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LA TUTELA DELLA SALUTE DELLO PSICOTERAPEUTA NEL NOSTRO PAESE. APPUNTI PER UNA RICERCA

Prof. Nicola Lalli

Dott.ssa Albertina Seta

Il Prof. Nicola Lalli, psichiatra e psicoterapeuta è titolare della cattedra di Clinica psichiatrica e dirige da anni il Servizio di Psichiatria e Psicoterapia dell'Università "La Sapienza" di Roma.

La dott.ssa Albertina Seta, psichiatra e psicoterapeuta ha lavorato per molti anni nel SSN, attualmente svolge esclusivamente attività privata.

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Prof. Nicola Lalli (mailto:nicola.lalli@uniroma 1.it)

Dott.ssa Albertina Seta (mailto:a.seta@mclink.it)

1 Breve storia

Come è noto, la psicoterapia in Italia è stata disciplinata solo nel 1989, da un intervento legislativo a cui comunemente ci si riferisce come "Legge Ossicini". E' altrettanto noto che tale intervento, stimolato dalla necessità di risolvere una situazione particolare, che riguardava la categoria degli psicologi che fino a quel momento non avevano ricevuto alcun riconoscimento di identità professionale, è stata fatta segno di critiche, anche feroci, ed è divenuta oggetto di un dibattito i cui echi non si sono ancora spenti. Al di là delle obiezioni di cui è stata fatta oggetto, alla legge va riconosciuto comunque il merito di aver posto sul tappeto la questione della psicoterapia, prescrivendo innanzitutto che i titoli necessari al suo esercizio dovessero essere rilasciati da istituzioni dello stato o, in subordine, da altre istanze formative soggette a verifica istituzionale. Non bisogna infatti dimenticare che, prima della legge Ossicini, la psicoterapia era di fatto regolamentata solo all'interno di associazioni private che, in base a regole e statuti autoctoni, nominavano al loro interno i membri autorizzati a un intervento.

Il termine psicoterapia, ancora oggi che sono passati più di dieci anni dall'intervento legislativo che lo ha riproposto con nuova dignità, suscita discussioni non sempre limpide tra i cultori della materia. Benchè la legge gli abbia conferito il senso di intervento terapeutico, con correlati obblighi di integrità, trasparenza, responsabilità rispetto ai cittadini che vi ricorrono, permangono confusioni semantiche e concettuali per cui la psicoterapia continua a portarsi dietro uno stigma da figlia spuria. Essa sarebbe in sostanza una sorta di parente povera, più pragmatica e villana della titolata psicoanalisi.

E' ancora possibile, nel dibattito tra colleghi, assistere a equilibrismi dialettici tesi a stabilire differenze e gerarchie tra i due ambiti: quello psicoterapico e quello psicoanalitico. Spesso dietro tali esercizi si può rintracciare un assunto di questo tipo: più nobile ed elevata, la psicoanalisi non avrebbe come scopo la cura e la prevenzione delle malattie mentali, quanto piuttosto il disvelamento di "misteri" connessi all'animo umano, coerentemente con ciò, lo psicoanalista non dovrebbe rendere conto a nessuno, se non alla sua stessa istituzione di adepti, del proprio operato. Il carattere di autoreferenzialità di un simile ragionamento è lampante, ma, non è superfluo sottolinearlo, questa posizione ha corrisposto storicamente a una delle più forti correnti di opposizione alla Ossicini. In considerazione di ciò, riteniamo giusto ribadire che la legge dell'89, con tutti i suoi limiti, ha rappresentato un importante iniziale riscatto dalla situazione di evidente oscurantismo che l'aveva preceduta.

La legge ha tra l'altro ottenuto dei risultati concreti, come l'istituzione, per la prima volta, di un Ordine professionale degli psicologi, e di due appositi Albi degli psicoterapeuti, rispettivamente presso l'Ordine degli psicologi e l'Ordine dei medici. Essa ha inoltre stimolato, per quanto riguarda la categoria degli psicologi, la formulazione "ex novo" di un codice deontologico, cosa che per gli psicoterapeuti medici esisteva già.

Pur accettandola pienamente nella sostanza, bisogna però evidenziare che la legge Ossicini lascia irrisolti molti nodi. La sua relativa giovinezza e il carattere prevalente di sanatoria fanno sì che diversi aspetti della professione di psicoterapeuta risultino ancora poco o niente tutelati.

Una questione ulteriore riguarda la problematica sollevata dal fatto che ci siano due tipi di psicoterapeuti: i medici e gli psicologi, il che suscita confusioni, sia nell'impiego dei professionisti nelle strutture e nei servizi, sia nell'utenza che spesso non sa come orientarsi. Pensiamo che tale problematica vada affrontata nell'ambito della formazione dello psicoterapeuta, con la ricerca di una metodologia il più possibile unitaria e coerente del trattamento e della formazione in psicoterapia.

2 Qualificazione sociale attuale: medico psicoterapeuta, psicologo psicoterapeuta

Con queste premesse, apprestiamoci a vedere come stanno le cose oggi.

In questi dodici anni sembra che l'attenzione delle istituzioni si sia concentrata sugli aspetti più urgenti. Commissioni di esperti istituite presso i rispettivi Ordini provinciali, degli psicologi e dei medici, si sono occupate di concedere la legittimazione all'esercizio della psicoterapia ai professionisti che ne avevano fatto domanda, nonchè di stabilire i criteri definitivi per future ammissioni. Tali commissioni hanno lavorato intensamente all'avvio della delicata operazione di istituzione degli Albi. Attraverso alterne vicende e non senza polemiche, hanno esaminato le posizioni di migliaia di professionisti, ne hanno valutato titoli formativi ed esperienza pratica, delineando in tal modo un profilo professionale specifico che di fatto non esisteva.

Una volta risolte le questioni più pressanti, è stata la volta del tema della formazione, che aveva già segnato il dibattito attorno all'approvazione della Ossicini. Negli utimi anni si è discusso, e tuttora si continua a discutere, soprattutto di legittimazione delle scuole di psicoterapia, ossia di quelle istituzioni private alle quali può essere riconosciuta la facoltà di concedere titoli validi per l'iscrizione all'albo degli psicoterapeuti.

E' in qualche misura comprensibile come gli interessi che ruotano attorno alle questioni fin qui menzionate possano avere condizionato il dibattito attorno alla psicoterapia e guidato l'intervento istituzionale, ma forse è ora di evidenziare che tutti gli altri aspetti relativi alla nascita della nuova professione non sembrano essere stati oggetto di altrettanta attenzione e che allo stato attuale è perfino difficile trovare un referente presso il quale sollevarli.

Tutto ciò sembra confermare che la legge Ossicini somigli più a una sanatoria che a una riforma. Un esame del suo iter consente di seguire il dibattito che l'ha segnata e permette di capire che molte soluzioni in essa proposte hanno effettivamente rappresentato risposte di compromesso a un preesistente stato di cose oltremodo intricato.

Per quanto riguarda gli psicologi, è utile ricordare che essi hanno discusso l’opportunità dell’istituzione dell’Albo degli Psicoterapeuti fin dalla metà degli anni ’70, sulla spinta di due motivazioni principali.

Da una parte, molti psicologi, seguendo il modello associazionistico degli psicoanalisti, si indirizzavano verso l’esercizio di diversi tipi di psicoterapia e ritenevano opportuna una regolamentazione. Si trattava di modelli psicoterapeutici importati dagli Stati Uniti oppure derivati dalla psicoanalisi stessa che non di rado venivano trasferiti da medici, psichiatri e professori universitari nell’ambito di associazioni private. A questi psicologi si affiancavano anche coloro che non erano laureati in psicologia, e che non si erano premurati di iscriversi presso le facoltà di psicologia fondate in Italia nei primi anni ‘70, ma che avevano ugualmente avuto accesso ai programmi formativi degli enti privati e che esercitavano già la psicoterapia. Coloro che avevano fondato queste pionieristiche scuole di formazione in psicoterapia non si erano posti il problema dei reali sbocchi professionali e di una definizione chiara del ruolo dello psicoterapeuta, ma sembrava che rispondessero in modo diretto e opportunistico alla richiesta emergente di persone alla ricerca di un’identità.

Dall’altra parte, la riorganizzazione dei servizi di salute mentale aveva sancito l’utilità di un’équipe dove fosse presente lo psicologo che, non potendo curare con i farmaci, non poteva non sentire l’esigenza di costruire la propria identità professionale attraverso l’esercizio della psicoterapia in contesti in cui ci si confrontava spesso con disturbi psichici gravi o in cui si dovevano affrontare momenti critici del ciclo vitale della famiglia. Moltissimi psicologi si trovavano a lavorare nei centri di igiene mentale o nei consultori o nei servizi di neuropsichiatria infantile coadiuvando i medici nell’ambito di una collaborazione che spesso comportava l’assunzione totale della responsabilità relativa al progetto di intervento con il paziente o con il cliente.

Va sottolineato che in entrambi i casi, prima che fossero fondate le scuole di specializzazione in Psicologia Clinica presso l’Università (che comunque sono rimaste numericamente insufficienti), la formazione veniva offerta da quegli enti privati che, dopo l’introduzione della Legge Ossicini, è stato necessario sottoporre a controllo e regolamentazione.

I lunghi anni della discussione, prima del 1989, potranno senza dubbio essere ricordati come fase in cui gli psicologi si sono definiti socialmente come categoria professionale, mossi dalla motivazione che venisse loro riconosciuta anche la competenza a svolgere un ruolo terapeutico paragonabile a quello del medico che, negli stessi anni, poteva già contare su un forte riconoscimento a livello sociale.

Per la psicoterapia medica il discorso si poneva in maniera diversa, anche se sollevava problemi altrettanto complessi. Esisteva infatti già un'identità professionale del medico, ben consolidata, a cui fare riferimento e nella quale eventualmente inquadrare il problema specifico della relazione psicoterapeutica come articolazione del più generale rapporto medico-paziente. In ambito medico, per porre le cose in modo radicale, si sarebbe dovuta affrontare la questione della psichiatria poichè, secondo alcuni orientamenti che condividiamo, psicoterapia e psichiatria dovrebbero in realtà coincidere, in quanto la psicoterapia sarebbe la pratica di cura di elezione della patologia mentale. In altre parole, le commissioni di studio della legge, nel lavorare al problema della psicoterapia medica, avrebbero dovuto addentrarsi nella storia della psichiatria e confrontarsi con il problema della separazione di questa disciplina da altre specialità mediche, prima tra tutte la neurologia. Avrebbero dovuto altresì sviscerare la questione dell'identità psichiatrica e delle sue contraddizioni ancora vive nella società attuale.

Lo psichiatra, possiamo dire, non ha ancora risolto un dramma: come mantenere le proprie radici di identità medica e dunque di metodologia basata su diagnosi prognosi e terapia, sul rapporto del medico con le vicende della malattia e della morte e sul rapporto medico-paziente e come svincolarsi, d'altra parte, dal modello di patologia d'organo che contraddistingue ogni altra specialità medica.

Come si vede, si sarebbero dovute toccare questioni a dir poco spinose. Non si è fatto. Si è preferito creare un albo specifico di psicoterapeuti nell'ambito dell'albo dei medici rischiando di smembrare la psicoterapia dalla psichiatria. Ma queste sono considerazioni al margine che nulla vogliono togliere allo stato di fatto che si è venuto a creare e intendono solo essere da stimolo a riflessioni ulteriori.

3 Pregiudizi diffusi sulla salute dello psicoterapeuta

Ci interessa evidenziare come ora, che in qualche modo è venuta alla ribalta la novità del riconoscimento pubblico e sociale della professione di psicoterapeuta, andrebbero affrontati alcuni nodi relativi alla sua tutela, primo fra tutti quello che concerne la salute fisica e mentale. L'interesse per questo specifico argomento nasce dalla considerazione che il problema è in gran parte ignorato, e non solo nel nostro paese. Un autore americano, J.Guy, noto per aver scritto uno dei pochi testi tradotti in italiano sull'argomento, osserva acutamente che, almeno negli Stati Uniti, lo psicoterapeuta nella percezione comune non solo è sano, ma addirittura invulnerabile. In altre parole, riesce difficile pensare che la persona a cui ci si affida per una psicoterapia possa essere a sua volta malata, perfino psichicamente malata. A dispetto di quanto si può vedere in certi film americani, che ci mostrano psicoterapeuti alcolizzati o gravemente nevrotici, e finanche psicopatici e delinquenti, sembra dunque che una certa aspettativa comune sia quella di uno psicoterapeuta che non si ammala mai.

La cosa va analizzata con attenzione, poichè suggerisce un'idea di invulnerabilità che non pare accettabile e che sembra fare capo ad aspettative magico-onnipotenti nei confronti di qualcosa o qualcuno che sfuggirebbe a umane possibilità di rapporto. Saremmo di fronte a qualcosa che va al di là di una massiccia idealizzazione della figura del terapeuta e che proporrebbe il problema di una negazione della sua realtà umana, come tale vulnerabile da noxae sia fisiche sia psichiche.

Tutto ciò non ha niente a che vedere con un aspetto centrale della relazione terapeutica che consiste nell'aspettativa, da parte del paziente, di una "sanità" del terapeuta. Ci soffermeremo su tale distinguo, a nostro avviso di fondamentale importanza.

Diciamo innanzitutto che la "sanità dello psicoterapeuta" fa riferimento a facoltà profonde e non si esaurisce nell'assenza di patologie manifeste. Per sanità del terapeuta intendiamo una situazione di integrità ovvero di un certo modo di essere nei rapporti interumani che implica principalmente una sanità della realtà psichica latente, inconscia, una strutturazione armonica di inconscio coscienza e comportamento che fa sì che egli possa funzionare da potente fattore terapeutico per un altro individuo che si è ammalato.

La sanità del terapeuta a nostro avviso è un'idea che si dovrebbe collegare strettamente all'altra idea che nella relazione psicoterapeutica il fattore curativo fondamentale è rappresentato dalla realtà della persona del terapeuta, che si pone come "diversa" da quella del paziente: il terapeuta sarebbe colui che, non essendo malato, può proporre una relazione sana e trasformativa a chi conosce, o crede di conoscere, solo rapporti malati, ossia il paziente.

La sanità del terapeuta, peraltro, è qualcosa da provare "sul campo", non è un dato di principio attribuibile a chiunque possieda i requisiti per potersi fregiare della qualificazione sociale di psicoterapeuta. Un ideale, forse, ma un ideale concreto e realizzabile, che dunque non avrebbe niente a che vedere con il pensiero di una condizione magica di invulnerabilità connessa al ruolo. Nel parlare di sanità del terapeuta pensiamo dunque a una realtà che si potrebbe acquisire non come un comune titolo di studio, men che meno per investitura, ma grazie a doti umane di partenza e a un lavoro di formazione continua che comporti in primo luogo la cura personale. E che forse non si acquisisce una volta per tutte.

Il terapeuta infatti è chiamato ogni volta, a ogni incontro, a dimostrare di essere il più sano. Quindi bisogna considerare che il suo lavoro, quando naturalmente non si limiti a una neutrale applicazione di tecniche, cosa che non consideriamo psicoterapia, consiste nel mettere concretamente a rischio la propria realtà nel confronto quotidiano con le situazioni distruttive proposte dai pazienti. Dunque, la realtà del terapeuta oltre che sana dovrebbe essere dotata di resistenza alle sollecitazioni violente di cui è fatta segno.

Il discorso si complica ulteriormente se si considera che tali attributi di sanità e resistenza riguardano dimensioni interne profonde, talora inconsce, di un individuo, non valutabili con mezzi superficiali di indagine. Sarebbe lungo e complesso spiegare come sia possibile ipotizzare una realtà di formazione che continuamente verifichi lo stato di sanità profonda di uno psicoterapeuta. Non è questa la sede per farlo. A noi interessa qui semplicemente proporre la questione in termini generali.

L'idea di terapeuta sano è dunque in primo luogo un'idea, che lungi dal rappresentare un'affermazione onnipotente e assoluta, corrisponde a qualcosa che deve essere continuamente verificato nella relazione. Essa trova le sue basi teoriche nell'idea corrispondente di una possibile sanità dell'inconscio umano. Ovvero di un inconscio originariamente sano, anche se passibile, sotto sollecitazioni esterne, di cadere nella malattia.

L'idea del terapeuta sano così intesa, conseguentemente, non porta a escludere la possibilità che il terapeuta si ammali, anzi è di stimolo all'attenzione nei confronti dell'insorgere di eventuali situazioni di malattia che potrebbero essere di pregiudizio all'attività professionale. L'idea del terapeuta invulnerabile per definizione aprioristica rappresenta invece un ostacolo insormontabile all'impostazione del problema della tutela della sua salute.

Un'altra concezione, apparentemente opposta a quella del terapeuta invulnerabile, ma di fatto a essa equivalente nei risultati, è quella per cui il terapeuta è per definizione malato, originariamente malato, come del resto lo sono i suoi pazienti, ovvero come lo siamo tutti. Paradossalmente anch'essa porta agli stessi risultati di scarsa o nulla considerazione per un eventuale situazione di malattia di uno psicoterapeuta. E' ovvio che se siamo tutti noi esseri umani un po' malati, perchè l'inconscio umano è originariamente malato, la malattia non è un evento drammatico a cui far fronte, non è possibile proporsi di conseguenza alcuna cura o guarigione. La psicoterapia consisterebbe allora nel conforto o nel sostegno che viene dato a un malato da una persona altrettanto malata, non importa se più o meno, che però ha imparato a far fronte (coping) alla propria malattia, oppure in un invito alla rassegnazione a una condizione umana "che è quella che è", ossia originariamente perversa, o comunque monca, sciancata. Questa idea di malattia psichica originaria sembra dunque portare nella stessa direzione di ignorare le condizioni di salute psichica del terapeuta e può estendersi alle sue stesse condizioni fisiche. Si tratta infatti di un'idea religiosa di "ineluttabilità del male" che finisce con il coinvolgere la stessa realtà del corpo, come in tutte quelle situazioni in cui una massiccia alienazione religiosa porta all'alienazione della realtà fisica degli individui e dei loro bisogni.

Pensiamo sia utile liberarsi preliminarmente di queste due concezioni per poter approcciare il problema della salute del terapeuta che ci presenta ulteriori, difficili articolazioni. Calandoci nel concreto del problema sociale dello stato di salute di migliaia di professionisti dovremo infatti iniziare a operare alcuni distinguo: tra malattie fisiche e malattie psichiche, per cominciare, e tra malattie manifeste e malattie latenti. Ed è in primo luogo di situazioni manifeste che cominceremo ad occuparci, lasciando sullo sfondo il più complesso tema della sanità inconscia.

Lasciamolo dunque sullo sfondo, ma non dimentichiamolo del tutto, poichè le considerazioni svolte fino a ora definiscono il nostro approccio a problemi che altrimenti potrebbero suonare come perfino ovvii e banali. Dire che è auspicabile che un paziente si trovi davanti uno psicoterapeuta che quanto meno non beve, non si droga, non vive rapporti interpersonali disastrosi, non medita il suicidio potrebbe infatti risultare perfino ovvio e banale. Come pure dire che un terapeuta abbia bisogno di un aiuto concreto allorchè si trovi in difficoltà - perchè affetto da una malattia fisica, o alle prese con momenti della vita particolarmente impegnativi - che potrebbero pregiudicare fortemente le sue capacità lavorative.

Quanto detto fin'ora ci permette di inquadrare la problematica della salute del terapeuta nel contesto di un processo di uscita da una sorta di medioevo oscurantista che sembra essere l'unica spiegazione plausibile dell'attuale stato di arretratezza in cui neanche le situazioni più manifeste ed evidenti sono prese in considerazione.

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