assolute rispetto alla dimensione dei gruppi, ma difficilmente lavorano bene gruppi con meno di sei o più di dodici persone.

2. Il conduttore del gruppo deve avere le seguenti caratteristiche

Medico di medicina generale che abbia partecipato a gruppi Balint e abbia esperienza nella conduzione di piccoli gruppi, condizione ideale per una co-gestione con un conduttore esperto di Balint o in formazione presso la Balint Society.

Psicologo, psicoanalista o professionista dell’area socio-assistenziale che abbia partecipato a gruppi Balint e abbia una qualche esperienza nella conduzione di piccoli gruppi. Il conduttore con queste caratteristiche dovrebbe avere una competenza anche nell’area professionale degli altri partecipanti (per esempio la medicina generale).

3. I partecipanti al gruppo devono avere esperienza diretta di relazione clinica con il paziente

I partecipanti al gruppo sono medici o specializzandi, ma i gruppi sono indicati anche per studenti di medicina, infermieri, sessuologi etc.

4. Il gruppo deve lavorare su un caso clinico in corso di trattamento, offrendo spunti di approfondimento e di discussione a chi presenta il caso

I casi presentati possono suscitare sentimenti di ansia, sconcerto, difficoltà di gestione (impotenza) o semplicemente sorpresa. Casi campione (cioè casi stimolo costruiti ad hoc, non reali) sono stati utilizzati da alcuni conduttori (anche dallo stesso Michael Balint), ma sono sconsigliati, soprattutto in gruppi di "principianti".

5. Argomento centrale della discussione deve essere la relazione tra il medico che presenta il caso e il suo paziente

Durante il lavoro può accadere che si debbano dare informazioni pratiche o chiarire i fatti, ma solo quelli che hanno rilevanza rispetto alla relazione medico-paziente di cui si sta trattando. Anche la discussione di questioni generali è sconsigliata in quanto poco pertinente.

6. Si sconsiglia l’utilizzo di appunti scritti

Chi presenta il caso può utilizzare appunti scritti per prepararsi, ma durante la discussione in gruppo è di cruciale importanza esporre liberamente, in base a quanto si ricorda. Eventuali vuoti di memoria non sono segno di scarsa capacità clinica, ma piuttosto indizi utilissimi per comprendere il paziente.

7. Il gruppo non deve essere un luogo di terapia personale

La consapevolezza di se stessi aumenterà in seguito alla partecipazione ai gruppi Balint, ma argomento della discussione devono rimanere il paziente e la relazione medico-paziente. Eventuali problematiche personali che insorgono nel medico non vanno ignorate ma affrontate, in questo contesto, nell’ottica di un lavoro sul paziente e non sul medico. (Campkin, 1986)

8. Si devono applicare le regole generali del lavoro con piccoli gruppi

Riservatezza, onestà, privacy, rispetto per gli altri membri del gruppo sono elementi essenziali. La disposizione del gruppo dovrebbe essere in cerchio, su sedie preferibilmente simili tra loro. La durata degli incontri è da una a due ore. La discussione di casi nuovi da mezz’ora a un’ora.

9. Scopo del lavoro di gruppo è approfondire la comprensione della situazione problematica e non trovarne la soluzione (parafrasando da Campkin, 1986)

I partecipanti al gruppo saranno quindi stimolati a esprimere il loro punto di vista sulla situazione presentata e disincentivati a fare domande dirette e a dare consigli pratici.

10. Responsabile ultimo del funzionamento del gruppo è il conduttore, che deve garantire che vengano rispettate tutte le regole appena presentate.

Tutti i membri del gruppo condividono alcune responsabilità (vedi punto 8), ma il conduttore è garante ultimo che nessuno dei partecipanti, in particolare chi presenta il caso, rimanga eccessivamente turbato (elicitare preoccupazioni o ansie d’altra parte è il prezzo inevitabile da pagare in ogni situazione di apprendimento).

 

Caratteristiche desiderabili di un gruppo Balint

1. La continuità del gruppo

I gruppi Balint prevedevano originariamente incontri settimanali, anche per molti anni. Oggi ciò è difficilmente realizzabile, ma si raccomanda la continuità, nei termini di incontri a cadenza regolare. D’altra parte, anche un singolo incontro può essere sufficiente per sperimentare il metodo e partecipare a un weekend organizzato dalla Balint Society può far apprendere qualcosa di utile

2. Il gruppo chiuso

La condizione migliore è che i partecipanti di un gruppo rimangano i medesimi per lungo tempo. D’altra parte, per essere realisti, gruppi occasionali o strutturati meno rigidamente sono meglio di niente.

3. La presenza di un co-conduttore

La contemporanea presenza di un conduttore di formazione medica e di uno di formazione analitica, così come la presenza di un conduttore esperto e uno in formazione, conferiscono valore aggiunto al gruppo

4. Training psicoanalitico per il conduttore

Il buon senso suggerisce che un conduttore che abbia familiarità con le dinamiche inconsce possa aiutare meglio i partecipanti di un gruppo Balint a lavorare sulla relazione medico-paziente. Una buona esperienza di conduzione di piccoli gruppi può tuttavia prescindere dal training analitico. Naturalmente seguire, in qualità di co-conduttore, un gruppo diretto da un analista può essere utile.

5. Il gruppo non è obbligato a fare accedere chiunque

il conduttore dovrebbe selezionare i possibili partecipanti prima dell’ingresso in gruppo in modo che i gruppi così formati possano lavorare al meglio. Verosimilmente persone poco flessibili e dunque giudicate poco adatte al lavoro di un gruppo Balint sono però anche quelle che hanno problemi più grossi nella pratica clinica.

(Compiled, after consultation with other members of the Balint Society council by Paul Sackin, vice president of the British Balint Society).

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