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Una fantasia di gravidanza maschile.  
di Laura Montani

    Unheimliche e deinon. Incontriamo questi due aggettivi, l'uno in Freud, l'altro in Heidegger, come a segnare il margine contiguo alla ricerca di entrambi. E' con unheimilch infatti che Heidegger traduce il deinon greco. Riguardano, questi aggettivi, un incavo particolare che si forma nel sentimento della paura, là dove, qualche cosa di heimisch, di noto e familiare, ci appare nello stesso tempo ignoto e straniero, mantenendo tuttavia la sua veste heimisch, familiare.  Questo aspetto terribile del familiare, questa estraneità a se stesso del soggetto, questa alterità originaria che lo fonda è ciò che Freud da una parte e Heidegger dall'altra incontrano e percorrono, sebbene per strade diverse; interrogandosi l'uno sul sentire, l'altro sull'essere. Ma entrambi si muovono  a ridosso di quello che nel primo coro dell'Antigone Sofocle indica come ciò che vi è di più “inquietante tra tutto l'inquietante” (to deinotaton), l'essere umano.
    Questi due aggettivi, via via che la ricerca psicoanalitica procede in un tempo storico su cui essa sembra non riuscire più a fare presa, in uno spaesamento che non è più quello originario che le permetteva una feconda erranza,sembrano essere tuttavia, e proprio in ragione di questo movimento, ancora i più adatti a costellarne il campo e a segnarne bordi. La formidabile operazione di revisione che negli ultimi vent'anni ha riportato la psicoanalisi da un territorio che nativamente si poneva come al di là della psicologia, a uno spazio che ripropone la silouhette di un soggetto preanalitico - quello, per intenderci, che proprio la psicoanalisi, al suo sorgere, aveva indicato come un'illusione - si radica nel diniego del territorio unheimilich, quello abitato dal deinotanon, che è quello suo proprio.
    Tenterò di dare conto qui di un lavoro interiore che si è svolto in una condizione   vincolata da un'aderenza  acuta al sentimento dell'uneimliche, inseguendo una suggestione forte mediata da un evento clinico assai singolare che mi ha una volta di più mostrato e confermato come il lavoro dell'analista si svolga in definitiva al di là del cosiddetto intrapsichico o intersoggettivo o, se si vuole - nel caso di un pensiero più duttile e affinato -  anche al di là del punto di intersezione tra queste due modalità imprescindibili della vita psichica. Fino alla comparsa della nozione di campo alcune scuole avevano tentato di tenere rigorosamente contrapposte queste due modalità, ma un pensiero psicoanalitico più cauto, uscito finalmente dallo scontro tra contraddizioni forti (penso al lavoro sul controtransfert di Green), ha cominciato a riconoscere che questi due ambiti attraverso i quali ci rappresentiamo l'accadere psichico non sono che delle semplificazioni, o se vogliamo, illusioni rappresentative attraverso cui cerchiamo di contenere l'angoscia dovuta alla  particolare natura del nostro oggetto da alcuni definito ineffabile. Tale ineffabilità a rigor di logica porterebbe dritto allo stallo segnalato da Wittgenstein con l'ormai  celebre enunciato: Di ciò di cui non si può parlare occorre tacere (e nella sua vulgata viene di fatto utilizzato per attaccare il nostro lavoro), se non fosse che per un analista, diversamente dal filosofo e dal linguista, il silenzio non rappresenta uno scacco e il tacere non è un  ammutolire.
    Prendiamo il caso esemplare del silenzio all'interno della  seduta analitica di cui, peraltro, esso organizza per certi versi  il ritmo elaborativo, come mostrerò più avanti. Certamente esso cade e accade in condizioni che formalmente rispondono alla proposizione conclusiva del Tractatus.
    Interroghiamo dal versante dell'orizzonte analitico l'aspetto di vincolo che quell'occorre contiene. Possiamo dire che in analisi il silenzio è legato sempre, per entrambi i componenti della coppia, ad un eccesso di senso .
    Questo eccesso è quello del deinotaton in cui l'orizzonte psicoanalitico si fonda, e, parimenti ne impedisce una definizione teorica chiara e distinta.
    Ma non per questo l'orizzonte viene meno, anzi, se mai  percìò stesso si definisce come ciò che sempre sfugge e si sottrae alla cattura di una definizione univoca, proprio come il corpo desiderante che esso, per primo, ha fatto sorgere.

    Una coincidenza

    Quel giorno e i precedenti avevo a lungo riflettuto su un dipinto di Delacroix: La morte di Sardanapalo. A dire il vero è  questo un autore che non ho mai molto amato, ma ero stata spinta  a riconsiderarlo dalla suggestiva interpretazione che ne offre André nel saggio Alle  origini femminili della sessualità che, appunto, proprio in quei giorni stavo leggendo. Il saggio contiene una ipotesi assai affascinantee, per certi versi in consonanza con certi miei pensieri intorno alla metonimia origine- femminile su cui sono andata lavorando in  Attesa e abbandono e intorno alla quale continuo attualmente a lavorare.Sviluppando la tesi della seduzione originaria che dobbiamo a Laplanche, André postula l'ipotesi del bambino sedotto, come cavità originaria, al di là del suo sesso biologico, all'interno della quale l'inconscio dell'adulto penetra con la sua passione. La libido si aprirebbe ad una prima articolazione di godimento dando luogo a una semantica femminile entro cui quella maschile andrebbe successivamente a disporsi. Per sostenere questa sua ipotesi André si serve dell'analisi del quadro di Delacroix al quale sopra accennavo. Svolgendo un'indagine finissima sui disegni che precedono la realizzazione dell'opera definitiva André mostra come la figura femminile preceda sempre, nella composizione, quella maschile e come quest'ultima vada a cadere, nello spazio compositivo, là dove la prima le ha aperto, per così dire la strada.
    Ma c'é di più. Da questo femminile originario in cui libido e godimento si articolano, André fa discendere un'altra suggestiva ipotesi sulla scena primaria: il quadro di Delacroix non solo mostra questa scena come tale ma permette di vederla nel suo oganizzarsi, nel suol farsi strutturale fin nelle sue componenti minimali, dove il femminile va a porsi come la figura fondamentale di un processo che il quadro porta al suo termine "generatrice potenziale dell'opera, maelstrom selvaggio che precede la distribuzione delle rappresentazioni e nello stesso tempo ne minaccia la dimensione figurativa"(p.97)
    
    Comincia la seduta e il mio paziente abitualmente tanto schivo da non guardarmi neppure in faccia ed evitare di stringermi la mano al suo ingresso, si ferma questa volta in mezzo alla stanza e mi guarda dritto negli occhi. Tra le mani stringe ben fermo un volume che mi porge
"Dottoressa, le dispiace dare un'occhiata a questo?" dice e subito dopo si stende sul lettino.
    Anch'io prendo posto sulla poltrona. Mi accorgo di avere tra le mani... una raccolta di riproduzioni delle opere di Delacroix.
"Voglio raccontarle un sogno - sta dicendo il mio paziente - c'è un quadro di Delacroix che mi serve per spiegarle che tipo di luce c'era nel mio sogno. Vede l'illustrazione a pag...?"
    Apro il volume alla pagina indicata. Il quadro è... La morte di Sardanapalo. I pensieri che seguono sono un tentativo di elaborare il `troppo perturbante', l'eccesso di questa coincidenza, sulla scorta di alcune recenti formulazioni che indagano nel testo come corpo, giungendo a rintracciare nel femminile (inteso nella sua accezione più allargata di area semantica) il luogo originario da cui trae matrice il senso.

    Per cercare di mostrare come questo eccesso, questo `troppo  perturbante' della seduta nel mio caso ha lavorato, parlerò dei suoi effetti di senso.
    Innanzitutto, impigliata con il mio paziente - così come ho mostrato - in una relazione dove, hic et nunc, l'identico rimandava  di colpo all'estraneo, mi é accaduto che, per sciogliere una coincidenza che metteva a rischio il senso schiacciandolo o nell'indifferenziato o nell'indicibile, mi venissero incontro `figure' antiche formalizzate dalla tradizione psicoanalitica e che io le riscoprissi come nel loro sorgere, donatrici di un senso che mi convocava però con forza all'abbandono tanto della teoria nel suo assetto reificato di dottrina, quanto dell'ideologia, nel suo assetto di illusione.
    Queste figure, cercherò di mostrare, andavano ad organizzare l'esperienza eccessiva della seduta trascinando con sé, oltre alla sua complessità, anche quella dell'accadere storico. Apparentemente senza un senso coglibile da uno dei tanti saperi specifici, riconfusi oggi nei vari approcci interdisciplinari infatti, il tempo in cui vivo, la res gesta si riordinava e la sua complessità mi appariva non solo tautologicamente come il portato generico di se stessa, ma via via che  le figure originarie del pensiero psicoanalitico  mi riproponevano la loro traccia,essa si disponeva all'interno di un campo, quello  dell'unheimliche  e del deinon, per essere, al suo interno, se non compresa, almeno  pensata, come lo sfondo dal quale la sofferenza del mio paziente, anche se solo sua e quindi unica e irripetibile, tuttavia si stagliava.
    Utilizzando due livelli di riflessione, quindi, uno riguardante l'accadere storico, l'altro più strettamente legato all'evento clinico, tratterò dell'incontro con la produttività di certi testi, di certe figure della psicoanalisi che attirano con una forza particolare l'analista, come vincolandolo a una specifica riscoperta di senso in quel momento cruciale in cui il reale irrompendo nello spazio  della seduta, sembra frantumarlo.
    Accennerò  in specie al caso del presidente Schreber, così come Freud ce l'ha presentato e alla forza di attrazione che esso ha esercitato su di me inducendomi a ripensare, alla luce delle sue suggestioni, oltre che certi momenti del mio lavoro clinico, due dei dibattiti più accesi a cui partecipano oggi senza nessuna esclusione tutti i saperi contemporanei. Mi riferisco al dibattito intorno alle “patologie” gravi, e alla vexata quaestio della loro “trattabilità” da parte dalla cura ”classica” e in secondo luogo a quello più recente aperto dalle nuove pratiche di ingegneria genetica intorno ai limiti etici della tecnica.(Sottolineo tecnica intendendo con questo termine un momento del fare umano che é separato dalla scienza, come mostrerò più avanti).  In entrambi i casi quello che viene messo in gioco rispetto ai “trattamenti possibili” è il corpo, chiamato alla ribalta per essere rimaneggiato, vuoi dal farmaco, vuoi dalle varie tecnologie di riproduzione. Ma quale corpo? Il corpo, infatti, per la sua natura polisemica, risponde all'assolutezza di certe procedure interpretative, sempre sottraendosi alle iscrizioni con cui queste lo articolano nel loro specifico immaginario. Esso si rifiuta di offrirsi all'economia medica come corpo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, all'economia politica come forza lavoro nel momento in cui, al di là della sua frantumazione in vari saperi, ripropone la sfida di un resto, la sfida  del suo essere significante al di là delle singole e specifiche significazioni.  Questo resto, questo fondo oscuro che si dà come “ciò che permane ma che sempre si sottrae”, è il corpo, cosi come la psicoanalisi lo ha offerto al nostro secolo: non il corpo-cosa della tecnica ma il corpo umano, un corpo desiderante. Di questo corpo “psicoanalitico”, aggettivabile come unheimlich Schreber ha reso una sua specifica testimonianza e la sua fantasia può esemplarmente essere assunta come un motivo conduttore che orchestra segretamente alcuni aspetti del fare umano.


Una coincidenza o uno svelamento?


    Torniamo indietro, al momento in cui il mio paziente comincia a raccontare il suo sogno e io sono di fronte al perturbante che mi viene incontro. Questo è il sogno:
Sono disteso su un grande letto in una grande stanza con un soffitto a volta sostenuto da colonne. Mi accorgo che il mio corpo è come aperto e dal mio fianco forse, ma forse dal mio sesso, esce  un grumo di materia o forse un  figlio. Ai bordi del letto c'è una figura femminile ,nuda, di spalle, con una parte della testa come fracassata. La luce è quella che vede nel quadro, un nero rossastro che mi fa pensare al sangue. Lentamente la donna si volta verso di me e vedo che,sotto il suo cranio maciullato , ha il mio stesso viso.
    
    Mentre M. racconta mi si affollano nella mente frammenti dell'analisi, come un puzzle che il sogno  permette di ricomporre.
    M. che mi porta raccolte in una cartellina blu, le sue poesie.
M.che me ne parla, mantenendo il discorso sempre su toni fortemente ambigui, come se avesse nei confronti della sua scrittura una perplessità relativa non alla sua qualità ma alla sua funzione.
    (Dentro la cartellina blu mi aspettavo di vedere,- vado ricordando - tale è M nel suo aspetto esteriore - un testo graficamente composto e “pulito”.
Sopresa dunque, nel ritrovarmi di fronte a cinque composizioni scritte e riscritte numerose volte a mano, sempre le stesse, ognuna piena di cancellature e trasformazioni di nuovo cancellate.
    Questo lavoro di cancellazione, veri e propri sfregi sul corpo del testo, mi aveva dato da pensare: mi era parso  da una parte come il segno vivo di una rimozione, dall'altra come uno sbarramento che, proprio come quello dei cartelli stradali che vietano l'accesso, indica contemporaneamente  la presenza di una strada, soprattutto mettendo questo lavoro di sfregio e cancellatura in connessione con certi suoi ricordi che andavano faticosamente emergendo.
    Un ricordo in particolare, ricorrente con una certa frequenza, dove M si vede piccolissimo intento a succhiare il suo piccolo pene, mi era parso un ricordo di copertura volto a nascondere un piacere scotomizzato e inammissibile: un ricordo levato contro la possibilità di ammettere di avere goduto dell'Altro.)
    M. e la sua prima giovinezza: una crisi maniacale un ricovero breve, di cui mi ha informato, ma di cui non parla.
    M. che ha studiato musica e suonato a lungo uno strumento, il sassofono e l'ha ormai da tempo abbandonato e quando  parla della musica è come di un morto di cui non si può ancora nemmeno fare il nome.
    Io che spesso,  pensando a M, sento che il  suo non riuscire ad essere folle completamente né artista completamente (ovviamente uso queste espressioni in senso lato e figurato) va ad incistare, rendendolo irrisolvibile, un tessuto fantasmatico il cui ordito non riesco però nemmeno ad intravedere.
    M. che non tollera che io parli e conduce per la prima mezz'ora una specie di autoanalisi che distrugge però nel giro di pochi secondi cancellando quanto ha detto con un “Non significa niente. Non ci faccia caso. Sono Confuso”.
    M. che quando io parlo, (io stessa avverto, nel farlo, un sentimento di confusione e di incertezza) mi risponde spesso così: ”Adesso vorrei morderla”.
M. che in preda all'angoscia pensa ai farmaci e dice: ”Li prendevo e mi sentivo morto. Sto sui carboni ardenti adesso. Ci sto. Non riusciranno più a tirarmi via di qui”

    Lo sfregio del  testo, le cancellature e il clima di crudeltà spesso aleggiante nel corso delle sedute, questi e tutti gli  altri  frammenti emersi fin qui diventavano indizi e  andavano a comporre quell'ordito che, prima del sogno di M, non riuscivo nemmeno ad intravedere.
    Forse Green collocherebbe  il dolore di M. all'interno di un contesto di  psicosi bianca, figura che egli usa per indicare quelle forme di sofferenza in bilico tra un delirio che non si dà e una creatività altrettanto impossibile.  Quello che c'è dietro questa sofferenza, dice, Green, è una madre morta.
     Io, per M, direi invece  un femminile inutilizzabile,     un corpo semiotico attaccato dall'interno tanto da non potere godere del suo ritmo se non attraverso un'appropriazione subito ricusata il cui esito é lo sfregio del testo, le sue cancellature.
La nostra seduta, quella di cui sto raccontando, intanto scorre. Nel silenzio penso di nuovo alla morte di Sardanapalo, al corpo maschile disteso sul grande letto a cui Delacroix ha impresso tratti morbidi e femminili.  Il corpo di Schreber, incinto di Dio, si sovrappone  alla voluttuosa forma del quadro, ed è come se M, con il suo sogno, sognando se stesso avesse sognato, condensandolo in questa scena di parto, un anno di lavoro analitico, dal quale emerge una scena primaria in cui egli ha preso, negandolo, il posto della madre.
    
Dice Bion in Cogitation:
Il sogno è un evento emotivo di cui solitamente possiamo soltanto sentire un resoconto o avere un ricordo, anche se, come vedremo, che cosa significhi pensare o dire che ci ricordiamo di un sogno è una faccenda che solleva molti dubbi.  Vorrei ora estendere il termine sogno in maniera da comprendervi anche una serie di eventi che a me sembrano meritare la descrizione di `sogni'.
Uno dei punti che vorrei discutere è in rapporto al fatto che gli eventi effettivi della seduta, per come appaiono all'analista, vengono sognati dal paziente, ma non nel senso che egli pensi che gli eventi da lui osservati sono gli stessi di quelli osservati dall'analista (salvo il fatto che il paziente li crede parte di un sogno e l'analista li crede parte della realtà) ma nel senso che gli stessi eventi che vengono percepiti dall'analista, vengono percepiti dal paziente e sottoposti al processo di venire sognati da quest'ultimo. Cioé a questi eventi viene fatto qualcosa mentalmente e ciò che viene fatto loro è venire sognati. (p. 59)
    
    Alla luce di questi pensieri di Bion sulla seduta analitica è possibile  riconoscere che il suo hic et nunc si pone come quello spazio in cui la coppia analizzante incontra  l'esperienza unheimeliche di eventi che si trasformano da effettivi in significativi. Questa trasformazione dall'effettivo in significativo, che irrompe nella seduta come un terzo, un estraneo o, per dirla con Green, come terzeità, non sarebbe possibile senza il confronto con lo spaesamento originario che comporta  l'essere hic et nunc con l'Altro.
    Sento che di tutto ciò non posso parlare con il mio paziente: non ora, almeno, in cui è il processo analitico come tale che sta parlando.
    Lui ha sognato: questo sogno sta tra lui e me e qualche cosa é passato dall'irrapresentabile al rappresentabile. Forse c'é qualche cancellatura in meno nel testo segreto di M.
Per il momento, questo deve bastarci.


    La picosi: una forma particolare di "creatività"?

Il testo sfregiato del mio paziente é stato l'elemento che, insieme al suo sogno, mi ha risospinto verso il mondo si Schreber. E sempre lui,  il testo del mio paziente, mi ha suggerito  i pensieri che seguono.
    In tedesco il cognome Schreber e il sostantivo Schreiber, ha fatto notare Mannoni, sono quasi identici. Singolare coincidenza per uno che, come Schreber, affidò alla scrittura la possibilità della sua sopravvivenza nel mondo civile e ne fece, sorta di Santa Teresa d'Avila della paranoia, il luogo di ritrascrizione della sua copula con Dio.
        Nel 1893, a cinquantuno anni, Daniel Paul Schreber, presidente della corte d'appello di Dresda, entrava nella clinica psichiatrica di Lipsia, diretta da P. E. Flechsig. Ne usciva dopo nove anni.
    Causa scatenante della crisi che rese necessario il ricovero fu, come Schreber stesso sottolinea nelle sue Memorie, la seguente fantasia:
Una volta, mentre ero a letto, di mattina (non so più se addormentato o mezzo sveglio), ebbi una sensazione che mi fece un effetto assai singolare quando ci ripensai dopo, in completo stato di veglia. Era la rappresentazione che dovesse essere davvero bello essere una donna e soggiacere alla copula..
    Intorno a questa fantasia si articola tutta la costruzione delle Memorie. Lette alla luce della distinzione che dobbiamo a Irigaray tra rappresentazione inconscia del femminile come corpo- natura originale, pieno e non castrato e rappresentazione inconscia del maschile, luogo dove il desiderio si tramuta in legge, ordinandosi alla coppia simbolica divieto-castrazione, le Memorie si pongono come un tentativo di riparazione dei vuoti aperti nella storia soggettiva di S. Si tratta, nel discorso psicotico che è quello delle Memorie, di un'aderenza tutta particolare' al semiotico. Dobbiamo a Kristeva la formulazione della nozione di semiotico per quello che riguarda il linguaggio: luogo presimbolico originario, luogo presintattico dove dominano l'intonazione e il ritmo, prima iscrizione di un corpo-testo originario - il materno - senza il quale il simbolico sarebbe una forma vuota. La scrittura di Schreber, costruita secondo le leggi della Nervensprache, permette di operare, come mostra Mannoni nel suo studio specifico su questa scrittura, una sintesi tra due ordini, quello femminile semiotico e quello maschile simbolico, ponendosi come corpo - testo da una parte e legge di questo corpo dall'altra. Il risultato è un discorso comprensibile.  Ma, come ancora mostra Mannoni, il lavoro della psicosi si limita a dire il desiderio di essere una donna, si limita a mostrare  l'angoscia di castrazione, e pur rientrando nell'ordine del comprensibile e del rappresentabile, non organizza quel salto vertiginoso che, nell'opera d'arte svela, pur partendo dalle stesse radici fantasmatiche ma con una diversa aderenza al semiotico, il nuovo e l'inaudito con cui essa spiazza entrambi e ne evita la sovradeterminazione
    Uno studio psicoanalitico ancora attualissimo,  Il  taglio femminile, considera la gravidanza fantasticata di Schreber come il punto di travaso dell'un sesso nell'altro, luogo dell'anamorfosi per eccellenza della differenza sessuale, potente antidoto contro la legge del padre e la castrazione che essa comporta.
    E' per sfuggire alla legge del padre, e dunque alla castrazione, che Schreber prende a prestito un corpo di donna.  Con un corpo di donna - anche immaginario - infatti, egli sembra intuire che si è soggetti alla legge del padre quel tanto che basta per “farsi fare un figlio”.
    (Ed è curioso rilevare come la scrittura psicoanalitica stessa spesso si muova intorno alle figure del parto e della gravidanza con le stesse cadenze del discorso psicotico: basti pensare a Ferenczi, secondo cui la tensione accumulata nell'organo genitale maschile determina la propulsione del glande e in qualche modo “lo partorisce”.)
    Il rapporto tra la creatività,  il delirio e quella figura del narcisismo - lo stadio dello specchio - che vede il soggetto costituirsi e fondarsi esclusivamente grazie alla sua alienante identificazione con l'altro è stato segnalato dalla psicoanalisi incessantemente.  A partire da Freud, che ne fa il tema centrale del suo studio su Leonardo, arrivando a Laplanche e al suo studio su Hölderlin, il femminile - nella sua doppia accezione di originario-corpo materno - rappresenta quel magnete costante che attrae a sé il lavoro del discorso psicotico, come quello artistico e lo fonda. Ma se questa è la traccia che entrambi i discorsi seguono per costruirsi che cos'è che, di fatto, li differenzia? Il lavoro dell'arte e il suo discorso si fanno riconoscere per un tratto distintivo preciso: essi costruiscono un mondo abitabile non per uno solo di noi, ma per tutti. L'artista trova sempre un modo (lo stile?) di dipendere dalla alienante identificazione con l'Altro e contemporaneamente, in un sol colpo, liberarsene.
    A proposito della monumentale opera di Schreber, invece, notevole non foss'altro in quanto testo comprensibile a dispetto del delirio e in quanto testo “costellato di verità” che illuminano sulla struttura del delirio stesso, occorre dire che la specificità del suo assetto creativo non è estetica e non è scientifica, o per lo meno è insufficiente per attingere a uno statuto di legalità estetica o scientifica,e tuttavia non si può non parlare di una qualche forma di creatività che lo rende comprensibile ma non condividibile.
    Possiamo rintracciarne lo statuto in una sorta di “coerenza” (Lacan) che organizza il discorso della picosi, ed è dovuta a quel lavoro con il quale il paranoico “ricostruisce un mondo” (Freud) abitabile, un mondo però, come mostra  Chasseguet Smirgel nel suo bel lavoro su Strindberg, ricostruito con un materiale del tutto particolare che consiste nel mettere in evidenza ciò che i nevrotici tengono celato come segreto. Giova a questo punto  mettere in gioco anche la trasposizione concettuale del termine unheimliche data da Schelling e riportata da Freud: Unheimliche è per Schelling tutto ciò che doveva rimanere nascosto e invece è affiorato.
    Vedremo allora affiorare nella costruzione psicotica questa semicreatività con cui il mondo ritorna vivibile, un padre caricaturale, incestuoso che rende gravidi i suoi figli, o se vogliamo, un assetto simbolico dove il suo nome manca. Potranno i farmaci reintrodurre questo significante assente?  Nei testi di Artaud, di Céline, di Beckett affiora uno smarrimento che non possiamo non cogliere come epocale: lo stesso che  io colgo nel discorso del mio  paziente. I primi sono riusciti a rappresentarlo. Il mio paziente lo patisce semplicemente e se io liquidassi il suo smarrimento imbavagliandolo con un farmaco pacificatore gli avrei tolto la possibilità di far parlare, almeno nella stanza d'analisi, quel delirio che, in definitiva, è stato la salvezza di Schreber.
    Scrive Foucault :
Una cosa sopravviverà ai progressi della scienza che cancellano la follia : il rapporto dell'uomo con i suoi fantasmi. Il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte.



    Le tecniche riproduttive: un passaggio all'atto?


    M, il mio paziente, che oggi ha cinquant'anni, non può generare. Dice di non provare dolore per la sua sterilità. “ Un figlio mio - mi disse una volta - farebbe la fine del figlio della moglie di Gogol”.    
    Non si riferiva, appresi in seguito, a niente che riguardasse Gogol e la sua biografia, ma a un racconto fatastico di Landolfi intitolato appunto La moglie di Gogol.
    Questa moglie - racconta Landolfi - “non era una donna, né un essere umano purchessia, neppure un  essere comunque  vivente, animale o pianta: essa era semplicemente un fantoccio....si presentava come un comune fantoccio di spessa gomma, nudo in qualsiasi stagione e di color carnicino o, secondo usa chiamarlo, color pelle...conviene dire subito che era altresì mutevole nei suoi attributi, senza però giungere, come é ovvio, a mutare addirittura di sesso... La ragione di questi mutamenti stava nient'altro che nella volontà di Nikolaj Vasilevic il quale la gonfiava più o meno, le cambiava capelli ed altri velli, la ungeva con i suoi unguenti in varie maniere, di modo da ottenere press'a poco il tipo di donna che gli si confaceva in quel giorno o in quel momento”.

    Il nome della moglie di Gogol è Caracas. Il racconto si conclude con un raccapricciante duplice 'assassinio'. Gogol gonfia il corpo della moglie fino a farlo esplodere in mille frammenti. Il figlio di Caracas ”non un bambino in carne ed ossa...alcunché come una pupattola, un bamberlottolo di gomma...” viene gettato nel fuoco del camino e bruciato.
    La figura di Caracas ritorna nelle associazioni di M insieme ad oscure allusioni alla inseminazione artificiale che la sua compagna, più giovane di lui di molti anni, vorrebbe imporgli, dando luogo a scenari spettrali.
Lo partorirei io  - dice M a proposito di un ipotetico figlio  - ma sarebbe il figlio di Caracas”.
    Questo figlio inconcepibile nascerebbe comunque, come il figlio di Caracas, da un corpo di donna finto (il corpo allucinato di M) e la sua nascita coinciderebbe con il momento del prelievo del seme.  
     C'è una consonanza, non si può non coglierla tra lo scenario  in cui si articola la fantasia di gravidanza di M e la figura di Schreber, il suo delirio e tutto quello che ne ho detto fin qui ma, rispetto a quella di Schreber, nella fantasia di M c'è un resto su cui vorrei brevemente soffermarmi e che riguarda il suo e il mio tempo storico.
    Il nostro tempo è stato da più parti definito come quello del trionfo della tecnica e se per un analista la fantasia di gravidanza maschile non è nuova, quello che è nuovo e si pone  insieme come resto è il suo tradursi, con le tecniche di riproduzione, in un passaggio all'atto.
    Nelle Memorie il femminile emerge come altra scena in senso stretto, versante da cui Schreber è costretto a confrontarsi con un Edipo rovesciato: questo testo ci mostra come sia la cattura  del soggetto in un meccanismo di forclusione a organizzare il delirio. Qualcosa è rifiutato, non può essere riconosciuto dal soggetto, ma “ciò che è forcluso nel simbolico ritorna nel reale”, secondo  la ormai celebre formula.
    Con il corpo-cosa dell'ingegneria genetica manipolato secondo i dettati del desiderio inconscio non ci sono più parole, (forse siamo al di là della forclusione?) ci sono cose e azioni che celebrando la scissione tra erotismo e concepimento danno luogo a quelli che Bion definirebbe oggetti bizzarri, o in altro modo detto, inconcepibili.  
    Dice Heidegger, l'uomo è to deinotaton, ciò che vi è di più inquietante tra tutto l'inquietante e prosegue a proposito della tecnica:

La parola deinon è ambigua, di quella inquietante ambiguità del dire dei greci che pervade le contrastanti contrapposizioni dell'essere. Da un lato il deinon designa il terribile, lo spaventoso nel senso dell'imporsi predominante (überwaltigendes Walten) che provoca ugualmente il timor panico, la vera angoscia, così come il timore discreto, meditato, raccolto (...) ma per altro verso deinon significa il violento, nel senso di colui che esercita la violenza, che non solo ne dispone, ma che è violento, inquantoché l'uso della violenza è il carattere fondamentale non solo del suo agire, ma del suo essere (...)  La violenza, il violento, nel quale si muove l'agire del violentante, costituisce l'intero campo della macchinazione (to makanoen) affidatagli. Non intendiamo assumere la parola macchinazione in senso peggiorativo. Intendiamo invece riferirci a qualche cosa di essenziale che ci si palesa nella parola techne greca.
    
    Questo essenziale a cui Heidegger si riferisce è, per l'appunto, il carattere necessariamente violentante del fare umano. L'uomo, questo incidente dell'essere, tra l'inquietante è il più inquietante (to deinotaton) perché segnato dalla contrapposizione interna tra una techne, un porre in opera, il suo essere presente come storia e una dike, che rimanda al suo essere presente come essere. L'ordine della dike e quello della techne si contrappongono e si scontrano. In ciò consiste la radicale ambiguità del deinon.
    Il concepimento, come indica la parola stessa, è una questione psichica e, insieme alla procreazione, costituisce uno dei grandi enigmi che ci attraversano. L'alleanza tra la tecnica e le leggi del chimismo biologico, “a fin di bene” ignorano o fingono di ignorare le implicazioni simboliche del proprio operato: danno per risolto l'enigma, con esiti spesso allarmanti. L'allarme non è di parte: non è dovuto a un pregiudizio ideologico o antiscientifico, ma alla constatazione che l'enfatizzazione dell'elemento biologico rispetto ai legami simbolici va a colpire la sessualità umana in quanto tale, come elemento significativo: la riproduzione diventa un fatto, separato dal desiderio e dal godimento. Un fatto del corpo-cosa.
    Non é facile parlare con M della sterilità, avvicinarla con lui nel suo valore di sintomo che si esprime forse da ultimo sul corpo, ma si dice innanzitutto nella sua scrittura cancellata.     La distanza in cui M. mi tiene è direttamente proporzionale alla terra desolata dove la sua mente si aggira, assediata dal terrore di un contatto che potrebbe scardinarne l'illusione di autosufficienza.
    A differenza di Schreber M. non è incinto di Dio e nessuna metafora solare potrebbe comparire, nessuna lingua fondamentale potrebbe articolarsi in una sofferenza che si muove nel mondo senza colore della psicosi bianca dove, potremmo dire con Nietzsche, Dio è morto e la fantasia di gravidanza, che pure la sottende, rimanda a un Altro che è una bambola muta. Ci muoviamo  a ridosso di un fantôme più che di un fantasma, in stretto contatto con una violenza simile a quella che pervade certi aspetti della tecnica, là dove i corpi costruiti come macchine rimandano a un lutto impossibile da elaborare, a una cancellazione dell'elemento della mancanza che impedisce l'articolazione della differenza, forclude zone vaste del simbolico, impedendo l'accesso alla finitezza e al tempo.
    Una volta, forzando il muro di cinta  del sistema di pensiero del mio paziente che non sopporta interventi analogici, ho fatto notare che, nel racconto fantastico di Landolfi, Gogol uccide Caracas quando questa, in contraddizione con la sua natura di bambola meccanica, parla. Un'unica volta. Ma parla.
    ”Che altro poteva fare se non ucciderla”?
     Questa la sua risposta.

    Il tempo storico di Schreber non è il tempo storico di M. anche se la fantasia di gravidanza è la stessa, la stessa che, del resto, incontriamo nei miti di autofecondazione e partenogenesi dei greci, nello scenario di molti riti e religioni tribali, nella ricerca di Lévi-Srauss che, in L'homme nu, mostra come in aree vastissime dell'America, l'uomo, quasi sempre uno stregone che non ha moglie, ”nasconde” il figlio nel proprio ginocchio o nel gomito sotto forme svariate, di cui la più comune è l'ascesso, oppure si autofeconda, si “fa” un figlio conficcandosi il pene nel gomito. Questo identico, per così dire strutturale, della fantasia di gravidanza maschile si incontra però con un mondo, direbbe Rilke, che lo flette e lo incurva costringendolo a significare. Così accade che esso assuma un diverso valore semantico a seconda del desiderio che emerge in una particolare temperie storica.
    Il nostro tempo non è solo quello del trionfo della tecnica. E' anche quello del teatro di Beckett. Forse è possibile rintracciare, tra questi due aspetti del nostro tempo, un nesso.
    Spesso il lavoro analitico con M  mi ha fatto pensare allo scenario di Aspettando Godot: ma per un momento, con l'evento sorprendente e spiazzante del suo coincidere con me e io con lui, nel modo singolare che ho cercato di mostrare, le quinte di questo scenario si sono squarciate lasciando intravedere una coppia al lavoro all'interno di una relazione analitica che coinvolge entrambi in una qualità di sofferenza che potremmo definire con, Jean-Luc Nancy, il tremore dell'anima.
    E qui, in questo tremore, una volta di più la psicoanalisi, e la sua genealogia, mi si è offerta in tutto il suo valore di esperienza exsistenzträgend: un sapere, come suggerisce con questo neologismo Wolfgang Loch, in grado di `portare' (tragen) l'esistenza.

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