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Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 241-313
(numero speciale del ventesimo anno)

LO STATO DELL'ARTE DELLA TECNICA PSICOANALITICA

a cura di Marianna Bolko e Alberto Merini

Contributi di:
Marianna Bolko & Alberto Merini (Introduzione)
John Bowlby, Donald Meltzer (Inghilterra)
 

Contributi inglesi: J. Bowlby, D. Meltzer


Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 253-260

La terapia psicoanalitica alla luce della teoria dell'attaccamento

John Bowlby (The Tavistock Clinic, Department for Children and Parents, 120 Belsize, London NW3 5BA, UK)

Storicamente la teoria dell'attaccamento si è sviluppata a partire dalla teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali, ed ha molto in comune specialmente con le idee di Winnicott, Fairbairn e Guntrip. Essa porta avanti queste idee in due aree principali:
a) il ruolo privilegiato attribuito ai legami emotivi significativi tra gli individui;
b) l'influenza di differenti modalità di interazione familiare nel determinare lo sviluppo del bambino.

Principi di psicopatologia e di sviluppo della personalità

La teoria dell'attaccamento considera la capacità di instaurare forti legami emotivi con particolari individui come una componente di base della natura umana, già presente in nuce nel neonato e che continua attraverso la vita adulta fino alla vecchiaia. Durante l'infanzia e la fanciullezza i legami sono verso i genitori (o con sostituti genitoriali), ai quali il bambino si rivolge per cercare protezione, aiuto e assistenza. Durante lo sviluppo normale dell'adolescenza e della vita adulta questi legami permangono, ma hanno come complemento nuovi legami, comunemente di natura eterosessuale. Sebbene lo stimolo della fame e quello sessuale a volte giochino un ruolo importante in tali relazioni, il legame esiste di per se stesso ed ha una sua propria funzione di sopravvivenza, e precisamente di tipo protettivo. Così secondo la teoria dell'attaccamento, i legami sono considerati non subordinati né derivanti dallo stimolo della fame e da quello sessuale. Ugualmente, il pressante desiderio di assistenza e di sicurezza in situazioni di avversità non viene visto come infantile, come implica invece la teoria della dipendenza. Invece, la capacità di instaurare legami con altri, a volte nel ruolo di colui che cerca assistenza, e a volte nel ruolo di chi la offre, viene considerata una importante caratteristica della salute mentale e di un efficiente funzionamento della personalità.

Di regola, il comportamento caratterizzato dalla ricerca di assistenza viene mostrato da un individuo più debole e meno esperto nei confronti di un altro considerato più forte e/o più saggio. Un bambino, o un adulto nel ruolo di colui che cerca assistenza, si mantiene nel raggio di azione di colui che offre assistenza, e il grado di vicinanza dipende dalle circostanze: onde il concetto di comportamento di attaccamento. L'offrire assistenza, che è il principale ruolo dei genitori e che è complementare al comportamento di attaccamento, viene considerato alla stessa stregua del cercare assistenza come una componente di base della natura umana (Bowlby, 1984).
L'esplorazione dell'ambiente, incluso il gioco, viene vista come una terza componente di base della natura umana, e precisamente come una componente opposta a quella del comportamento di attaccamento. Quando un individuo (di qualunque età) si sente sicuro, è probabile che egli esplori l'ambiente circostante e si allontani dalla sua figura di attaccamento. Quando invece egli è allarmato, ansioso, stanco o a disagio, egli sente un forte bisogno di avvicinarsi alla sua figura di attaccamento. Così noi osserviamo la tipica modalità di interazione tra il bambino e il genitore, conosciuta come esplorazione da una base sicura. Posto che egli sappia che il genitore è disponibile e che gli risponderà in caso di bisogno, un bambino normale si sente abbastanza sicuro per esplorare e, mano a mano che cresce, per aumentare la distanza sia nello spazio che nel tempo - da ore, a giorni, a settimane o mesi.

La seconda area alla quale la teoria dell'attaccamento presta particolare attenzione è il ruolo dei genitori nel determinare lo sviluppo del bambino. Esistono oggi sempre maggiori e convincenti prove che la modalità di attaccamento sviluppata da un individuo durante gli anni dello sviluppo - infanzia, fanciullezza e adolescenza - è profondamente influenzata dal modo col quale i suoi genitori (o altre figure genitoriali) lo trattano. Queste prove derivano da un grande numero di studi sistematici, molti dei quali longitudinali: per esempio gli studi sullo sviluppo sociale ed emotivo durante i primi cinque anni di vita, iniziati da Ainsworth (in corso di stampa), e notevolmente ampliati da Main e Sroufe; gli studi sugli effetti del lutto nei bambini, per esempio di Raphael (1983) e di Brown e Harris (1978); gli studi catamnestici sui bambini allevati nelle istituzioni; e così via. Tra le pubblicazioni più recenti vanno ricordate quelle di Bretherton e Waters (in corso di stampa) Emde e Harmon (1984), Stern (1985), Rutter (1981), e Bowlby (1982, 1984, 1985).

Oggi siamo riusciti a identificare in modo attendibile tre principali modalità di attaccamento, e con esse le condizioni delle famiglie che le promuovono. Una prima modalità è la modalità di attaccamento sicuro, nella quale l'individuo è fiducioso che il suo genitore (o figura genitoriale), sarà disponibile, sensibile e di aiuto nel caso egli andasse incontro a situazioni avverse o terrorizzanti. Con questo tipo di rassicurazione, il bambino si sente coraggioso nelle sue esplorazioni del mondo circostante. Questa modalità è promossa da un genitore, nei primi anni in particolare dalla madre, con l'essere prontamente disponibile, sensibile ai segnali del suo bambino e capace di rispondergli amorevolmente quando egli cerca protezione e/o sicurezza.

Una seconda modalità è quella dell'attaccamento ansioso-ambivalente, nella quale l'individuo non è sicuro che il genitore sarà disponibile, o sensibile, o di aiuto in caso di bisogno. A causa di questa insicurezza, egli è soggetto a manifestare angoscia di separazione, tende ad essere sempre avvinghiato alla madre (clinging), ed è ansioso nelle sue esplorazioni del mondo. Questa modalità è causata da un genitore che è disponibile e di aiuto in certe occasioni, ma non in altre, nonché da separazioni e specialmente da minacce di abbandono usate a scopo di controllo.
Una terza modalità è quella dell'attaccamento ansioso-evitante, in cui l'individuo non si aspetta, quando cerca assistenza, di essere aiutato, ma al contrario si aspetta di essere respinto. Tale individuo cerca di vivere la sua vita senza l'amore e il supporto degli altri. Egli cerca di diventare emotivamente autosufficiente, e può essere diagnosticato come «narcisista», o come dotato di un «falso sé». Questa modalità è il risultato di un costante atteggiamento di rifiuto da parte della madre quando egli le si avvicina per ottenere protezione o conforto. I casi più gravi sono il risultato di rifiuti ripetuti, di maltrattamenti o di una prolungata istituzionalizzazione.
Gli studi longitudinali hanno dimostrato che queste modalità di attaccamento, una volta instauratesi, tendono a permanere nel tempo.

Questo è perché il modo con cui un genitore tratta un bambino, nel bene o nel male, tende a continuare immodificato, e anche perché ogni modalità tende a perpetuarsi. Così un bambino sicuro di sé è un bambino più felice e più gratificante quando ci si prende cura di lui, e anche meno esigente di uno ansioso. Un bambino ansioso-ambivalente invece tende ad essere piagnucoloso e appiccicoso; mentre un bambino ansioso-evitante si tiene a distanza e tende a tiranneggiare gli altri bambini. In ciascuno di questi casi il comportamento del bambino ha buone probabilità di stimolare una risposta sfavorevole dal genitore, cosicché si instaurano dei circoli viziosi.
Sebbene per queste ragioni le modalità di attaccamento, una volta formate, tendano a permanere nel tempo, non è necessariamente così in tutti i casi. L'evidenza mostra che durante i primi due o tre anni di vita la modalità di attaccamento è una proprietà della relazione, per esempio quella verso la madre può essere diversa da quella verso il padre, e mostra anche che se il genitore cambia il suo modo di trattare il bambino, cambierà anche, conseguentemente, la modalità di attaccamento.

Più passa il tempo, comunque, più la modalità di attaccamento diventa una caratteristica del bambino stesso, il che significa che questi tenderà ad imporla nelle nuove relazioni, quali quelle con un insegnante o con una madre adottiva.
Durante il corso dello sviluppo noi costruiamo nella nostra mente dei modelli di rappresentazione del nostro ambiente ed anche di noi stessi come figure agenti all'interno di esso. Tra i vari elementi di questo ambiente sia fisico che sociale del bambino, nulla è più importante per lui dei suoi genitori e del modo come essi di solito lo trattano. Il modello mentale che rappresenta la madre e il suo modo di comportarsi verso di lui, e l'analogo modello del padre, vengono costruiti dal bambino durante i primi due anni di vita sulla base delle sue concrete esperienze di vita. Allo stesso modo, egli costruisce un modello di se stesso riguardo sia alle sue capacità fisiche di azione che alle sue capacità sociali di interazione.

Questi modelli poi regolano il modo con cui egli si sente nei confronti dei genitori e di se stesso, con cui egli si aspetta che ciascuno di loro lo tratti, e con cui egli si comporterà verso di loro. L'esperienza mostra che questi modelli dei genitori e di sé nella interazione, una volta costruiti, hanno un'alta probabilità di essere presi per veri, e le modalità di interazione a cui portano diventano abituali e in gran parte inconsce. Essi così tendono a permanere invariati persino quando l'individuo si trova di fronte a circostanze del tutto differenti. Una cosa che influenza fortemente la loro persistenza è il comportamento di un genitore il quale, non avendo fornito per qualunque motivo al figlio una assistenza adeguata e sicura, distorca la realtà affermando che la causa di tutti gli attriti tra lui e il figlio risiede nelle deficienze del figlio stesso, e che i genitori di per se stessi non hanno alcuna colpa. Quando questo messaggio viene dato a un bambino con tutta l'autorità di un genitore e ripetutamente durante gli anni dell'infanzia, inevitabilmente il bambino cresce con una immagine di se stesso falsamente negativa. Portati avanti nella vita adulta, questi falsi modelli possono condurre a interazioni con potenziali amici o amanti, le quali, siccome sono basate su assunzioni inconsce ed errate, con tutta probabilità provocano fraintendimenti, fallimenti e sofferenze.

Principi di psicoterapia

La teoria della psicopatologia e dello sviluppo della personalità appena descritta può essere usata per guidare ciascuna delle tre principali forme di psicoterapia analitica oggi esistenti: la terapia individuale, familiare e di gruppo. In questa sede io parlerò solo della prima.
L'analista che applica la teoria dell'attaccamento vede come suo compito quello di fornire le condizioni in cui il suo paziente possa esplorare i modelli di rappresentazione di se stesso e delle sue figure di attaccamento in modo che possa rivederle alla luce di nuove esperienze e nuove evidenze. Il ruolo dell'analista può essere descritto elencando sinteticamente quattro compiti principali. Il primo è quello di fornire al paziente una base sicura dalla quale egli possa esplorare i vari aspetti infelici o dolorosi, della sua vita, passata e presente, molti dei quali per lui sono difficili persino da pensare senza la presenza di un compagno fidato che gli fornisca supporto ed incoraggiamento.
Il secondo è quello di assistere il paziente nelle sue esplorazioni incoraggiandolo a prendere in considerazione i modi con i quali egli instaura relazioni con le figure significative della sua vita, quali sono le sue aspettative verso i sentimenti e i comportamenti propri e altrui, quali pregiudizi lo possono portare a scegliere una determinata persona con la quale egli spera di instaurare una relazione intima, e a creare situazioni a lui sfavorevoli.
Il terzo compito dell'analista è quello di incoraggiare il paziente ad esaminare una relazione particolare, quella tra loro due, e cioè la relazione di transfert, nella quale quasi certamente il paziente trasferisce tutte quelle percezioni e aspettative derivate dai modelli di rappresentazione dei genitori e di se stesso, ovvero dalle sue precedenti modalità di attaccamento.
Il quarto compito è quello di incoraggiare il paziente a considerare come le sue attuali percezioni ed aspettative possono essere prodotte da situazioni incontrate durante l'infanzia e l'adolescenza, specialmente nel rapporto con i suoi genitori.

Sebbene durante il trattamento vi sia un rapido passaggio tra un compito e l'altro e si facciano collegamenti tra di essi, può essere utile considerarli uno alla volta. Il ruolo dell'analista nel fornire al paziente una base sicura è analogo a quello di una madre che fornisce al suo bambino una base sicura. L'analista cerca di essere attendibile, sensibile e attento e, per quanto gli è possibile, di vedere il mondo attraverso gli occhi del paziente, cioè di essere empatico. Nello stesso tempo egli è consapevole che il paziente, a causa delle sue avverse esperienze passate, può credere che l'analista non sia degno di fiducia, ma invece fraintendere o equivocare quello che l'analista dice o fa. Tra le molte difficoltà che un paziente può avere nel collaborare al trattamento vi è l'aspettativa che l'analista lo respingerà, lo umilierà, lo punirà o lo abbandonerà o che lo sfrutterà.
Non solo, ma se i genitori hanno più volte detto al paziente di non parlare mai con nessuno delle sofferenze vissute all'interno della famiglia, egli avrà molta difficoltà a parlarne con l'analista, o persino a ricordarle. Inoltre, se in passato il paziente si è trovato di fronte a costanti rifiuti da parte di una figura di attaccamento alla quale egli si era rivolto per ottenere aiuto quand'era in difficoltà, egli, consciamente o inconsciamente, anticiperà un rifiuto da parte dell'analista se per caso si dovesse trovare in difficoltà e avere bisogno di aiuto. L'analista, soltanto quando è consapevole della profonda e radicata paura del paziente di essere respinto o umiliato, può capire perché questi inibisce le lacrime e tutte le espressioni di sofferenza quando ricorda gli eventi e le situazioni che gli dovevano aver causato in quel momento il più grande dolore e terrore.

In questa breve esposizione che ho fatto, vari analisti riconosceranno aspetti che sono a loro molto familiari, anche se spesso chiamati con nomi diversi. L'alleanza terapeutica è equivalente a una base sicura, un oggetto interno è un modello rappresentazionale di una figura di attaccamento, la ricostruzione è l'esplorazione dei ricordi del passato, la resistenza (a volte) è la profonda riluttanza a disobbedire ad antiche ingiunzioni a non parlare, provenienti dai genitori. Tra le differenze vi è l'enfasi posta sul ruolo dell'analista come compagno per il proprio paziente nella esplorazione di se stesso e delle sue esperienze, e meno sull'analista che fornisce interpretazioni al paziente. Il paziente viene incoraggiato a vedere che, con aiuto e supporto, può scoprire da solo la vera natura dei modelli che guidano i suoi pensieri, sentimenti e azioni e che, esaminando la natura delle sue esperienze precedenti con i genitori o con i sostituti genitoriali, egli capirà cosa lo ha portato a costruire quei modelli ora attivi all'interno di lui. Un compito ulteriore per il paziente è quello di riconsiderare l'adeguatezza di quei modelli per le situazioni nelle quali al presente si trova e per le esperienze che egli ora può avere, e di modificare i modelli nei modi che egli ritiene ora i più appropriati.

Una parte del lavoro dell'analista è quella di permettere al paziente di avere pensieri che gli erano stati in precedenza proibiti dai suoi genitori, di provare sentimenti in precedenza disprezzati e di considerare la possibilità di compiere azioni in precedenza giudicate imperdonabili. Un'altra parte del lavoro dell'analista è di assistere il suo paziente nel ricordare terrorizzanti o disturbanti eventi dei suoi primi anni di vita, aprendo nuove possibilità alla luce della sua conoscenza dei comportamenti dei genitori che egli ora sa che contribuirono a creare i problemi per i quali soffre. Per essere a conoscenza di tutte quelle nuove informazioni che stanno rendendosi disponibili, grazie a sistematici studi longitudinali. Sfortunatamente, molti analisti oggi non solo ignorano i risultati di queste ricerche, ma non sono neanche a conoscenza della loro esistenza. Inoltre, a causa della lunga tradizione psicoanalitica secondo la quale viene data molta enfasi al ruolo della fantasia, fino alla virtuale esclusione dei fatti reali della vita, molti analisti sono prevenuti dall'accettarli quando ne vengono a conoscenza.
In questa breve esposizione ho messo a fuoco (usando un linguaggio tecnico) i principi che credo dovrebbero guidare un analista e poco ho detto sulle modalità con cui questi principi dovrebbero essere applicati nella pratica (usando il linguaggio della vita di tutti i giorni).
Questa, io credo, è un'arte che ogni analista deve acquisire a modo suo, in parte imparando da chi ha più esperienza, ma imparando ancora di più, forse, dalle esplorazioni che egli intraprende con i suoi pazienti.

Bibliografia

Ainsworth M.D.S. (in corso di stampa), The Salmon Lectures. Bulletin of the New York Academy of Medicine.

Bowlby J. (1969), Attachment and Loss. Vol. 1: Attachment. London: Hogarth Press. 2a ed.: Pelican Books, 1984. (Trad. it. della 1a ed.: Attaccamento e perdita. Vol. 1: L'attaccamento alla madre. Torino: Boringhieri, 1972).

Bowlby J. (1973), Attachment and Loss. Vol. 2: Separation: Anxiety and Anger. London: Hogarth Press. (Trad. it.: Attaccamento e perdita. Vol. 2: La separazione dalla madre. Torino: Boringhieri, 1975).

Bowlby J. (1980), Attachment and Loss. Vol. 3: Loss: Sadness and Depression. London: Hogarth Press. (Trad. it.: Attaccamento e perdita. Vol. 3: La perdita della madre. Torino: Boringhieri, 1983).

Bowlby J. (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi. Milano, Cortina.

Bowlby J. (1984), Carig for the young: influences on development. In: R.S. Cohen, B.J. Cohler, S.H. Weissman (eds.), Parenthood: a psychodynamic perspective. New York: The Guilford Press.

Bowlby J. (1985), The role of Childhood esperience in cognitive disturbance. In: M.J. Mahoney, A. Freeman (eds.), Cognition and psychotherapy New York: Plenum.

Bretherton I., Waters, E., eds. (in corso di stampa), Growing points in attachment theory and research. Monograph of the Society for Research in Child Development.

Brown G.M., Harris, T. (1978), The social origins of depression: a study of psychiatric disorder in women. London: Tavistock Pubblications.

Emde R.N., Harmon, R., eds. (1984), Continuities and discontinuities in development. New York: Plenum Press.
Raphael B. (1983), The anatomy of bereavement. New York: Basic Books.

Rutter M. (1981), Maternal deprivation reassessed. 2nd ed. Harmondsworth, Penguin.

Stern D. (1985). The Interpersonal World of the Infant. New York: Basic Books (trad. it.: Il mondo interpersonale del bambino. Torino: Bollati Boringhieri, 1987).

(Traduzione di Paolo Migone)

Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 260-269

Riflessioni sui mutamenti nel mio metodo psicoanalitico

Donald Meltzer
(Broadlands Road, London N6 4AN, UK)

Potrei forse cercare di delineare in modo più personale quello che io considero l'impatto delle idee di Bion sul mio stile di vita, sulla mia visione del mondo (modello della mente, struttura della storia, evoluzione delle organizzazioni politiche, ruolo dell'artista nella comunità natura della psicoanalisi in quanto oggetto ecc.)
Nei termini del concetto di Bion di «cambiamento catastrofico» e dell'impatto della «nuova idea», non è difficile stabilire che cosa abbia rappresentato questa idea e quale rivoluzione essa abbia provocato nel mio modo di pensare e di lavorare... nonché nel mio comportamento in generale. Questa «nuova idea» era palesemente qualcosa del tipo: «In principio c'era l'oggetto estetico, e l'oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo».
La parola «seno» è qui da me usata naturalmente come termine tecnico, con la sola implicazione della descrizione, piuttosto che il contrario. Da un lato mi stupisce che questa idea non mi abbia raggiunto attraverso Adrian Stokes, il quale l'aveva sempre tenuta presente, dall'altro è difficile dire che dove essa si ritrovi nei lavori di Bion.
Non si trova nella Griglia, è solo accennata in Trasformazioni e ricorre in una posizione secondaria in Attenzione e interpretazione. Solo in Memoria del futuro essa trova uno spazio inequivocabile. Tuttavia essa mi aveva raggiunto attraverso Bion, prima di quella pubblicazione, insinuandosi nei miei pensieri e, di certo, nel mio studio di consultazione. Non solo mi ero reso conto che il metodo psicoanalitico aveva assunto ai miei occhi, una qualità estetica, ma avevo cominciato ad osservare, tramite i sogni, che le cose stavano così anche per alcuni dei miei pazienti.

Riandando al passato, penso che un ruolo importante lo abbia avuto il lavoro sull'autismo, con la sua elaborazione del concetto di dimensionalità; la elevata sensibilità estetica di molti bambini autistici era così evidente che non si poteva fare a meno di chiedersi se la loro carenza evolutiva non fosse fondata su processi diretti a eludere l'impatto con la bellezza del mondo. Lo smantellamento dei sensi e la bidimensionalità sembravano metodi molto delicati per ottenere ciò senza fare violenza all'oggetto, sia esternamente che internamente. Il processo di smantellamento dei sensi era comunque troppo massiccio, troppo simile ad un assassinio dell'anima per far luce sul problema. Ma la bidimensionalità comportava domande affascinanti. In un primo momento sembrava che questo appiattimento del mondo del significato fosse ovvio, come se la riduzione del significato risultasse in un naturale impoverimento degli affetti. Le idee di Bion suggerivano il contrario e cioè che un sistema che limita la intensità degli affetti produce un indebolimento del significato. Se le cose stavano così, allora l'orientamento bidimensionale verso il mondo sarebbe una difesa contro l'impatto con l'oggetto in quanto capace di suscitare emozioni. Ma in che modo avveniva ciò?
L'idea di Melanie Klein era che l'interesse per l'interno del corpo della madre, e pertanto la pulsione epistemofilica in generale, traesse origine dall'intensa emozionalità del rapporto tra madre e bambino.
La bidimensionalità potrebbe allora essere il risultato di una negazione della realtà psichica dell'oggetto, piuttosto che di una regressione a uno stadio precedente dello sviluppo cognitivo?

Allo stesso modo venivano messe in dubbio precedenti affermazioni legate al disegno tracciato da Melanie Klein circa la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva. Esther Bick aveva chiarito i processi identificatori legati alla bidimensionalità (identificazione adesiva) in modo tale che risultava possibile ipotizzare l'esistenza di una organizzazione della mente che precede la posizione schizo-paranoide, il che rafforzerebbe l'assunzione di una sequenza genetica con una forte logica interna, collocando la posizione depressiva a un livello di esperienza più sofisticato. Ma la formulazione kleiniana dei fattori che operano per mettere in moto l'istinto epistemofilico non sembrava del tutto soddisfacente. Il fatto che la Klein non avesse fatto distinzione tra curiosità invadente e sete di conoscenza, quali fattori dell'interesse del bambino piccolo per l'interno del corpo della madre, indeboliva l'edificio concettuale.
Le scoperte fatte con i bambini autistici confermavano che il sadismo e i processi di scissione non avevano un ruolo centrale nella loro malattia, bensì che sadismo e scissione si sviluppavano fortemente durante il processo di guarigione e di avanzamento nello sviluppo.
L'insoddisfazione nei confronti del modello della mente, utilizzato nello studio di consultazione, deve avere gradualmente provocato un allontanamento dal pensare in termini di fasi genetiche, per orientarlo verso una concezione in termini di campo.

La complessità implicita era scoraggiante, ma ogni accoglimento delle idee di Bion sembrava esigerla. Mi sovvenne di Melanie Klein la quale, in un convegno, ad alcuni che avevano criticato le sue argomentazioni, rispose che non era lei a rendere le cose difficili: esse lo erano in se stesse. Naturalmente la psiche umana è la cosa più complessa che ci sia nell'universo. E ci deve essere un limite oltre il quale la madre, studiandosi, non riesce a penetrare i propri misteri. Forse il mistero stesso è un aspetto molto importante della sua essenza.
L'importanza attribuita da Bion alla coscienza, non in quanto sistema, bensì come organo della mente, l'organo della attenzione, si era già chiaramente imposta a seguito delle esperienze con i bambini autistici. In questi bambini la diffusione dell'attenzione con il conseguente smantellamento di ciò che Bion, un po' per scherzo, aveva chiamato «senso comune» (la «consensualità» di Sullivan) sembrava un modo, allo stesso tempo, potente e delicatamente rispettoso per eludere l'impatto con la vita, sia attorno che dentro di sé. L'indicazione terapeutica circa l'importanza di afferrare e trattenere la loro attenzione con un parlare interessante, basato su osservazioni acute aveva dimostrato la sua efficacia, ma anche la sua tendenza a spossare il terapeuta.

L'orientamento in termini di «campo», che accetta livelli molteplici di funzionamento simultaneo e più o meno integrato e che sembra provocare la domanda «come» e non solo «quando», è il livello mentale chiamato a operare per sovrapporsi al livello meramente neurofisiologico. L'approccio di Bion al problema, nel presumere che la prima operazione sarebbe la creazione di pensieri i quali, in seguito, richiedono un apparato per pensarli (manipolarli, usarli) sembra essere il punto cruciale di rottura con l'implicazione tradizionale secondo la quale il pensare è precedente in quanto funzione, e genera pensieri. Ciò gli ha reso possibile la creazione della Griglia e il passaggio all'esame delle Trasformazioni attraverso le quali il pensiero inizia a utilizzare i pensieri. Oltre a questo, gli ha fornito una struttura per considerare i falsi pensieri, le bugie, i fraintendimenti, la non-verità, le concezioni errate, la propaganda, il cinismo. Se a ciò si aggiunge il grande passo di opporre l'emozione alla anti-emozione (positiva e negativa, L, H, K) disponiamo di un nuovo abaco per pensare sul pensare.

La possibilità di considerare quello che è il mentale come «livello» e che esso venga «chiamato in causa» mediante la focalizzazione dell'attenzione sulla emotività stimolata da una esperienza, concede una nuova libertà alle nostre riflessioni sul problema. E non è solo il chiarimento semantico che ravviva l'atmosfera in quanto spazza via la tradizionale preoccupazione primaria per la logica e, quindi, per la matematica e la linguistica come nostra suprema fonte di informazione, dal tempo dei Greci fino al Tractatus. Il concetto «vuoto» di funzione alfa è la nostra chiave nuova. Ma la serratura cui si adatta è anch'essa spostata: questo è il punto cruciale. Siamo stati tratti in inganno dal nostro confondere la creazione di oggetti estetici come opera eccezionale di un genio altamente evoluto con la percezione della bellezza-del-mondo, che Wordsworth affermò essere insita nelle «nuvole di gloria» (Wordsworth W., Ode on Intimations of Immortality) che prende corpo nella mentalità dei bambini e nella loro disponibilità allo «splendore nell'erba» (Wordsworth W., ibidem). Se il poeta avesse inseguito il problema della perdita di codesta sensibilità, anziché accettare la facile spiegazione, di tipo sociologico in sostanza, secondo la quale «prendendo e consumando saccheggiamo le nostre facoltà» (Wordsworth W., Sonetto), sarebbe stato in grado di riconoscere con maggiore chiarezza la natura della sofferenza che questa sensibilità porta come conseguenza.

In modo simile l'attenersi alla formulazione freudiana circa la dualità degli istinti ha indotto Melanie Klein soltanto ad aggirare il problema e giustificare la evidente ambivalenza implicita nell'istinto epistemofilico, basandosi sulla frustrazione. Questo atteggiamento risulta abbastanza sorprendente, se si considera che ella sapeva benissimo che un livello ottimale di dolore psichico (frustrazione, persecuzione, invidia, ecc.) è necessario allo sviluppo, poiché è indotto da un conflitto sopportabile. Ho descritto la prima volta che intravvidi il problema nel saggio La comprensione della bellezza; ma non potei afferrare ciò che mi era balenato davanti agli occhi, come invece ha potuto fare Hannah Segal nel suo famoso saggio sull'estetica. E così riunirono la chiave della funzione alfa e la serratura della bidimensionalità, che trova una metafora adeguata.

L'area problematica che la chiave della formazione simbolica doveva aprire era l'enigma circa l'interno e l'esterno dell'oggetto estetico. Il suo potere di provocare l'emozionalità fu raggiunto solo dalla sua capacità di generare angoscia, dubbio, diffidenza. Mentre le qualità sensuali dell'oggetto estetico potevano essere percepite con un certo grado di sicurezza, le sue qualità interne, essendo infra-sensibili e sovra-sensuali, non davano altrettanta garanzia. Qui era necessario che l'osservazione fosse collegata al pensiero e al giudizio e il giudizio dipendeva fortemente, per la sua fermezza, dall'esperienza. Perché era sicuramente nell'uguaglianza o nella disparità tra questo esterno e interno dell'oggetto che suscita soggezione e meraviglia, che risiedeva la sua utilità per il bene o per il male. Ma l'esperienza che il neonato ha del mondo è pressoché nulla. Come può egli pertanto esercitare tale giudizio? Egli non può: può solo attendere per vedere cosa accadrà in seguito.

Questo sarebbe dunque il contesto nel quale l'assenza dell'oggetto provoca il proprio impatto cruciale, mettendo alla prova la tempra del soggetto. Bion ha definito questo problema dell'oggetto assente come «oggetto assente come persecutore presente», in relazione allo «spazio in cui si trovava l'oggetto», forse anche implicitamente includendovi «gli spiriti delle qualità dipartite» di Berkeley. Questi «tempi che mettono le anime degli uomini alla prova» (Paine T., Common sense) e scoprono il «Il soldato dell'estate» (Paine T., ibidem) nelle profondità, devono essere infinitamente più stressanti per il bambino se ci ricordiamo del loro impatto su Otello e Leonte, e La belle dame sans merci (Keats J., La belle dame sans merci).
La fiducia sarebbe pertanto una qualità composita della mente, come libbre-piedi sono una definizione di lavoro: ore-speranza o minuti o giorni o anni. Nel bambino piccolissimo possono talora sembrare secondi-speranza quando la sua faccia crolla disperatamente appena la madre scompare dietro l'angolo.

Nel definire in tal modo il problema fondamentale delle relazioni estetiche e nell'affermare che la relazione estetica con il mondo è lo stimolo originario a pensare, abbiamo adottato una posizione compatibile con una teoria di campo che è anche intrinsecamente genetica. Ciò consente di rapportarci a valori con un approccio puramente mentale svincolato da speculazioni biologiche, cosa che la differenziazione tra posizione schizoparanoide e depressiva, con il suo fondamento negli istinti di vita e morte, non riesce a fare. Mentre la questione della sofferenza psichica e della sua sopportabilità non perde affatto la sua risonanza clinica come arbitro della forza dell'Io, viene introdotto un nuovo fattore nella dinamicità del conflitto. La fiducia, espressa in unità tempo-speranza, parlando in modo schematico, sembrerebbe avere radici qualitative nella ricchezza dell'esperienza estetica a cui segue la separazione. E questa ricchezza può essere sicuramente rintracciata nell'elemento di reciprocità della comprensione della bellezza. Perché il bambino deve essere tenuto come un oggetto estetico della madre affinché l'esperienza del loro amoreggiamento riecheggi tra loro e aumenti di intensità.

Un siffatto fondamento, che ci consente di concepire il «come» della chiamata in causa della capacità di pensiero simbolico, il prodotto della misteriosa funzione alfa, ci libera più o meno dal doverci preoccupare troppo per il «quando». Che il «quando» avvenga prima o dopo la nascita, esso deve comunque avere luogo. E se questo legame di reciprocità è il suo elemento essenziale, il suo inizio può variare largamente nel tempo. Ma, purtroppo, dobbiamo riconoscere che esso potrebbe non verificarsi affatto, come nei bambini che paiono non raggiungere l'adattamento post-natale o i bambini il cui apparato neurofisiologico non risulti essere sufficientemente complesso da potere raggiungere il livello estetico di risposta. Il bambino autistico e il bambino che non si sviluppa possono percepire ciò e ribellarsi contro il suo ascendente. Per la pratica clinica risulta però più importante il corollario; cioè che le operazioni difensive che la psicoanalisi è particolarmente adatta a seguire possono, nella maggior parte dei casi o, forse, in tutti, essere viste come delle mosse contrastanti l'impatto dell'oggetto estetico.
Non che questo sia evidente nei primi tempi di un'analisi.
Avviene, a mio parere, alle soglie della posizione depressiva, dopo che la situazione confusiva è stata chiarita. In che modo questa concezione differisce nella sostanza dalle formulazioni della Klein e quali sono le precise modificazioni provocate da questa concezione nella sala di consultazione?

Indubbiamente la prima è più importante modificazione consiste in una diminuzione dell'importanza dell'esattezza della interpretazione, forse addirittura in una complessiva diminuzione della urgenza di interpretare. Per conto, l'attenzione si sposta in avanti, per così dire, in direzione dell'interazione, del rapporto dal quale le idee interpretative emergono. Il modello contenitore-contenuto attribuisce nuovo valore alla ricettività e al tenere nella mente dell'analista la situazione dinamica del transfert-controtransfert. Ma forse affermare questo, come se l'analista fosse il contenitore, non coglie il fatto che sono il reciproco adeguamento dell'attenzione e degli atteggiamenti dell'analista e della tendenza a collaborare del paziente a formare e suggellare il contenitore, fornendogli il grado di flessibilità e di robustezza necessaria in ogni momento.
L'interpretazione perde così la sua funzione esplicativa, in parte per la mutata natura della situazione psicoanalitica, ma, in parte, anche perché l'analista ha abbandonato il suo orientamento di tipo causale nei confronti degli eventi psichici. Il campo degli stati della mente non consente al linguaggio della linearità di farsi valere; questo si ritira per fare posto a tentativi di descrizione, disperatamente inadeguati in un certo senso, così come un dipinto non potrebbe venire utilizzato come base per una ricerca botanica. Invece la metafora dell'illuminazione sostituisce la spiegazione. Mi rammento di avere visitato una grotta in Dordogna, credo che fosse la grotta di Combarelles, piena di graffiti di animali dell'era glaciale. Mentre la guida spostava la lampada da un angolo all'altro della grotta, diverse immagini sovrapposte spiccavano sul muro.

Questa immagine del compito verbale dell'analista, cioè di gettare una luce di comprensione da un vertice all'altro, modifica straordinariamente l'atmosfera della comunicazione, diminuendo le aspettative autoritarie del paziente e condividendo la responsabilità tra entrambi i membri del «gruppo di lavoro» a due.
Essa permette inoltre la formazione graduale di una linea interpretativa di cui certi sogni - i sogni, non le loro interpretazioni - costituiscono il punto di riferimento per entrambi i membri. La funzione della comprensione, con tutta la sua insicurezza e la prontezza a cedere il posto, libera l'analista dalle aspettative di conoscenza e gli consente pertanto una libertà speculativa molto superiore. Possono essere liberamente comunicate delle intuizioni, la cui prova non risulti fino a quel momento evidente, poiché il grado di incertezza è indicato dalla musica della voce. Poiché in questo modo viene tolta alla relazione la mistificazione dell'apparente onniscienza, il paziente si interessa maggiormente al metodo e accoglie volentieri spiegazioni sulle motivazioni del comportamento dell'analista. Tutto questo, compresa la definizione migliorata della forma che sembra assumere il processo analitico, tende a erigere il concetto della scienza, il processo, il metodo presi forse insieme alla storia personale e istituzionale come oggetto estetico.

Ciò contiene delle implicazioni di vasta portata per il transfert e il contro-transfert, poiché ha stabilito un oggetto che non è confinato - in termini freudiani - nelle limitazioni inerenti alle «particolarità» dell'analista: la sua età, il suo sesso, il suo aspetto fisico, gli avvenimenti conosciuti circa la sua situazione di vita, i suoi valori, la sua concezione politica, ecc. Infatti ciò apre la via alla formazione di un oggetto che il terapeuta e il paziente possono esaminare insieme da una certa distanza; così come si indietreggia dinanzi alla maggior parte dei dipinti per consentire alla composizione di colpirci, indi si fa un passo avanti per apprezzare i colpi di pennello e la tecnica dell'artista.
La psicoanalisi in quanto cosa-in-sé e la sua manifestazione particolare nell'esperienza personale del singolo paziente, viene a formare un legame con l'oggetto parziale interno, il seno-pensante materno come oggetto composto, seno e capezzolo. Le funzioni che l'analista è sentito svolgere all'interno del processo analitico assumono forma definitiva chiarendo grandemente la natura della dipendenza sperimentata. L'acting out alla ricerca di sostituti durante i momenti di separazione, si manifesta chiaramente o per l'adeguatezza o per l'inadeguatezza di questi fac-simili. L'analista si trova pertanto in una posizione più favorevole per aiutare il paziente e valutare l'utilità di queste relazioni alternative e non si limita semplicemente ad opporsi a esse, nell'ipotesi che esse debbano necessariamente impoverire il transfert.

È in questo senso che la esteriorizzazione dell'organizzazione narcisistica del paziente, con individui e con gruppi, viene sottoposta a un esame più preciso, perché il fondamento del giudizio non deve per forza basarsi solo sul valore. È vero che lo spostamento della base del giudizio di valore, da criteri morali o etici a criteri di sviluppo (ciò che spesso significa sospendere il giudizio) attenua l'asprezza degli interventi dell'analista circa le relazioni a base narcisistica, dal momento che il suo atteggiamento manca di una base dimostrabile, fuorché per quanto riguarda i sogni. Ma quando le modalità di pensiero e le vie della comunicazione possono essere sottoposte anch'esse a esame, è spesso possibile dimostrare i deficit nella qualità del pensiero. Questo è chiaro soprattutto quando è in discussione un coinvolgimento di tipo Gruppo di assunto di base, ma anche nella gang formata da uno o più conoscenti, possono essere spesso dimostrate le funzioni che «legano in modo sbagliato» la Griglia negativa (la «fantasia mimica» di Milton) (Milton J., Il paradiso perduto). Questa via di ricerca sui processi della comunicazione nel gruppo è di certo una aggiunta di Bion al nostro equipaggiamento per indagare sull'attività del narcisismo. Tale ricerca raggiunge il massimo della chiarezza nelle aree perverse della personalità le quali prosciugano la vitalità dei rapporti oggettuali. E qui la formulazione di Bion sui legami emotivi, positivi e negativi, getta una luce splendente.
«Ma non è vero che sono una parte della vita emotiva di quest'uomo?» pare chiedersi l'area perversa, rivendicando una certa rispettabilità e una giusta quota nel mondo delle relazioni intime umane. Una teoria dualistica di vita e morte, di pulsioni creative e distruttive non dà una risposta definitiva, se non un riluttante: «Sì, ma devi essere arrendevole, integrato a fini buoni e creativi»; ciò verrà apparentemente accettato e un sorriso dall'aspetto perverso nasconderà il trionfo. Ma quando le tendenze perverse sono riconosciute come anti-emozioni, meno L, H e K, non c'è bisogno di cedere loro nessuno spazio in forma di compromesso.

Il concetto di Griglia negativa e il riconoscimento da parte di Bion del fatto che la conoscenza della verità è indispensabile per costruire bugie efficaci (bugie verso se stessi come verso gli altri) ci ha fornito un potente strumento per esaminare il contenuto e le operazioni degli attacchi cinici contro la verità. Mentre non ho mai riscontrato l'utilità della Griglia per la contemplazione analitica, come suggeriva Bion, il suo formato rivela invece, con grande chiarezza, gli spostamenti dei livelli di astrazione e le affermazioni paradossali che accompagnano questi. Ciò porta a una maggiore abilità nell'esame delle funzioni difensive e di evasione nell'uso ambiguo del linguaggio, così come nei difetti nelle operazioni logiche, nelle pseudo-quantificazioni, nelle false equazioni, nelle similitudini spurie. Questi strumenti riuniti per esaminare i processi di pensiero e di comunicazione conferiscono all'analista una posizione assai più forte di prima nella battaglia per strappare le strutture infantili al dominio o all'influenza di parti distruttive della personalità che organizzano raggruppamenti narcisistici o di assunti di base, sia internamente che nel mondo esterno.

Infine, dobbiamo esaminare l'importante questione della nostra definizione privata e corporativa di psicoanalisi e le sue implicazioni per i nostri metodi di lavoro nello studio di consultazione. Non intendo riferirmi agli aspetti politici del problema, quali il definire la psicoanalisi come ciò che viene praticato dai membri della Società psicoanalitica, o il requisito «cinque-volte-la-settimana» o i setting extra-istituzionali e così via. Queste definizioni locali riguardano problemi politici locali e non sono di interesse scientifico. I problemi importanti sono di definizione privata e di presentazione pubblica ai colleghi.

La nostra definizione privata deve fondarsi essenzialmente su due pilastri, il metodo e il processo che esso mette in moto. Quasi tutti in questo campo saranno d'accordo sul fatto che l'essenza del metodo consiste nell'esame accurato e nella descrizione del transfert, attraverso l'esame interno del contro-transfert. C'è assai meno accordo, o necessità di accordo, per quanto riguarda la natura del processo terapeutico generato da queste operazioni. Non è impossibile che il processo vari da analista e analista, forse da paziente a paziente, in modo molto significativo. Ma tutti si troveranno d'accordo nel ritenere che ogni analista ha bisogno infine di avere formulato la sua propria concezione circa il tipo o la gamma di processi che egli considera utili in una analisi che progredisca. È chiaro che egli non può servirsi di criteri terapeutici sia osservati che riportati. Dopo tutto, non c'è alcun bisogno per gli analisti di rivendicare il monopolio dell'efficacia terapeutica.

Dopo essersi formato una simile concezione circa il tipo o la gamma di processi utili, l'analista dovrebbe essere in una posizione tale da avere una maggiore flessibilità nel venire incontro alle richieste dei suoi pazienti per quanto riguarda la frequenza, la durata delle sedute, il loro scaglionamento, il saltare le sedute, i periodi di terapia, i modi di pagamento, l'uso del divano, il portare o spedire materiale scritto o di tipo grafico, gli incontri con i parenti. L'accortezza può sostituire la rigidità di stile e di metodo, quando i concetti di base personali, circa il metodo e il processo, sono stati stabiliti attraverso l'esperienza con il singolo paziente e la pratica in generale. Modifiche nello stile e nel metodo introdotti dall'analista dovrebbero però venire tuttora considerate con grande sospetto e magari evitate, salvo al fine della ricerca posta in buona fede.
Ma una risposta flessibile alla richiesta di un paziente fondata sull'esperienza e saldezza di concetto, sostenuta dall'attento esame del materiale precedente e successivo, può sortire un effetto benefico, umanizzante e di incoraggiamento. Le conseguenze per l'analista sono, comunque, assai più importanti. Un siffatto orientamento lo obbliga a impegnarsi in un esame continuo e attento delle motivazioni delle proprie procedure tanto da dare impulso al suo apprendere dall'esperienza.

(Traduzione di Morag Harris Maio e Maria Noemi Plastino)


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