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L'abito sessuato
di Mariapia Bobbioni


La storia della donna assume una forza speciale quando la si osserva attraverso lo sguardo sul corpo nudo e vestito. La trasformazione, significante forte per la figura femminile, s'inscrive in mutazioni stilistiche che parlano di un cambiamento in ambito sociale e culturale. Quando ai primi del Novecento rinunciò al mitico busto, - grazie all'ideazione del grande sarto Poiret del semplice “tubino”, - la donna aprì una nuova epoca di pensiero sul mondo e su se stessa. Aveva dato ragione alle lotte dei grandi illuministi Diderot e D'Alembert che ritenevano il busto una crudeltà inutile poiché imponeva al corpo posizioni errate causando molteplici malattie e perché allontanava ogni idea di flessuosità che si è poi ritrovata nelle donne di Ertè e in tutta la cultura delle Avanguardie Storiche.
La moda è dunque uno spazio innanzitutto mentale e ne dice di una forte componente etica dell'estetica. Ne dice anche di ciò che il soggetto non sa, del proprio desiderio così difficile da definirsi. L'abito parla dell'inconscio del soggetto, delle sue rappresentazioni immaginarie, del suo bisogno di posizionarsi simbolicamente.
Un luogo prezioso per curiosare sull'argomento è ancora il bel testo della Lemoine Luccioni “La Robe” (1) in cui si tratta di psicanalisi dell'abito. Addentrandosi in questo argomento e ascoltando parecchie donne nel loro racconto d'analisi, ecco che appare vistoso nelle relazioni madre-figlia, sullo sfondo degli scenari preedipico e edipico, l'elemento abito come oggetto capace di determinare un segno non indifferente nella formazione della struttura soggettiva e dunque della propria sessualità.
E' utile ripensare allo studio che Barthes (2) affronta rileggendo De Saussure per cui alla distinzione tra langue e parole viene corrisposto costume e abbigliamento.
La langue è una istituzione indipendente dall'individuo, è una riserva normativa all'interno della quale l'individuo pone la propria parole, che è atto individuale. Barthes fa corrispondere alla prima il fenomeno di costume che è l'oggetto proprio della ricerca sociologica e storica, realtà istituzionale, indipendente dall'individuo, nella quale il singolo organizza la propria tenuta; e riferisce alla seconda, cioè alla parole il fenomeno di abbigliamento che riguarda una realtà individuale, vero e proprio atto di vestirsi.
Si potrebbe aggiungere a langue e a costume, madre e a parole e abbigliamento, bambina: appoggiandosi anche a quella bella immagine che propone Winnicott quando dice che la madre per il bambino è la finestra sul mondo, la figura materna con la sua voce con il profumo della pelle, con la morbidezza dei tessuti di cui si avvolge, è portatrice di sé ma anche di mondo, di epoca, di storia, di cultura. Consente al piccolo di definirsi proprio perché c'è il suo sguardo; il volto della madre consentirà al bambino nel tempo di ricercarlo tra altri sconosciuti e solo così di scoprirne dei nuovi come osserva Lavinas (3). La madre con la langue, con l'apertura al mondo, al costume e allo stile ritrovabile all'esterno, consente al bambino la parole, l'atto soggettivo di autorizzarsi a una parola, a un abito proprio. Con la fase dello specchio, come ne parla Lacan (4), il bambino inizia a riconoscersi, definirsi, a comprendere qualcosa del proprio corpo e quindi anche dell'abito. Già all'età di quattro anni discute sull'accoppiamento dei colori degli indumenti; compie un atto di parola che diviene segno sul suo corpo che gli rimanda in parte una soddisfazione rispetto a un ideale di sé e gli offre una posizione simbolica.
Nella relazione madre-figlia, in cui una specie di “rapimento “, per dirla con Lacan insiste, l'oggetto-abito diviene un tramite di grande intensità, a volte di sopravvivenza. Francoise Dolto (5) racconta la storia di una madre finita in ospedale quando la bambina aveva appena cinque giorni di vita: la piccola, rimasta con il padre che l'accudiva amorevolmente, rifiutava biberon, qualunque elemento vitale. Il pediatra suggerì al padre, fortemente preoccupato, di rivolgersi alla Dolto la quale gli dette questa preziosa indicazione che salvò la piccola: “Vada all'ospedale prenda la camicia che ha indosso sua moglie in modo che raccolga tutto l'odore della pelle, la metta intorno al biberon e lo offra così alla piccola”. Naturalmente la bimba non esitò neppure un attimo a nutrirsi. “E' evidente che il narcisismo primario del soggetto che permette al corpo di vivere, osserva la Dolto, è radicato nelle prime relazioni ripetitive che accompagnano alla volta della respirazione, dei bisogni nutritivi e la soddisfazione del desiderio dell'olfatto, tattile, uditivo che illustrano la comunicazione della dimensione psichica della madre”. L'immagine del corpo è elaborata come una rete di fasciatura di sicurezza con la madre. Nello stadio dello specchio, dai sei ai diciotto mesi, avviene un processo di identificazione intesa come una trasformazione prodotta nel soggetto quando osserva un immagine, perché inizialmente si tratta di un soggetto non conosciuto in cui può perdere senso l'immagine scopica se non sono vicine la madre o una persona conosciuta, le sole che possono riconnettere la sua immagine del corpo e dello schema corporeo; è solo in relazione all'altro che può riconoscere e ridefinire la propria immagine.
Il bambino può sapere di sé grazie all'altro. In questa articolazione soggettiva è forte la carica sessuale di cui è investito il bambino o la bambina da parte della madre per cui, come nota Freud, “La madre riserva al bambino sentimenti che derivano dalla vita sessuale di lei, lo accarezza, lo bacia, lo culla: lo prende con evidente chiarezza come sostituto di un oggetto sessuale in piena regola” (6). Secondo il vissuto preedipico e poi edipico che la madre a suo tempo ha incontrato, ne deriverà il passaggio di questa dimensione sessuale, dunque inconsciamente in che posto la “metterà la sua bambina? In quale immagine corporea, estetica la “ridisegna”? Quali abiti ne diranno di un fantasma omosessuale o di un eccesso di castrazione o di imposizione fallica? L'abito è prolungato nel corpo, lo continua, quindi parla di un corpo anoressico o bulimico.
L'ascolto analitico consente al paziente di giungere al punto in cui gli si rivela, come dice Lacan, “La cifra del suo destino mortale” nel “Tu sei questo”, “ ma sta al solo nostro potere di esperti in quest'arte di tradurlo nel momento in cui comincia il vero viaggio”(7). Si tratta del ricordare, del riraccontare la propria storia per cui, in questo dirsi, il soggetto si sposta altrove nella consapevolezza del proprio fantasma e nella liberazione spesso di una parola che, se prima ingessata, si rinnova in una lingua fluida, quella del desiderio del soggetto.
Ecco tre oggetto vestimentari, elementi protagonisti del racconto di tre giovani donne, tracce per procedere in uno studio futuro e più approfondito sulla formazione soggettiva femminile attraverso il desiderio e la soddisfazione.
I capelli di stoppa, maschera di sé: una madre non poteva fare a meno di tingere i capelli di biondo stoppa della bambina di nove anni e di prolungare tale modificazione fino all'adolescenza, quando la ragazzina con disperazione si oppose. Nel racconto della vicenda il significante che si inscrive è la bambola, capelli di stoppa come quelli di qualcuno che viene manipolato, la bambola, appunto, priva di voce e di parola, incapace di dire, di imporsi, di opporsi, costretta a una maschera, una specie di “parade” del fantasma materno che la voleva bella, bionda, perfetta, la prima della classe, l'intoccabile, da tenere in una preziosa vetrinetta. Così in questa logica sacrificale, la fanciulla si organizzò nella costituzione di una specie di maschera per non vedere il mondo e per non essere vista, senza speciali emozioni. Con il solo obiettivo di “essere il desiderio della madre”: Dove poteva mai essere il suo? Questo apparire diventò per parecchio tempo l'unico modo per relazionarsi agli altri, fece un po' come la protagonista di un romanzo della Marie Hermanson, “La spiaggia”, in cui il soggetto si sente protetto andando in giro con le sue maschere di animale: visitando un negozietto scopre che “Su una parte erano appese delle maschere in fila. Tutte rappresentavano delle teste di animali. Ne staccò una dal muro e se la provò davanti allo specchio. Era un muso di volpe. Quando incontrò il proprio sguardo dietro ai fori obliqui della maschera, avvertì una sensazione di felicità così intensa che quasi le mancò il respiro. Si voltò e si guardò intorno nel locale, osservando le persone presenti e il giovane commesso. Si sentiva completamente diversa. Non aveva più nessuna paura”. Simili erano le sensazioni provate dalla giovane donna: quell'immagine che la madre le aveva dato, rifiutata poderosamente nell'adolescenza, la fanciulla se l'era bellamente ricostruita da adulta, sentendosi quasi orgogliosa e felice di questo, perché la testa, la capigliatura, rappresentano la regalità per il soggetto, il luogo del pensiero, del sapere in cui l'acconciatura chimerica faceva da padrona sul corpo, quasi deformandolo. Così nel ricordo di quel rituale si sciolse una posizione di vittima carnefice nei confronti del mondo in cui poco si poteva lasciare spazio a un femminile che andasse oltre la logica di una meccanicità del progetto, cioè della realizzazione del lavoro “perfetta” della pianificazione di una vita affettiva in cui a turno si stava o sotto o sopra come per mano di un burattinaio in una specie di estatica modalità, stile curioso definito come fredda e indifferente “felicità”.
Il cappello con la coda: perché mai una madre taglia la coda a un magnifico cappello di marmotta, tanto amato dalla bambina proprio perché aveva la coda? Nell'antica Cina la treccia era appannaggio fallico dei padroni e invasori Manciù. La treccia si sostituisce al pene mancante, così la coda del magnifico cappello. Di che cosa era invidiosa la madre? Cosa non tollerabile per lei? La sua castrazione non elaborata ha giocato da raddoppio alla piccola che già tentava di compensare nello scegliersi quel copricapo così consolatorio. Così la castrazione della castrazione, madre che non accetta la propria e che invece inveisce sulla figlia. Prima del racconto il tutto era vissuto in una forte intolleranza e a ogni rapporto con la figura maschile pagando con lacrime amare, incontri reputati sempre non adatti a lei con uomini non capaci, da svilire, perché lei stessa si sentiva troppo poco apprezzata, non stimata. Naturalmente non è il taglio della coda che crea uno scenario devastante per la bambina, è come sempre un gesto che slitta su un terreno il cui immaginario offre la fatica di identificazioni così complesse . Una madre strutturalmente castrante, perchè non ha elaborato la propria costrizione, perché non consente che passi, che si trasmetta il discorso del padre alla figlia, rischierà di indebolire l'equilibrio affettivo della bambina in un legame morboso di odio amore a lei, in cui la figura maschile è senza “corpo”.
Il farfallino oggetto imposto: e la bambina tirava su e giù l'elastichino, se lo voleva togliere, era insopportabile. Così raccontò portando un giorno anche una foto: bellina, con pantaloncini, camicetta, golfino con uno stemma e l'immancabile farfallino. Quella bambina non sopportava la costrizione, i capelli corti, “quell'aggeggino” che si poteva solo masturbare e niente più; “Ma chi voleva fare il maschio?” Disse un giorno. Su quella frase presero senso diverse altre sue modalità, fonte di blocchi sessuali, di disagi nel vagare nel mondo con un corpo e un abito. Quella madre non aveva mai avuto un rapporto d'amore con il proprio marito, padre della piccola; negli anni, in età matura della paziente, la madre le chiedeva costantemente favori e attenzioni come se fosse una vedova, come se l'unico marito possibile, uomo di valore, fosse la figlia, quella bambina alla quale era stato disegnato un corpo “vuoto”, su un corpo pieno secondo il desiderio della madre. Si trattava di un “corpo” che la bambina non aveva mai colto come proprio, nell'inquietudine di quando un soggetto non è nella sua pelle. Fu proprio l'inquietudine ad aprirla a un lavoro estremamente prezioso per ritrovare “l'abito perduto” quello che aveva in mente quando diceva no all'insopportabile farfallino.



Note:
Lemoine Luccioni E., La robe. Essai psycanalitique sur le vetement, Paris 1983.
Barthes R., Scritti, Torino 1998, p.66.
Lavinas E., Totalità e infinito, Milano 1990.
Lacan J., Scritti, Vol. I, Torino 1974.
Dolto F., L'immage inconsciente du corps, Paris 1994, p.67.
Freud S., Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905, p.528.
LacanJ., Op. cit., p.94.

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