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Thomas H. Ogden

Una visione complessiva della schizofrenia

 

Da: ‘Identificazione proiettiva e tecnica psicoterapeutica’ di Thomas H. Ogden tradotto dall’Editore Astrolabio (Roma, 1994) col contributo de Il Vaso di Pandora.

Sommario

La schizofrenia è stata illustrata come una forma di patologia, caratterizzata da un forte conflitto tra il desiderio di conservare uno stato psicologico in cui il significato esiste e il desiderio di annientare tutti i significati e lo stesso pensiero, così come la capacità di fare esperienza. Inoltre, si verifica la traduzione in azione di quest’ultimo complesso di desideri, con un conseguente attacco effettivo a queste capacità. Il conflitto schizofrenico differisce dal conflitto nevrotico in quanto quest’ultimo implica una tensione tra coesistenti raggruppamenti di significati vissuti come tra loro incompatibili, mentre il primo implica un conflitto tra il significato e un attacco al significato. Nella schizofrenia i tentativi difensivi di controllare il significato possono esaurirsi; quando ciò si verifica, il conflitto si sposta dall’area delle rappresentazioni psicologiche e dei significati all’area delle capacità della persona di generare tali significati. Abbiamo presentato quattro stadi o tipi di tentativi di risoluzione del conflitto schizofrenico: lo stadio della non-esperienza, lo stadio dell’identificazione proiettiva, lo stadio dell’esperienza psicotica e lo stadio del pensiero simbolico. In ciascuno di questi stadi, ripetiamo, viene raggiunto un diverso equilibrio tra desideri che consentono l’esistenza di significati e pensieri e, dall’altro lato, desideri che puntano a distruggere tutti i significati. Oltre a ciò, ogni stadio è caratterizzato da una forma specifica di drammatizzazione che va oltre l’area della rappresentazione psicologica; attraverso questa modalità lo schizofrenico limita inconsciamente la propria capacità di percepire, pensare e fare esperienza. La teoria qui esposta del conflitto schizofrenico rappresenta un tentativo di indicare l’interfaccia tra l’area dei significati e delle rappresentazioni (pensieri, motivazioni, fantasie) e l’area della capacità di creare significati e rappresentazioni. E’stato introdotto il concetto di fantasia di attuazione nel tentativo di elaborare un concetto-ponte che indichi l’interazione tra queste aree.

Summary

Schizophrenia is a psychosis, characterized by a strong conflict between the wish to keep a meaningful psychological state and the wish to cell off one's ability of thinking and experiencing. Besides these whishes are acted and these abilities consequently compromised. The schizophrenic conflict differs from the neurotic conflict, and the first one implies a conflict between the meaning and an attack to the meaning, the second one implies a tension between coexisting but incompatible meanings. In schizophrenia defensive attempts may wear out; in that case the conflict moves from the area of psychological rappresentations and meanings to the area of the ability of generating such meanings. We have presented four stages or types of resolution of the schizophrenic conflict: the not-experiencing stage, the projective identification stage, the psychotic experience, and the symbolic thought. In each stage there is a different balance between wishes allowing the existence of meanings and thoughts and, on the other side, wishes to destroy every meaning. Every stage has a specific form of dramatization which goes beyond the area of psychological rappresentantions: through that the schizophrenic patient limits unconsciously his ability of perception, thought and experience. The concept of actuation fantasy is discussed, in the attempt of working through a 'bridge-concept', showing the interaction among these areas.

 

 

 

Le idee embrionali di Freud sulla schizofrenia e il lavoro analitico che ne è seguito hanno portato a una consapevolezza che occorre una teoria sulla schizofrenia: 1) che rifletta la centralità della tensione psicologica creata da complessi di sentimenti, idee, desideri, fantasie e impulsi che sono vissuti come incompatibili, come i desideri aggressivi nei confronti di un oggetto amato ambivalentemente e di paure e proibizioni nel riconoscere consapevolmente di possedere questi sentimenti; 2) che rifletta una conoscenza del mondo in cui gli specifici adattamenti a questa tensione (forme di difesa e modalità di relazionare con l’oggetto) determinano la forma della sintomatologia che ne deriva; 3) che spieghi in modo adeguato la differenza radicale tra pensiero, e comportamento, schizofrenico e nevrotico; e 4) che indichi la relazione tra il livello delle rappresentazioni, delle motivazioni e dei significati psicologici e il livello delle capacità che mediano la creazione delle rappresentazioni, delle motivazioni e dei significati psicologici.

Una teoria complessiva della schizofrenia deve indicare l’interazione tra il livello del conflitto intrapsichico e quello della capacità di generare significato psicologico. A differenza della nevrosi, la schizofrenia non implica un conflitto psicologico in cui possano coesistere consciamente o inconsciamente significati incompatibili in uno stato di tensione. Nel conflitto schizofrenico, si riscontra un elemento di opposizione di significati nel senso di opposizione di desideri relativi all’esperienza, ma il conflitto non si drammatizza esclusivamente a quel livello. I desideri di attaccare vengono invece messi in atto e non rimangono semplicemente pensieri o fantasie1. Il conflitto nevrotico implica una tensione tra insiemi di significati; il conflitto schizofrenico implica, invece, una tensione tra i desideri di conservare una condizione psicologica il cui significato può esistere e, d’altro lato, gli attacchi alla capacità di creare questo significato e di mantenerlo.

I vari tentativi dello schizofrenico di risolvere questo conflitto risultano dai tipi e gradi di non-pensiero e di non-esperienza che, sotto il profilo clinico, possono venire differenziati. L’idea di una fase della schizofrenia caratterizzata da una condizione che si avvicina alla non-esperienza, praticamente priva di processi schizoidi, differisce sensibilmente dal modello di schizofrenia proposto da Bion e da Grotstein, e ha importanti implicazioni sia teoriche che cliniche.

Come abbiamo discusso prima, la concezione di Freud della schizofrenia si è a volte soffermata sul livello dei significati psicologici conflittuali mentre altre volte ha evidenziato l’esistenza di una specifica ‘alterazione dell’Io’, un cambiamento nella capacità della persona di possedere una ‘attività di pensiero’ che vada al di là dei mutamenti nelle rappresentazioni psicologiche, dei livelli di consapevolezza e dei legami psicologici. Il modello di schizofrenia che propongo ha come punto focale l’interazione tra il livello dei significati psicologici e quello delle capacità che entrano in gioco quando questi significati vengono generati. La teoria proposta cerca di delineare la relazione tra i componenti di questa dualità, vale a dire di delineare la relazione tra la condizione di conflitto psicologico e l’alterazione della capacità dello schizofrenico di produrre significati.

Risoluzione del conflitto schizofrenico

Questa sezione discuterà quattro stadi della risoluzione del conflitto schizofrenico, dove i progressi evolutivi, raggiunti nel corso di uno stadio, gettano le basi per quello successivo. Ogni stadio ha le sue tipiche modalità di difesa, di simbolizzazione, di interiorizzazione e di comunicazione, così come un livello di rapporto oggettuale e un test di realtà con le relative funzioni dell’Io. Quest Quattro stade Della non-esperienza; lo stadio dell’identificazione proiettiva; lo stadio dell’esperienza psicotica; lo stadio del pensiero limbico.

Stadi di risoluzione del conflitto schizofrenico

Presenterò ora brevemente materiale clinico tratto dalla psicoterapia intensiva di un paziente schizofrenico. Lo commenterò con particolare riferimento alle modalità con cui si presta a essere organizzato dal punto di vista del significato intorno a quattro diversi tentativi di risolvere il conflitto schizofrenico. Nell’interesse dell’esposizione, descriveremo questi stadi separatamente, sebbene occorra tenere presente che, dal punto di vista clinico, forme pure di questi tentativi di risoluzione, per lunghi periodi di tempo, si incontrano raramente.

Lo stadio della non-esperienza

Phil aveva diciannove anni quando fu ammesso a un programma di trattamento a lungo termine per pazienti ricoverati, trattamento orientato psicoanaliticamente. Dall’età di quindici anni Phil era diventato sempre più taciturno, fino a diventare, a diciotto anni, quasi muto.

Circa un anno prima del suo ricovero, fu trovato addormentato nella camera da letto di un vicino che conosceva appena. Phil non sembrava turbato quando il vicino lo svegliò e lo accompagnò a casa. A scuola fu inserito in classi speciali; restava tranquillamente seduto durante la giornata, secondo le istruzioni che aveva ricevuto. In questo periodo il suo quoziente intellettivo WAIS precipitò da 105 a 55. Quando un gruppo di ragazze gli disse di togliersi i vestiti nel self-service durante l’ora di pranzo, lo fece e sembrò non capire la confusione che ne seguì. Alcuni mesi dopo, Phil non mostrò alcuna reazione al fatto che lo si ricoverasse, anche se quella era la prima volta in cui si separava dai genitori.

Sebbene Phil avesse ricevuto un calendario delle sedute di terapia da tenere nella sua stanza, ogni giorno occorreva ricordargliele. Quando arrivava alle sedute, si sedeva e distendeva le gambe. Di tanto in tanto si strofinava lo stomaco e quando l’incontro era dopo pranzo, ruttava ed emetteva flatulenze. Nei giorni caldi si sdraiava sul tappeto e dormiva. Le sedute erano vissute dal terapeuta come momenti privi di avvenimenti, ma non opprimenti. Spesso aleggiava una sensazione di noia, ma non era una noia dolorosa. Frequentemente il terapeuta tentava di trovare un significato nel comportamento apatico del paziente e si chiedeva se non stesse tentando di comunicare qualcosa del suo torpore interiore o se non volesse farlo sentire incapace o senza valore. Ma queste rimasero ipotesi alternative, verso le quali il terapeuta non si sent_ particolarmente attratto. Lo colpì invece l’assenza in sè stesso di sentimenti di rabbia e frustrazione o di conseguente fantasia di vendetta, emozioni che era solito provare con un paziente che ‘resisteva al trattamento’. Non era interessante stare con Phil, ma non era neanche spiacevole. C’era qualcosa di così benigno in quel paziente, una tale assenza di richieste, un oblio così totale e indifferenziato, che il terapeuta non era indotto a provare rabbia nei suoi confronti. Non aveva l’impressione che la sua esistenza fosse negata da Phil; sentiva invece di esistere per lui, ma niente di più.

All’inizio il terapeuta spiegò che lui e Phil si incontravano per parlare e riflettere su qualsiasi cosa Phil sentisse o di cui volesse parlare. Retrospettivamente, la dichiarazione di una tale aspettativa nei confronti di questo paziente sembra donchisciottesca e quasi assurda. Phil sembrava contento di starsene lì per tutto il tempo che il terapeuta desiderava. Non fece mai una domanda, nè espresse mai un giudizio o un’idea, che non fosse stata sollecitata. Quando il terapeuta gli poneva una domanda che era in qualche modo astratta, (‘Che c’è di nuovo?’ oppure ‘Che cosa hai pensato della partita di baseball dei membri del reparto?’), Phil rimaneva in silenzio oppure scrollava le spalle. Rispondeva a domande molto concrete, quali ‘Quanti hamburger hai mangiato a pranzo?’ o ‘Chi ha vinto la partita di baseball che hai visto alla televisione?’ Ma le sue risposte potevano essere sia corrette che errate.

Phil sembrava privo di curiosità o di interesse per qualsiasi cosa, benchè sembrasse provare piacere nel guardare la televisione e prediligesse i programmi sportivi, rispetto ad altri. Durante questo periodo, che durò otto mesi circa, si evidenziò l’assenza di determinati tipi di sintomi psicotici. Egli non sembrava soffrire di allucinazioni o agire in modo paranoide o grandioso; possedeva il senso dell’orientamento nei confronti delle persone e dei luoghi (sebbene avesse ben poco senso del tempo); deliri non se ne evidenziarono. In realtà, non si segnalava alcun tipo di attività fantastica.

La fase del trattamento appena descritta è caratteristica dello stadio di non-esperienza del conflitto schizofrenico (Primo Stadio). Ciò che è centrale, è il modo in cui tutta l’esperienza, da un punto di vista emotivo, viene vissuta come equivalente: una cosa è buona o cattiva quanto qualunque altra; tutte le cose, le persone, i luoghi e i comportamenti sono emotivamente intercambiabili. Le persone, i luoghi e gli oggetti sono percepiti, registrati e differenziati dal punto di vista fisico. Phil riusciva, per esempio, a distinguere la sua casa a quella dei vicini. Tuttavia, poichè tutte le cose e i luoghi erano intercambiabili, per quanto riguarda il loro significato emotivo, per lui non faceva differenza dormire a casa propria o nel letto del vicino. Dal momento che tutti i comportamenti erano equivalenti, le richieste che si spogliasse in pubblico non erano viste come qualcosa di straordinario. Nulla è straordinario, perchè tutto ha lo stesso valore emotivo. Per Phil, gli oggetti erano intercambiabili all’infinito, e questo rispecchiava uno stato psicologico nel quale ogni cosa poteva diventare il sostituto di qualsiasi altra. Per usare un’analogia, la situazione era simile a quella di un sistema numerico in cui c’è una serie infinita di numeri interi, ma tutti sono tra loro uguali in valore.

L’addizione, la sottrazione e tutte le altre operazioni sarebbero formalmente possibili, ma non metterebbe conto farle in quanto si arriverebbe immancabilmente allo stesso valore iniziale.

Phil non mostrò alcuna capacità di riflettere sulle cause degli eventi o sul significato di un comportamento e non manifestò alcuna curiosità che avrebbe potuto suggerire un qualche interesse per l’apprendimento. Non c’era indicazione di una possibile produzione mentale originale di un qualche tipo. Ciò che egli produceva si situava nell’ambito dell’attività fisiologica dei riflessi: ruttare ed emettere flatulenze. Trarre dei significati psicologici dai rutti di Phil sarebbe stato tanto assurdo, quanto leggere un significato psicologico nel riflesso di un ginocchio. L’interpretazione del significato in un campo privo di significato può essere intesa come una forma di diniego.

Nella descrizione della terapia da cui siamo partiti, è stato notato che il terapeuta sperimentava l’assenza di una pressione interpersonale che lo inducesse a pensare a sè stesso e a comportarsi in un modo particolare. L’assenza di pressione, in sè, potrebbe essere vista come un tipo particolare di pressione, ma questa considerazione cade quando si considera che anche un terapeuta in una stanza con un manichino potrebbe percepire l’assenza di pressione interpersonale o, difensivamente, una qualche forma di rapporto che potrebbe implicare una pressione interpersonale del tutto fantasticata. Non tutta l’attività mentale o i sentimenti del terapeuta riflettono lo stato interiore del paziente. Nel tentativo di determinare la presenza o meno di una pressione da un individuo all’altro ascrivibile a una identificazione proiettiva, è determinante la sensazione, immediata ma anche retrospettiva, d’essere stati limitati nella gamma disponibile di sentimenti, idee e autorappresentazioni. Nel nostro caso, comunque, ipotesi basate su illazioni tratte da un’analisi dello stato intrapsichico del terapeuta non furono successivamente avvallate dagli avvenimenti della seduta in atto o delle sedute seguenti. E’ così possibile ricavare l’assenza di un’attività difensiva, di una comunicazione e di una modalità di relazione oggettuale basate sull’identificazione proiettiva. Questa assenza, ripeto, caratterizza quello che abbiamo chiamato Primo Stadio.

Occorrerebbe sottolineare che, sebbene lo stato psicologico di Phil fosse privo della capacità di creare significato, non si aveva prova che la sua vita gli sembrasse insignificante o caotica e non sarebbe esatto, di conseguenza, attribuirle questo significato soggettivo. L’assenza di significato non veniva vissuta perchè non veniva sperimentato nulla: si trattava di un’incapacità di fornire significato che non faceva sentire insignificante, in realtà non c’era nessuna capacità di sentire o di fare esperienza di qualcosa. Si potrebbero contrapporre le caratteristiche psicologiche di un paziente in questo stadio nel rapporto interpersonale con quelle di un paziente in uno stadio di ritiro catatonico. Ad un primo sguardo è possibile che il catatonico sembri simile a Phil, per quanto concerne l’attività mentale e la capacità di fare esperienza; tuttavia il catatonico comunica molto velocemente la sua rabbia (attraverso le sue posizioni, la tensione muscolare e altri segnali non verbali), così come altri aspetti del suo sistema di significati (Rosenfeld, 1952a).

Una cosa deve essere fuori d’ogni dubbio quando si lavora con un paziente del Primo Stadio, anche se lo si vuole, non si riesce a costringere un’altra persona a pensare o a fornire un significato a una percezione. Tutto quello che è possibile fare è tentare di creare le condizioni perchè la capacità di fare esperienza e di pensare si ristabilisca. Questo significa innanzi tutto astenersi dal partecipare agli attacchi mossi dal paziente contro le forme di esperienza e di pensiero; significa rendersi disponibili a servire da recettore delle sue identificazioni proiettive, se e quando il paziente sceglie, anche se in modo ambivalente, di prendere nei propri ranghi l’aiuto del terapeuta per raggiungere o riacquistare queste capacità.

Questo modo di considerare il ruolo del terapeuta, nella fase che abbiamo chiamato di non-esperienza, si basa su una ipotesi che può essere confermata solo retrospettivamente: la fase di non-esperienza non è completamente inerte, rappresenta piuttosto l’equilibrio potenzialmente alterabile raggiunto nel conflitto in atto tra desideri in guerra tra loro. Nel Primo Stadio l’equilibrio di forze si è spostato così prepotentemente da una parte (dalla parte dell’odio nei confronti della realtà e del desiderio di non fare esperienza)che può sembrare che non ci sia nessun conflitto. Il fatto che la terapia venga consistentemente rispettata dal paziente e che ciò possa essere alla fine notato dal paziente stesso, sì da farlo reagire (come descriveremo a proposito del Secondo Stadio) indica che la ‘chiusura’ delle capacità di fare esperienza del Primo Stadio non poteva essere totale. Ciò che resta del nucleo della capacità di fare esperienza (compreso il complesso di significati e di desideri insito nella creazione e nella conservazione di una condizione vicina a quella di non-esperienza), risulta così debolmente presente e fortemente trasformato da non essere più chiaramente distinto per tutto il periodo del Primo Stadio.

Nei suoi sforzi di creare le condizioni favorevoli in cui il paziente possa osare pensare, il terapeuta deve essere certo di non attaccare, nel contesto terapeutico, il suo potenziale mentale evitando queste modalità: 1) minando la stabilità, la sicurezza e l’affidabilità del setting terapeutico, arrivando in ritardo, cambiando gli orari degli appuntamenti, cancellando le sedute, eccetera; 2) sottoponendo a diniego un aspetto della realtà di un campo di cui il paziente non ha esperienza, per esempio interpretando un significato che in realtà non c’è; 3) tentando di fuggire dallo stato di non-esperienza del paziente attraverso l’azione, per esempio limitando la terapia al tentativo di instradare il paziente perchè ‘agisca in modo appropriato’, con l’effetto di incoraggiare l’azione come forma di scarico di tensioni, anzichè cercare di promuovere lo sviluppo del pensiero; oppure ancora 4) permettendo che la sua ostilità e le sue paure inconsce, relative l’assenza di significato del paziente, si manifestino attraverso una terapia ‘attiva’, durante la quale offre interpretazioni ostili, o non del tutto accurate (‘Lei ha paura di vivere la vita e non fa altro che nascondersi’), oppure richiedendo insistentemente un tipo di pensiero di cui il paziente è incapace (per esempio, chiedendo continuamente al paziente come si sente o perchè sta facendo quello che fa, domande che implicano un pensiero capace di legami tra causa ed effetto e il riconoscimento dell’esperienza emotiva).

Abbiamo già detto che, sebbene lo stadio di non-esperienza dia l’impressione di essere statico e non conflittuale, retrospettivamente si ha la prova che così non era. Quando il terapeuta riesce ad astenersi dal partecipare gli attacchi al pensiero e all’esperienza e si predispone a ricevere le identificazioni proiettive del paziente, se e quando queste si verificheranno, è possibile che il paziente tenti scorrerie, anche se estremamente ambivalenti, nel campo dell’esperienza. Queste incursioni iniziali, nelle quali si manifesta per la prima volta il conflitto, danno inizio, come illustreremo tra breve, alle prime identificazioni proiettive.

Lo stadio dell’identificazione proiettiva

Alla fine del quarto mese di terapia, Phil era in grado di presentarsi in tempo alle sedute quotidiane senza che glielo si dovesse ricordare. Durante l’ottavo mese, iniziò ad arrivare in ritardo a quasi tutti gli incontri, a saltarli del tutto, ad arrivare all’ora giusta ma nel giorno sbagliato, a presentarsi subito dopo l’ora stabilita per la fine della seduta, e così via. Aveva sempre una scusa: ‘Ho perso il calendario degli orari’, oppure ‘Mi sono addormentato e ho dimenticato di regolare la sveglia’. Il terapeuta era infastidito da questi pretesti, ma non riusciva a comprendere il cambiamento. Il problema degli orari durò molti mesi, durante i quali il terapeuta iniziò progressivamente a contare sul ritardo del paziente e a permettere che le riunioni dell’ospedale si prolungassero, arrivando quindi nel suo studio alcuni minuti dopo l’inizio previsto per le sedute. Questo in genere ‘non aveva importanza’, in quanto il paziente non sapeva di solito del ritardo del terapeuta, arrivando ancora più tardi, quando arrivava. Tuttavia, qualche volta il paziente poteva arrivare puntualmente e il terapeuta in ritardo. In queste occasioni il terapeuta si rassicurava immaginando che Phil fosse così lontano ‘dal problema’ da non accorgersene.

Durante questo periodo, Phil iniziò un tipo di rapporto nel quale fissava il terapeuta e ne imitava le parole e i movimenti (gesti, posizione delle mani e delle gambe, espressioni del volto, intonazione e tono della voce), ripetendo tutto ciò che egli diceva. Questo andava avanti per parte o anche per tutta la seduta, e durò per diverse settimane. L’effetto fu di fare sentire il terapeuta così fortemente a disagio e consapevole di s_, che nulla di ciò che diceva o del modo in cui si atteggiava gli sembrava naturale. Aveva l’impressione che il suo corpo e le sue parole fossero dolorosamente e vulnerabilmente smascherati e che fossero stati in qualche misura conquistati e controllati dal paziente. La ripetizione da parte di Phil di ogni movimento e di ogni parola del terapeuta, aveva l’effetto di svuotare sia il corpo che i discorsi della capacità di essere sperimentati come aspetti di sé e della loro potenzialità di comunicare significato. Venivano invece vissuti come entità estranee, con le quali aveva un rapporto remoto, quasi come se il terapeuta stesse utilizzando grandi e maldestre mani meccaniche con le proprie mani. La profonda ostilità del comportamento del paziente stupiva il terapeuta e accresceva ulteriormente la sua difficoltà nel ristabilire il proprio equilibrio. Egli si sentiva estraneo a se stesso e derubato dello spazio interno che serve per pensare e osservare.

Il materiale clinico appena descritto rappresenta i conflitti e le identificazioni proiettive che caratterizzano le prime chiare incursioni dello schizofrenico nel regno dell’esperienza. Il paziente si permette di attribuire significato al terapeuta e al setting della terapia, attaccando il setting con ritardi e sedute mancate. In questa fase, il fatto che qualcosa è stato oggetto di esperienza viene segnalato proprio dall’attacco che il paziente muove contro questo qualcosa e contro il suo significato. Le identificazioni proiettive del paziente evocavano nel terapeuta la sensazione che la terapia e le sue regole di fondo fossero senza significato, che il ritardo e la puntualità potessero essere vissute come la stessa cosa e che della terapia nulla avesse importanza. In questo caso il terapeuta non riuscì ad elaborare le identificazioni proiettive. Invece di contenere il senso di rabbia e di assenza di significato provato dal paziente, egli agì i sentimenti che il paziente aveva generato in lui, iniziando in ritardo le sedute. Ciò rappresentò, per il paziente la conferma che anche il terapeuta riteneva che nulla avesse importanza e che le premesse per incominciare a pensare, vale a dire il setting della terapia, dovevano venire fortemente attaccate.

Nel contesto di queste interazioni nate dai ritardi, l’imitazione che il paziente faceva del terapeuta potrebbe essere intesa come una forma di identificazione proiettiva ‘violenta’. Il termine identificazione proiettiva violenta è qui usato in riferimento a una identificazione proiettiva in cui si verificano alcuni fenomeni: 1) i sentimenti di chi proietta sono così intensi e dolorosi da essere da lui sentiti come violentemente autodistruttivi; 2) chi proietta fa le fantasie di invadere il recettore in modo spietato e dannoso con l’aspetto rifiutato di sè; e 3) la pressione esercitata nel rapporto sul ricevente è tanto forte da implicare una invasione severa, e spesso traumatica: una intensa forma di violenza. Nell’identificazione proiettiva contro il terapeuta che stava alla base dell’attacco fatto attraverso le imitazioni del paziente, questi tentava non solo di liberarsi delle sue stesse sensazioni di morte e di essere senza senso, ma anche di restituire al terapeuta l’attacco che questi, attraverso il ritardo, aveva mosso contro di lui e contro la terapia.

Questa identificazione proiettiva violenta è tipica della fase iniziale dello Secondo Stadio, in quanto implica, in modo quasi identico, il desiderio del paziente di distruggere la propria capacità (e quella del terapeuta) di fare esperienza e di pensare e, d’altra parte, il desiderio di usare il terapeuta per creare esperienze da potere pensare. Nell’identificazione proiettiva che abbiamo visto, la capacità del terapeuta di percepire come proprio il corpo e le parole erano state sottoposte a un duro attacco. Ma oltre a ciò, come succede con le altre identificazioni proiettive, questo in parte rappresenta anche il tentativo di sbarazzarsi di un aspetto di sè, invece di sperimentarlo, viverlo e quindi pensarlo. D’altra parte il fatto di suscitare nel terapeuta certe sensazioni nel corso di queste identificazioni proiettive è anche motivato dallo sforzo di comunicargli quell’insieme intollerabile di sensazioni (vita senza senso e ostilità), nel tentativo di farli elaborare questi sentimenti in una forma che possa venire pensata e con cui si possa convivere.

La forma di relazione oggettuale che entra in gioco in queste identificazioni proiettive è abbastanza diversa da quella vista nel Primo Stadio. Il terapeuta nel Secondo Stadio è percepito e vissuto come un oggetto che è parzialmente separato, nel quale e dal quale le parti del Sè possono essere messe e tolte. Il terapeuta è sentito come pericoloso perchè minaccia il desiderio del paziente di non avviare il pensiero. E’ per questo che la sua capacità di pensare viene rabbiosamente aggredita. Allo stesso tempo, il terapeuta viene considerato come un contenitore molto prezioso per gli aspetti intollerabili del Sè. Questi sono significati che lo stesso paziente nel Primo Stadio sarebbe incapace di sperimentare. Le identificazioni proiettive del Secondo Stadio riflettono non solo la maggiore capacità del paziente di fare esperienza e di concepire le relazioni con gli oggetti, ma anche la sua capacità di collegare in modo sufficiente i pensieri per formare fantasie sia di tipo proiettivo che di tipo introiettivo.

Le identificazioni proiettive all’inizio del Secondo Stadio hanno a che fare quasi esclusivamente con i desideri e i sentimenti conflittuali del paziente che riguardano l’assenza di senso e l’impossibilità di fare esperienze. A differenza del Primo Stadio, dove c’era un’assenza di significato e di esperienza senza consapevolezza, nel Secondo Stadio c’è consapevolezza dellæassenza di significato, che è sentita in modo così doloroso da venire immediatamente rifiutata attraverso l’identificazione proiettiva.

In questo stesso Secondo Stadio l’identificazione proiettiva è la difesa predominante, inizialmente contro la sensazione interna di assenza di significato, in seguito contro la sensazione, la percezione e il pensiero che in origine erano stati così insopportabili da portare lo schizofrenico ad attaccare le sue stesse capacità di vivere l’esperienza e di pensare. L’equilibrio di forze, nel conflitto schizofrenico del Secondo Stadio, si è spostato verso i desideri di vivere l’esperienza e di pensare; ora lo schizofrenico osa trasformare la percezione in esperienza, nella misura in cui può avere luogo una qualche forma limitata di produzione di fantasie e di attribuzione di significato agli oggetti. Continua comunque a manifestarsi il desiderio di non fare esperienze: ciò che è vissuto viene immediatamente espulso in forma di violente identificazioni proiettive.

La ferocia degli attacchi interpersonali rivolti al pensiero, insita in questo tipo di identificazione proiettava, giustifica in buona parte la tensione emotiva sollevata dal trattamento di pazienti schizofrenici in questo stadio. Per esempio, durante ogni seduta uno schizofrenico di quindici anni bombardava senza posa il terapeuta con centinaia di domande, delle quali conosceva già le risposte, (per essere sicuro che il terapeuta stesse ascoltando). Tuttavia, questo mitragliamento sortiva esattamente l’effetto opposto. Il terapeuta si sentiva incapace di pensare o di ascoltare qualsiasi cosa, dal momento che tutte le energie erano impiegate per proteggere se stesso da quell’assalto furioso di domande senza senso. Anche un altro paziente ripeteva di continuo la stessa domanda suscitando un effetto analogo. All’interno di una terapia di gruppo, gli attacchi del Secondo Stadio sono diretti alla capacità del gruppo di costituire un ambiente in cui il pensiero possa nascere. Questo può manifestarsi in varie forme, battendo in modo assordante oggetti di legno sulle gambe di una sedia, oppure continuando a leggere un libro ad alta voce durante le sedute, oppure ancora ostacolando qualsiasi discussione per mezzo di infinite violazioni delle regole sulle quali il gruppo si forma, ecc. A volte, nel Secondo Stadio, la necessità e la capacità di uno schizofrenico di distruggere il potenziale di pensiero sembrano non avere limiti.

Per i pazienti che hanno maggiori capacità di esprimersi di Phil, la parte iniziale del Secondo Stadio è spesso caratterizzata da resoconti estremamente secchi e ripetitivi di esperienze sia recenti che passate. Tutte le volte in cui è possibile fare vita al pensiero potenziale, vengono esposte, in maniera ritrita, stereotipate formule psicoanalitiche. Il terapeuta si sente fiaccato dalla tetra monotonia delle sedute. Tutto questo è il frutto di un’identificazione proiettiva di ciò che il paziente inizia a sperimentare del suo stato interiore arido e senza senso.

Attraverso l’elaborazione del terapeuta delle identificazioni proiettive del paziente, quest’ultimo riesce a sperimentare una gamma un po’ più vasta di stati d’animo. Questi nuovi stati d’animo vengono successivamente impiegati in ulteriori identificazioni proiettive. Per Phil, questo implicava i timori per le spinte omicide e per l’onnipotenza dei suoi pensieri, la paura di essere aggredito dai pensieri di altri e il timore, e il desiderio ad un tempo, che la vita del terapeuta dipendesse da lui. (Le manifestazioni cliniche di questo tipo di identificazione proiettiva sono discusse nei capitoli primo, terzo e sesto). Nell’ultima parte del Secondo Stadio, l’intensità dell’ambivalenza dell’identificazione proiettiva è minore ed è caratterizzata da uno sforzo maggiore di comunicare stati d’animo intollerabili e da un ridimensionamento del tentativo di distruggere la capacità di pensare di chi funge da contenitore.

Lo stadio dell’esperienza psicotica

Nel secondo anno di trattamento, ci furono lunghi periodi durante i quali Phil viveva spiacevoli blocchi; guardava il terapeuta come se lottasse per dire qualcosa, poi si fermava, quindi sembrava che stesse per parlare e infine, sconfitto, ricadeva sulla sedia oppure si sdraiava sul pavimento in silenzio. Per il terapeuta era molto difficile vedere Phil soffrire in quel modo. Quando si bloccava, il terapeuta gli ripeteva a volte qualcosa che lui stesso aveva detto in precedenza: ‘è difficile pensare’. Spesso, Phil iniziava una frase per poi interromperla a metà. Quando gli veniva chiesto che cosa stava per dire, rispondeva di non saperlo e poco dopo non riusciva a ricordare di avere detto qualcosa.

Altre volte, sembrava spaventato, disorientato e confuso. Mentre era in stato confusionale, non aveva idea di quanto tempo avesse già passato in ospedale, con chi avesse parlato un momento prima, dove fosse o se ciò che udiva lo stessero dicendo veramente o invece se lo stesse immaginando. Pensava che ogni risata fosse un attacco di scherno rivolto a lui, che delle persone o delle ‘forze’ lo stessero per uccidere o volessero che lui si uccidesse e che chiunque potesse leggere nella sua mente. Diceva di desiderare disperatamente di essere in grado di parlare, pensare e ricordare, ma di non poterlo fare e questo lo terrorizzava terribilmente.

La settimana prima delle vacanze estive del terapeuta, che sarebbero durate tre settimane, Phil ebbe per la prima volta allucinazioni uditive; non riusciva, però, a riconoscere le voci o a capire che cosa dicessero, perchè sembrava che le voci fossero alterate, ‘come se fossero state macinate in un tritacarne’. Mentre il terapeuta era assente, il paziente diventò quasi completamente muto; e di tanto in tanto per ore si metteva a passeggiare avanti e indietro nel corridoio del reparto. Quando il terapeuta ritornò, Phil si sentì presto meno confuso e smise di provare allucinazioni, ma non riuscì a descrivere quello che aveva fatto, disse solo che era stato un ‘periodo terribile’, durante il quale si era sentito molto confuso, aveva sentito delle voci e non sapeva che cosa gli fosse accaduto.

Seguì un periodo di mesi durante il quale Phil trascorreva parte o tutte le sedute di terapia disteso in silenzio sul pavimento. iniziò quindi a fumare durante le sedute, a mettere le dita umettate nel posacenere pieno e a ingoiarne la cenere. Il terapeuta rimase colpito da questo comportamento e chiese a Phil che cosa stesse facendo; questi rispose di non sapere veramente che cosa volesse dire fumare e di credere che, qualsiasi fosse la parte di sè che aveva bruciato o fatto cadere nel portacenere, essa poteva avere una sua importanza. Pensava di dover mangiare le ceneri, per dare al suo corpo l’opportunità di rimetterle insieme, in qualunque posto fossero state prima, in modo da farle ritornare nella loro posizione originaria nel corpo che le necessitava.

Dopo breve tempo, Phil trascorse diverse settimane senza dire nulla, sebbene in apparenza sembrasse preoccupato per qualcosa. Durante queste sedute spesso rideva calorosamente, a quando gli si chiedeva per che cosa ridesse, diceva di non saperlo o di averlo dimenticato. Diceva di ridere a volte quando pensava che il terapeuta avesse detto qualcosa, ma poi subito dimenticava ciò che questi aveva detto. Gli piaceva ridere, ma una volta in cui scordò ciò per cui aveva riso, detestò l’idea di averlo fatto senza alcun motivo.

Prima della seconda vacanza del terapeuta (quasi un anno dopo), il paziente battè un pugno sulla sedia e disse: ‘So che lei ha letto molti libri (indicando la libreria del terapeuta) e che sa molte cose di psichiatria, ma’. A questo punto Phil cadde in silenzio e per quindici minuti lottò per parlare. Dimenticò in seguito, di star cercando di dire qualcosa. Era chiaro che la fine della frase sarebbe stato qualcosa come: ‘ma non sa un cavolo di niente di me e gliene importa ancora meno!’. I blocchi si limitarono sempre più a situazioni come questa, dove le idee che dovevano essere espresse avevano un peso particolare, di solito di carattere ostile.

Questo terzo stadio è caratterizzato dall’attacco dello schizofrenico ai propri pensieri e ai propri sentimenti, prevalentemente attraverso blocchi e frammentazioni, ma anche attraverso proiezioni, introiezioni e distorsioni bizzarre. I blocchi di Phil rappresentavano una conquista, perchè stava iniziando ad avere pensieri che non dovevano essere immediatamente scacciati ed elaborati da un’altra persona tramite l’identificazione proiettiva. I blocchi rappresentavano, tuttavia, anche la componente irrisolta di desideri ancora potenti (che venivano rappresentati), volti ad annientare la sua stessa capacità di pensare e di fare esperienze. Grazie all’esperienza di un contenimento riuscito delle sue identificazioni proiettive durante il Secondo Stadio, l’equilibrio di forze nel conflitto schizofrenico si era diretta verso il suo desiderio di vivere, di vivere le percezioni e i pensieri e i sentimenti che ne derivavano. Ciò nonostante gli aspetti dell’esperienza che in origine hanno indotto Phil ad attaccare le proprie capacità di percepire, sentire e pensare, restano per lui ancora terrificanti. Poichè il tipo di simbolizzazione adottato nel Terzo Stadio è prevalentemente quello dell’equazione simbolica (Segal, 1957), in cui il simbolo (la cenere della sigaretta) viene trattato come se fosse la cosa che rappresenta (una parte importante del corpo), pensieri e sensazioni acquistano la proprietà vivida e immediata di essere veri e propri oggetti al proprio interno. I processi biologici sono sentiti come se fossero metodi di manipolazione fisica di questi oggetti, per esempio il gesto di Phil di mettere la cenere in un posacenere rappresenta la reificazione di una proiezione, la rappresentazione della fantasticata espulsione di una parte di s_.

Nel materiale clinico appena presentato, si può vedere Phil contenere le sue percezioni, i suoi pensieri e le sue sensazioni in maniera più ampia di prima. Questo si rifletteva nella sua capacità di sperimentare pensieri molto dolorosi e terrificanti di persone che desideravano che lui morisse e che tentavano di ucciderlo e nel suo sentirsi perduto prima delle vacanze. Nel Secondo Stadio, l’equivalente di questi sentimenti sarebbe stato indotto in altre persone e Phil avrebbe avvertito in misura molto minore il dolore di possedere queste emozioni. Tuttavia, la modalità schizofrenica di reagire all’esperienza dolorosa (vale a dire l’attacco alle sue stesse funzioni mentali) è ancora presente ed è evidente nella frammentazione delle percezioni e dei pensieri di Phil, nonchè nella sua proiezione e successiva reintroiezione di questi frammenti. Le allucinazioni uditive di Phil, che erano sentite ‘come se fossero state macinate in un tritacarne’ possono essere intese come rappresentazioni reificate e proiettate di pensieri e sentimenti frammentati. L’ipertrofia dei processi di scissione, proiezione, introiezione e distorsione estrema della rappresentazione, media il processo di frammentazione psicologica.

Il risultato di questa frammentazione è la creazione di un mondo interno ed esterno colmo di residui (‘cenere’), distorti in maniera bizzarra, di rappresentazioni reificate di pensieri e sentimenti (gli ‘oggetti bizzarri’ di Bion, 1956). Quando i pensieri e i sentimenti si facevano sentire come particolarmente dolorosi, per esempio nei giorni che precedettero la prima vacanza estiva del terapeuta, gli attacchi mossi alla elaborazione del pensiero aumentarono sino allo stato confusionale che durò per settimane. Gli attacchi all’apparato percettivo (come parte dell’attacco alla capacità di registrare le esperienze) assunsero la forma caratteristica di un crollo del test di realtà, inclusa la capacità di orientarsi (in particolare rispetto al tempo e alle persone), di differenziare le fantasia dalla realtà e di organizzare gli elementi della percezione in un tuttuno.

Come emerge dal materiale clinico, l’ultima parte del Terzo Stadio è un periodo transitorio durante il quale l’esperienza psicotica del paziente continua; durante questo periodo, però, si evidenzia anche l’insorgere di una capacità di osservare e di utilizzare le parole per creare rappresentazioni, per organizzare, pensare e comunicare gli elementi dell’esperienza psicotica. Questo fu evidente nella capacità di Phil di organizzare e mettere in parole la fantasia secondo cui fumare sigarette significava bruciare e perdere una parte di s_, che egli sperava poi di recuperare ingoiando la cenere. Questa fase transizionale del trattamento emerge come punto di riferimento nello sviluppo della capacità del paziente di pensare e parlare.

Le qualità delle relazioni oggettuali presenti nel Terzo Stadio differiscono notevolmente da quelle del Secondo Stadio. Qui il terapeuta è considerato non semplicemente come un contenitore parzialmente separato delle identificazioni proiettive di Phil, ma sempre di più come una persona distinta, la cui perdita può essere temuta e, in piccola parte, compianta. I sentimenti provati dal terapeuta sono pure qualitativamente diversi rispetto a quelli del Secondo Stadio. Ora c’è per lui spazio per rispondere empaticamente al paziente, in contrasto agli stati d’animo suscitati forzatamente in lui attraverso le interazioni interpersonali tipiche delle identificazioni proiettive non continui a essere una modalità di interazione molto comune e importante; il Terzo Stadio rappresenta piuttosto un campo psicologico e interpersonale nel quale lÆempatia pu‗ avere la medesima importanza della forma di identificazione che il recettore assume durante l’identificazione proiettiva. Il rapporto terapeutico nel Terzo Stadio è, per molti aspetti, paragonabile al rapporto madre-bambino descritto da Winnicott (1958) durante la fase di sviluppo, quando il bambino impara a giocare da solo in presenza della madre. Nel Terzo Stadio, il paziente si sforza di contenere la sua stessa esperienza in presenza del terapeuta facendo sempre minore affidamento su di lui per elaborare pensieri e sentimenti.

Nel Terzo Stadio, gli stati dÆanimo del paziente rispetto agli stadi precedenti, risultano più apertamente conflittuali, ovvero, le forze dei desideri in contrasto nel conflitto schizofrenico hanno una intensità più paritetica. Ciò fa parte di quello che contribuisce a far sentire il paziente più vivo e ‘umano’. Inoltre, l’interesse focale del conflitto schizofrenico si è spostato dal problema dell’esperienza contrapposta alla non-esperienza, dominante nel Primo Stadio e in misura minore nel Secondo, al problema del pensiero contrapposto al non-pensiero. Anche durante le fasi di pensiero frammentato del Terzo Stadio, per esempio durante gli stati confusionali, la capacità di fare esperienza viene mantenuta (il ricordo di Phil delle vacanze del terapeuta come ‘un periodo terribile’).

A un primo sguardo potrebbe sembrare paradossale che un periodo di florida esperienza e sintomatologia psicotica sia emerso piuttosto tardi negli stadi di risoluzione del conflitto schizofrenico. Normalmente, da un punto di vista clinico, troviamo che un periodo piuttosto lungo e spesso discretamente tranquillo, durante il quale riconosciamo una pressione interpersonale conforme a fantasie proiettive inconsce, viene interrotto dalla comparsa di una sintomatologia e da unæesperienza psicotica. Un terapeuta si sente spesso scoraggiato da questo apparente intoppo nel suo lavoro. Nel caso di pazienti ricoverati, a questo punto, accade molto frequentemente che membri dello staff e familiari insistano affinchè si prescrivano farmaci antipsicotici. Tuttavia, la prospettiva di questo capitolo dovrebbe aiutare il terapeuta a capire che l’apparente passo indietro nel trattamento può venire più accuratamente spiegato come un progresso: il paziente sta cercando di far esperienza di ciò che percepisce senza distruggere appunto la capacità di fare esperienza, come invece accadeva nel Primo Stadio, e senza espellere immediatamente in un rapporto interpersonale i suoi pensieri e i suoi sentimenti, come nel Secondo Stadio. Eli cerca disperatamente di vivere con le sue percezioni, la sua esperienza e i suoi pensieri primitivi, ma, nella fantasia e nella realtà, può solo farlo bloccando, frammentando e distorcendo in modo assurdo ciò di cui fa esperienza; Se non gli vengono somministrati farmaci, il paziente sembra, spesso e pi¨ che in precedenza, essere più vivace e disponibile al trattamento, anche se floridamente psicotico. Il paziente nel Terzo Stadio inizia a considerare il terapeuta come una persona che può essere d’aiuto di fronte ad esperienze che incutono timore, piuttosto che un ricettacolo in cui poter scaricare le proprie parti non volute.

Occorre ora aggiungere un ammonimento. Un terapeuta che sia riuscito a contenere le identificazioni proiettive del paziente nel Secondo Stadio sentirà la crescita della capacità di ritenere pensieri e sentimenti dello stesso paziente. Quest’ultimo, dotato di una pi¨ vasta capacità di fare esperienza nel Terzo Stadio, solo debolmente riconoscerà se stesso come l’autore e il contenitore dei sentimenti e dei pensieri che lo terrorizzano. E’ possibile che questo sviluppo determini tentativi di autodistruzione, attraverso tentativi di suicidio fatti con determinazione e sovente portati a termine, oppure attraverso attacchi violenti contro altri tutte le volte che la proiezione è preponderante. Il suicidio o lo scoppio di violenza avvengono spesso in maniera improvvisa perchè il terapeuta ha motivo di pensare che il paziente stia meglio, cosa che in notevole misura è vera. In questa fase del trattamento si procede lungo un’impercettibile spartiacque tra la repressione dell’opportunità del paziente di fare esperienza e il rischio di vederlo sopraffatto e commettere azioni violente o suicide, allo scopo di porre fine proprio a quella stessa esperienza.

Lo stadio del pensiero simbolico

Verso la fine del secondo anno di terapia, Phil viveva una riduzione dei blocchi, delle allucinazioni uditive, dell’ideazione paranoie e grandiosa e degli stadi confusionali. Sembrava avere recuperato quella relativa calma che aveva caratterizzato le prime fasi del trattamento. Non dava l’impressione di essere in conflitto con se stesso, come quando aveva manifestazioni sintomatiche. Si aveva la sensazione che Phil fosse ora nella condizioni di notare maggiormente il mondo esterno se decideva di farlo, anche se in questo senso sembrava molto riluttante. Durante le sedute egli rimaneva sovente sdraiato sul pavimento senza dire nulla e mostrando di desiderare con impazienza la fine degli incontri. A volte sembrava preoccupato o in ansia per qualcosa e, quando gli si chiedeva la ragione, diceva di non volerne parlare. Una volta disse: ‘E’ una cosa troppo segreta. Sacra. Non so. Ho appena deciso di non parlarne’. Phil sembrava esprimere per la prima volta delle scelte; sceglieva di non pensare ai suoi sentimenti e di non parlarne.

Durante questa fase, il trattamento assunse un modello definito. Ci furono incontri sporadici in cui Phil riusciva a pensare in modo chiaramente nuovo, ma a questi incontri seguivano settimane o mesi di torpore e di silenzio, durante i quali la sintomatologia psicotica si poteva intensificare; Nelle sedute caratterizzate dall’insorgere di una nuova forma di pensiero, Phil poteva non solo pensare, ma anche osservarsi mentre pensava: in effetti, il primo argomento su cui riflettè, all’inizio, fu proprio il suo stesso pensare. Sia lui che il terapeuta erano meravigliati, e a volte rallegrati, quando pensava a qualcosa in maniera che riflette l’idea che i pensieri possono essere utilizzati per comprendere l’esperienza e che non sono soltanto cose pericolose da espellere o da mutilare. Eppure i suoi primi pensieri erano espressioni della paura che provava per il pericolo costituito dal suo stesso pensiero. Parlava di sè definendosi stupido, idiota, ritardato e aggiungeva: ‘Se mai mi venisse un’idea camminando per la strada, qualcuno si avvicinerebbe e mi darebbe un pugno in un occhio’. Il terapeuta la intese come una rappresentazione simbolica dei sentimenti conflittuali di Phil che riguardavano il desiderio di attaccare la propria capacità di pensare. Più tardi, nella medesima seduta, Phil pensò chiaramente a ciò a cui doveva rinunciare dal momento che stava diventando un uomo, e anche alle responsabilità e ai problemi interpersonali con cui avrebbe dovuto lottare. Ne concluse che ‘se cresci, ti vai solo a cercare dei guai’.

Le nuove capacità simboliche erano anche riflesse nei giochi, che fecero la loro prima comparsa in quel periodo. In una seduta, Phil puntò il dito contro il terapeuta, come se fosse una pistola, e intimò: ‘Mani in alto’. Il terapeuta alzò le mani. Phil poi ordinò: ‘Non dica nulla e non pensi neppure nulla. Intendo mai!’. Quello che Phil aveva manifestato un tempo attraverso l’identificazione proiettiva violenta descritta nel Secondo Stadio, poteva essere ora detto e drammatizzato con il gioco. In entrambi i casi, stava tentando di affrontare la percezione o il ricordo di uno stato interiore privo di pensieri e di parole e il desiderio di liberarsi di questo vissuto forzandolo nel terapeuta. Nel Quarto Stadio l’esperienza di una fase non verbale può essere rielaborata, utilizzando i simboli del gioco verbale e della drammatizzazione.

Phil tentò di celare a se stesso e al terapeuta l’emergere della capacità di formulare pensieri simbolici. I lunghi periodi di torpore che seguivano alle sedute ‘lucide’ erano caratterizzati da un tono esagerato, rispetto al tono primitivo, proprio come un tempo. La flatulenza di Phil, sdraiato sul pavimento dello studio, sortiva un effetto teatrale umoristico, sul quale si sarebbe potuto scherzare. In una di queste sedute il terapeuta disse: ‘Penso che si stia impegnando veramente molto per convincermi che è stupido’. Phil quindi chiese: ‘Che cosa vuol dire stupido?’. Per un certo verso stava chiedendo che cosa significasse il fatto di non riuscire a pensare, ma principalmente stava ‘semi-deliberatamente’ (Erikson, 1978) superando se stesso, dicendo di essere tanto stupido da non conoscere neppure il senso di questa parola.

I discorsi e il comportamento di Phil indicavano che si accorgeva delle cose in modo diverso e che soprattutto notava se stesso e le sue relazioni con gli altri. Iniziò a esprimere giudizi sui vestiti del terapeuta e fece il possibile per diventare abbronzato dopo avere notato che il terapeuta lo era. Faceva imitazioni del terapeuta per gli altri pazienti. Ma, fatto ancora più importante, Phil rivelò indirettamente di vivere la sua maggiore capacità di parlare, pensare e giocare, come qualcosa che lo faceva simile al terapeuta.

Quando iniziò a pensare e a parlare delle sue idee e delle fantasie, che agli inizi di questo stadio furono tenute segrete, introdusse regolarmente la modalità di svuotare di significato ciò che aveva appena detto. Per esempio, in una seduta disse che passava moltissimo tempo ad immaginare di essere un direttore dispotico del Centro Spaziale Kennedy. Continuò quindi a ripetere questa idea mille volte come fosse una cantilena. Questo tipo di ripetizione aveva l’effetto di ridurre la fantasia al livello di una serie di suoni privi di significato, allo stesso modo in cui si può svuotare di significato una parola ripetendola continuamente. Altre volte Phil esprimeva un’idea e poi non ne faceva più parola. Se il terapeuta gli chiedeva qualcosa in merito, si comportava come se non avesse mai detto nulla. Frequentemente Phil diceva qualcosa, ma poi lo sviluppava al limite dell’assurdo, in modo da perdere completamente l’idea originaria. Naturalmente la ripetizione a mo’ di cantilena, il disconoscimento di un’idea la sua elaborazione per assurdo, avevano tutti un loro significato, ma questo nuovo significato serviva a spogliare l’idea del suo senso originario.

Quando Phil fu in grado di pensare e ricordare le sue esperienze, iniziò a sentirsi senza valore e sconfitto di fronte ai suoi molti fallimenti. In particolare emerse un senso di disperazione per la sua incapacità ad avere idee su cosa voleva essere, su come volesse vivere, sul tipo di persona che desiderava diventare. Diceva che i medici erano impotenti nell’aiutare una persona se gli era stato ‘frantumato’ il cervello, perchè ‘non avrebbero potuto sapere quali pensieri il cervello avrebbe dovuto pensare, nel caso che avessero potuto rimetterlo insieme’. Qui Phil stava utilizzando simboli verbali per rappresentare l’idea che la terapia in una qualche misura l’aveva rimesso insieme, ma che questa era una vittoria vuota se lui non sapeva che cosa pensare.

Il tema della forma senza contenuto apparve e riapparve durante questa fase del trattamento. Phil parlava del fatto che non riusciva a capire come le persone potessero rimanere sposate per anni, quando non sembravano mostrare alcun affetto l’uno per l’altra. In una seduta, Phil parlò della sua difficoltà di pensare: ‘Mi sento catturato. Posso ignorare e spingere fuori dalla mia mente gli interrogativi sul tipo di persona che vorrei essere. Ma questo è essere codardi e stupidi, non essere responsabili. Potrei anche decidermi ad affrontare questi interrogativi, ma quando io mi pongo le domande non trovo le risposte’. Il terapeuta intese queste frasi nei termini di una riflessione da parte di Phil sulla sua capacità di evitare un’idea attraverso un rendersi inconsapevole (sopprimendola o rimuovendola). Phil sapeva bene che i pensieri possono essere ignorati, ma, in questo processo, nè il pensiero nè la realtà che esso rappresenta vengono eliminati o mutati. Era anche estremamente consapevole del fatto che celare a se stessi i propri pensieri è una forma autoimposta di limitazione e di stagnazione che, per certi versi, può essere utile, per altri può essere pericolosa.

La capacità del paziente di utilizzare simboli verbali e il livello di relazione oggettuale che abbiamo precedentemente descritto, era molto fragile ed estremamente soggetta a venire interrotta da eventi sia interni che esterni. La separazione dal terapeuta, per esempio, i suoi errori o il suo presunto tradimento (quando iniziava un trattamento con un nuovo paziente) costituivano tutti, in momenti diversi, motivo di regressione verso le antiche modalità di affrontare il conflitto schizofrenico. Le allucinazioni uditive incomprensibili, i blocchi, l’ideazione grandiosa e paranoide, i deliri, e gli stati confusionali (Terzo Stadio), furono eventi frequenti come lo furono i periodi di affidamento quasi esclusivo all’identificazione proiettiva usata come modalità difensiva di comunicazione e di relazione con l’oggetto (Secondo Stadio). Tuttavia, non riemerse uno stato psicologico in cui gli oggetti erano intercambiabili (Primo Stadio).

A un certo punto, durante la seduta in cui la sua capacità di utilizzare simboli verbali era relativamente stabile, Phil ricordò il corso della sua terapia: ‘Ora sono in grado di pensare. Prima non ci riuscivo. Ora che posso pensare, riesco anche a sapere a ciò a cui sto pensando’. Qui sono impliciti tre diversi tipi di stati mentali. Nel primo non riusciva per nulla a pensare (‘Prima non riuscivo a pensare’). Questo corrisponderebbe al Primo Stadio. Nel secondo sentiva di avere pensieri, ma non riusciva a pensarli, a creare nessi o a esserne consapevole. Questo corrisponderebbe al Secondo e Terzo Stadio. Nella terza fase, egli riusciva ad avere pensieri sui quali era in grado di riflettere. Questo corrisponde al Quarto Stadio.

Discussione

La teoria del conflitto schizofrenico descritta in questo capitolo è simile alla maggior parte delle formulazioni della psicoanalisi in materia di psicopatologia, in quanto propone una persona che tenta di trattare diversi raggruppamenti di percezioni, pensieri e sentimenti vissuti come significativi e, ad un tempo, tanto incompatibili e inconciliabili tra loro, che uno o più di uno di questi significati devono essere alterati, spostati, camuffati, disconosciuti, oppure rimossi dalla coscienza, separati dagli affetti e così via.

Questa nostra teoria del conflitto schizofrenico, comunque, va al di là di tutto questo, in quanto suggerisce che gli sforzi difensivi che lo schizofrenico fa per gestire i suoi pensieri, sentimenti e percezioni, possano esaurirsi. Quando questo si verifica, l’area del conflitto si sposta da quella in cui i significati sono riordinati in una relazione reciproca, a quella in cui l’intero sistema che ha a che fare con la creazione e gestione dei significati (i processi di percezione, la creazione dell’esperienza e l’atto del pensare) diventa il centro del conflitto. Lo schizofrenico attacca inconsciamente i propri pensieri, i propri sentimenti e le proprie percezioni, che considera una fonte infinita di dolore non affrontabile e in pi¨ un conflitto insolubile. Oltre a ciò, attacca la sua capacità di creare altra esperienza dolorosa. Alcuni aspetti di questa teoria corrono il grave rischio di creare un consistente pensiero reificato e antropomorfico, che potrebbe abbassarla al livello di un’attraente metafora. Tuttavia non è detto che ciò avvenga se abbiamo le idee chiare su ciò di cui stiamo parlando quando affermiamo che lo schizofrenico attacca la propria capacità di pensare e percepire, o i pensieri e i sentimenti di cui ha fatto esperienza.

Quando dico che lo schizofrenico attacca la sua capacità di pensare e percepire, non penso a un attacco fisico a un oggetto, in quanto i pensieri, i sentimenti e le percezioni sono fenomeni psicologici e non oggetti fisici. Mi riferisco piuttosto al fatto che una persona inconsciamente può impedire a se stessa di divergere l’attenzione su stimoli (interni ed esterni), può proibirsi di organizzare le proprie percezioni ed evitare di attribuire sensazioni e significato a quanto i sensi hanno registrato. Quando una persona continua a limitare se stessa in questo modo, le esperienze potenziali che vorrebbero determinare lo sviluppo della sua capacità di vivere, in modo più maturo, con le proprie percezioni, i propri pensieri e sentimenti, non ricevono il consenso per essere registrate, organizzate e meditate in modo significativo. Di conseguenza, le esperienze tipiche di un’età vengono perdute per sempre e così viene a mancare l’alimento per la crescita psicologica. Si sviluppa così uno stato apparentemente inerte, ma in realtà dinamicamente attivo di estrema limitazione psicologica, che io ho chiamato condizione prossima alla non-esperienza. Il conflitto per il mantenimento di questa condizione costituisce il nucleo del conflitto schizofrenico. Durante la risoluzione di questo tipo di conflitto, il paziente si permette progressivamente una sempre maggiore attribuzione di significato alle proprie percezioni. Tuttavia, quasi immediatamente dopo, lo schizofrenico riattiva la sua proibizione di fare esperienza e di pensare, attraverso l’espulsione dei pensieri nel rapporto interpersonale (Secondo Stadio) e ciò mediante blocchi, frammentazioni e distorsioni dei pensieri (Terzo Stadio) e, più tardi, spogliando di significato il pensiero simbolico (Quarto Stadio).

Un secondo aspetto della teoria del conflitto schizofrenico, al primo collegato, riguarda la natura dell’attività impiegata nelle fantasie. Nell’analisi degli stadi di risoluzione del conflitto schizofrenico, i pensieri e i sentimenti sono stati descritti come espulsi (Secondo Stadio), frammentati (Terzo Stadio) o spoliati (Quarto Stadio). Queste percezioni in parte riflettono le fantasie del paziente circa la propria esperienza psicologica. Per esempio, l’idea dell’espulsione dei pensieri sugli aspetti inaccettabili di sè, attraverso il rapporto interpersonale, rappresenta la componente della fantasia proiettiva propria dell’identificazione proiettiva. In fantasia un aspetto di sè viene messo in un’altra persona; oltre a questa fantasia, esiste la realtà di un’interazione interpersonale che permette sensazioni simili alle proprie siano vissute e gestite da un altro. Allo stesso modo, nel Terzo e Quarto Stadio, emergono fantasie di frammentazione (allucinazioni uditive ‘frantumate’ e parti bruciate del Sè) e di spoliazione (rappresentazioni mentali di cervelli vuoti senza pensieri o di matrimoni vuoti senza amore, in cui rimane solo la forma). Comunque, come nel caso dell’identificazione proiettiva, queste fantasie sono accompagnate dall’azione.

Il tipo di fantasia che il conflitto schizofrenico comporta, così come è stato descritto in questo capitolo, comprende sia la rappresentazione simbolica dei sentimenti, dei desideri e dei pensieri, sia un insieme di azioni (che abbiamo descritto come atti di autolimitazione), che si risolvono in cambiamenti che vanno al di là dell’area simbolica. In particolare, esistono mutamenti del Sè (o della ‘persona’, per usare la terminologia di Schafer, 1976) che si contrappongono ai mutamenti della rappresentazione di sè. Muta la capacità della persona di percepire, di far esperienza e di pensare e non semplicemente la rappresentazione che ha di se stesso come uno che ha queste capacità.

La stessa classe di fantasie viene impiegata nell’identificazione proiettiva; in questo processo la fantasia proiettiva si collega a una forma di azione che pure trascende l’area della mera rappresentazione; qui la pressione interpersonale riguarda un oggetto esterno reale e non soltanto la rappresentazione psicologica di quello stesso oggetto. Questi tipi di fantasie vengono chiamate fantasie di attuazione, per evidenziare esplicitamente la loro associazione con un tipo di realizzazione che oltrepassa l’area puramente simbolica e rappresentativa. Nel caso dell’identificazione proiettiva, l’insieme di azioni si realizza nell’area interpersonale delle relazioni oggettuali; quando siamo di fronte al conflitto schizofrenico, l’attuazione che accompagna la fantasia si attua nell’area delle capacità della persona di generare esperienza e pensiero.

Come abbiamo già sottolineato, la teoria psicoanalitica contiene poche concettualizzazioni che aiutano a collegare i fenomeni dell’area intrapsichica (i pensieri, i sentimenti e le fantasie) con quelli dell’area interpersonale (cioè le relazioni oggettuali con oggetti reali esterni, come qualcosa di distinto rispetto alle rappresentazioni psicologiche degli oggetti). L’identificazione proiettiva è uno di questi concetti ponte. C’è un’uguale scarsità di formulazioni analitiche capaci di aiutare a concettualizzare la relazione tra l’area delle rappresentazioni psicologiche (per esempio, pensieri e fantasie, oppure rappresentazioni oggettuali e di sè) e la persona che questi sentimenti, questi pensieri e queste fantasie è capace di pensarli e di viverli. La persona, con la sua capacità di percepire, di fare esperienze e di pensare, non è una fantasia, ovviamente, ed esiste al di fuori dell’area psicologica che queste facoltà aiutano a creare. Le capacità di far esperienza e di pensare esistono in interazione con i pensieri, i sentimenti e le fantasie.

Ora, sia i pensieri che i sentimenti, le percezioni e l’esperienza devono essere considerazioni costruzioni o prodotti, ma ciò implica che ci sia un produttore. La natura del rapporto tra questi prodotti e le capacità di sentire e pensare di una persona (in contrapposizione con le sue rappresentazioni) E’ fondamentale per la comprensione del conflitto schizofrenico, così come l’abbiamo teorizzato ed è espresso dal concetto di fantasia di attuazione.

Sino ad ora questa nozione, anche se non formulata come tale, è stata utilizzata principalmente a proposito del concetto di identificazione proiettiva per offrire un modo per comprendere l’interfacciamento tra l’ara intrapsichica e l’area interpersonale. Così abbiamo teorizzato un conflitto schizofrenico che comprenda una componente fantastica (desideri conflittuali relativi alla distruzione del pensiero, espressi nella rappresentazione fantastica), connessa, al di là dell’area rappresentativa, con l’effetto limite delle proprie capacità di far esperienza e di pensare. In questi termini, la concettualizzazione del conflitto schizofrenico rappresenta un’estensione dell’uso del concetto di fantasia di attuazione volta a indicare il rapporto tra l’area dei significati psicologici (quali desideri, motivazioni, sentimenti, fantasie, impulsi, eccetera) e l’area delle capacità della persona di generare significati psicologici.

 

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