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Altri mondi sono, ancora, possibili

di Aaron Pollack

per Nenè Criscione, in memoriam.

Alcune tessere nel nostro dialogo

( i suoi commenti qui mancano)

 

"Nessuno rimette veramente in discussione né il mercato né il capitale

dopo il crollo dell’esperienza socialista.

Questo sembra l’orizzonte insuperabile del nostro tempo"

(Latouche 2004 [2002]: 27)

"Dentro il capitalismo, contro il capitalismo"

(Negri 2004 [2002]: 54).

 

1. Autogoverno e pratica rivoluzionaria: resistenza e costruzione

Quasi un intero secolo fa - nel contesto mondiale di un capitalismo industriale imperialista in espansione, ancora non raggiunto da riforme né da rivoluzioni, e in un contesto locale che verso questo capitalismo transitava - Il Soviet dei Delegati degli Operai di San Pietroburgo esplose nel bel mezzo della prima Rivoluzione Russa, coniugando i primi sforzi di autogoverno con la pratica rivoluzionaria. Cento anni dopo, in un mondo dominato da un capitalismo ugualmente selvaggio e da un discorso giustificativo, ampliamente accettato, che ridicolizza ogni intento di creare o promuovere alternative, sono in costruzione nuovi tentativi diretti ad un autogoverno locale, che però rivelano una diversa comprensione della pratica rivoluzionaria. Le lunghe vicende dell’autogoverno e della pratica rivoluzionaria raramente si incrociano, ma quei punti di incontro creano nodi significativi che dovrebbero essere affrontati criticamente, e dovrebbero profondamente influenzare gli sforzi presenti e futuri di simile natura.

Una rivoluzione armata, che ad una componente della sinistra europea nel 1905 appariva non solo possibile ma anche inevitabile, appare adesso non solo improbabile — forse impossibile — ma anche indesiderata alla grande maggioranza di coloro che, in tutto il mondo, si collocano "a sinistra". Rivoluzione — sempre che la parola mantenga il suo significato — è più probabile si riferisca a cambiamenti radicali nel nostro pensiero, e forse nei nostri sistemi economici e politici, ma certo senza quell’implicazione di esplosione improvvisa e violenta che la parola mantenne per gran parte del ventesimo secolo. Le iniziative adesso in corso, che chiamerei rivoluzionarie, conducono con sé molte delle idee che comunità, teorici, attivisti e organizzatori sono riusciti a ritenere, sviluppare e, occasionalmente, realizzare, nel corso dell’ultimo secolo: forme democratiche radicali di decisionalità e formazione di reti che permettono autonomia ai diversi gruppi che le compongono, e insieme offrono una base di forza collettiva grazie alla creazione e il mantenimento, al loro interno, di alternative politiche ed economiche. Questi intenti nascono da una fecondazione incrociata— una ibridazione — che deriva in alcuni casi da esperienze locali molto solide, applicate ad altri luoghi, in modo simile a ciò che accadde alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando molte diverse organizzazioni politiche applicarono il modello dei Soviet (Gluckstein 1985), o a ciò che avviene oggi, quando molti Municipi, intorno al mondo, si ispirano all’esperienza del bilancio partecipativo di Porto Alegre, Brasile.

L’esperienza di Porto Alegre (Sousa Santos 1998; Baocchi 2001), con i suoi 15 anni di bilancio partecipativo e con il suo essere stata la prima anfitriona del World Social Forum, ha rappresentato un importante punto di riferimento per molti, tra cui alcuni dei partecipanti della Rete del Nuovo Municipio, che propongono e promuovono forme di controllo democratico su base locale, così come reti locali e regionali di produzione e consumo (Magnaghi 2004 [2002]). Queste proposte compaiono in un momento in cui si è iniziato a mettere severamente in questione quei fondamentali principi, ispirati all’idea di sviluppo, che durante gli ultimi sessant’anni hanno con forza influenzato il modo con cui collettivamente abbiamo immaginato il futuro.

Con la fine della Guerra Fredda non c’è più nessun bisogno di mantenere gli aspetti tipici dello stato assistenziale, promossi dallo sviluppo internazionale, che la competizione USA-URSS aveva prodotto, sicché il sistema globale di stati "sviluppisti" e post-coloniali è caduto in disuso, per essere sostituito da una forma di neo-colonialismo i cui caratteri sono determinati dai programmi di aggiustamenti strutturali e dai Marines. Lo stato che il secondo dopoguerra aveva immaginato capace di agire in rappresentanza della collettività è scomparso: le condizioni che avevano fatto di quella immaginazione una realtà (sia pure occasionale e parziale) non esistono più, mentre adesso la scala immaginaria per l’azione collettiva non è più lo stato ma il locale — o, per alcuni, il globale.

In parte a causa del mutato ruolo dello Sato in questo nuovo mondo perpetuamente in crisi, e in parte a causa del fallimento del "socialismo reale" e più ampiamente dello "sviluppo" (con le riflessioni critiche che ciò ha messo in moto), la pratica rivoluzionaria delle sinistre, in larga misura, ha allontanato la sua attenzione dal potere statale. Nel processo, la sinistra socialdemocratica (se questo nome può ancora applicarsi ai partiti politici che sostengono di continuare quella tradizione), diviene l’unica organizzazione politica, tra quelle che ancora si dirigono allo stato, con un programma vagamente progressista, ma insieme cessa di innalzare qualsivoglia bandiera associata ad una tradizione di sinistra, finendo, nel migliore dei casi, con il lottare per mantenere quel poco che resta di coinvolgimento dello Stato nelle politiche sociali. Il discorso e la pratica della rivoluzione sociale — cioè la ricerca e la realizzazione di alternative radicali all’attuale sistema capitalista - si sono trasferiti al livello del "locale". Addirittura, è solo a livello locale che le uniche alternative veramente radicali per il sistema globale sono discusse (Caille — Salsano 2004 [2002]). Non si discute di un cambio radicale centrato sullo Stato, ma piuttosto di reti di resistenza locale e di creazione di alternative locali economiche e politiche.

"Cosa hanno da dire i post-sviluppisti a una lavoratrice della maquila messicana che sta perdendo il lavoro perché il suo lavoro può essere sostituito più a buon mercato in una fabbrica cinese? ".

L’approccio localistico si relaziona anche con le critiche dei modi dominanti di intendere la direzione che al mondo, e a ciascuna sua piccola parte, dovrebbe essere impressa — critiche che vanno dalla inaccettabilità fisica e sociale della anonimità della moderna società, ai rischi fisici associati alla società industriale e cosiddetta post-industriale, alla più comune critica della sostenibilità ambientale del modello. Tali critiche, e la costruzione di forme politiche ed economiche alternative a cui possono dar vita, devono essere esaminate nel contesto, estremamente complesso, di una continua espansione e profondizzazione della modernità, dappertutto, e delle implicazioni che ciò comporta quanto al benessere, considerato sia nella sua compresione collettiva, sia nelle sue realtà materiali. Reti di produzione e consumo su base locale certamente sono esistite in molti luoghi, e continuano ad esistere; nuove reti simili nascono, sulla base della critica al capitalismo globale. Quali saranno i meccanismi concreti per 1) cambiare una economia industriale globale (e i mezzi di sostentamento che si organizzano intorno ai luoghi di produzione industriale) in una pratica industriale accettabile sia dal punto di vista ambientale che sociale o, al contrario, muovere da forme di produzione industriale a forme non-industriali e 2) cambiare i modi dominanti di intendere il "benessere" in modo da renderli socialmente e ambientalmente responsabili? Non voglio "sparare sull’utopista " (Sousa Santos 1994: 479) ma solo vorrei accompagnare, con alcune considerazioni, quanti stiano tentando di trasformare le utopie in proposte concrete, capaci di prendere in considerazione la ampiezza delle questioni che stanno sul tappeto.

Molte iniziative volte a proiettare reti di produzione e consumo locale e regionale vanno in questa direzione, in termini di costruzioni economiche che, parallelamente, prendono forma dentro il più ampio sistema capitalistico. Tra queste iniziative, comunque, non tutte mantengono quella pratica e quel discorso di resistenza al capitalismo che, in questo particolare momento, è necessario tenere ferme e promuovere. Se così non è, tali iniziative rischiano di divenire piccole isole di "benessere " in un mare di alienazione e di deprivazione materiale. Gli esempi che qui discuto sono stati scelti in base alla rilevanza che assumono nel dibattito sulla costruzione di iniziative democratiche parallele, e sono quindi stati interpretati attraverso un filtro che accentua proprio questi aspetti.

 

2. I Soviet in Russia

La rivoluzione bolscevica del 1917, collocandosi nel contesto della "guerra per porre fine a tutte le guerre" e nel momento in cui l’imperialismo europeo era al suo apice, sconvolse il mondo, come notò John Reed, non solo perché era la prima rivoluzione sociale europea del XX secolo, ma anche per il modo in cui i rivoluzionari russi e la sinistra europea (una entità presente nella prima e nella seconda Internazionale che, nonostante le notevoli divisioni, continuava a mantenere una identità definibile come tale) la presentavano: una rivoluzione e una forma di governo rivoluzionario basati su di un sistema di democrazia dei lavoratori. Questo ritratto, l’immagine e i simboli di una vittoriosa rivoluzione proletaria basata sulla modalità decisionale partecipativa di consigli di operai e soldati, fu una sorta di faro per i socialisti rivoluzionari di ogni foggia in gran parte d’Europa. In Germania, Gran Bretagna e Italia, la proposta di consigli di operai (e, a volte, di soldati) si diffuse, normalmente intrecciando l’idea di una maniera democratica di decidere nella fabbrica, o nel reggimento, con quella di un controllo democratico nella più ampia società. Nel 1920 la decisione del Gruppo Anarchico di Glasgow di ribattezzarsi Gruppo Comunista di Glasgow, per indicare affinità con la Rivoluzione Russa, dice molto su come la sinistra europea immaginava il sistema sovietico (Shipway 1988: xi).

I Soviet nel 1905

I Consigli degli Operai e dei Soldati (Soviet) che appaiono improvvisamente durante la Rivoluzione di Febbraio del 1917 derivano direttamente dall’esperienza dei Soviet della Rivoluzione Russa del 1905. Questi, a loro volta, si svilupparono dai primi soviet nati per coordinare in forma continua l’ondata di scioperi delle differenti industrie esplosa durante l’estate di quell’anno. Che queste città fossero dominate dai lavoratori industriali implicava che i comitati di sciopero, oltre a proiettare l’organizzazione degli operai al di là della fabbrica, creassero anche uno spazio di rappresentanza politica a livello municipale, allargando grandemente il suffragio, allora limitato, applicato nelle elezioni delle dume comunali.

A metà ottobre il fervore antiautocratico aveva raggiunto proporzioni rivoluzionarie, esprimendosi assai chiaramente in uno sciopero generale che interessò la maggioranza delle principali città russe, ottenendo appoggio non solo dai lavoratori industriali, ma anche da alcuni settori della borghesia: professionisti, dume municipali e persino alcuni industriali. Questo movimento di massa, mentre costringeva lo Zar a dichiarare pubblicamente l’impegno di riforme (che sarebbero state parzialmente realizzate e poi progressivamente ritirate negli anni successivi), spingeva i comitati di sciopero, seguendo il suggerimento del settore menscevico del Partito Social Democratico, a proclamare la formazione del Soviet dei Rappresentanti degli Operai di San Pietroburgo.

I soviet, organizzazioni di massa che si svilupparono in un contesto rivoluzionario e spesso senza intenzioni chiare, ma che nondimeno agivano come organismi di rappresentanza popolare, e a volte di governi municipali, erano decisamente controllati dagli operai organizzati (anche se influenzati, in grado di volta in volta diverso, dai vari partiti socialisti del momento). La natura democratica dei soviet, quindi, non discendeva da una presunta democraticità delle sue procedure interne, ma dalla loro capacità di rappresentare, letteralmente, un gruppo senza diritti, in questo caso la classe lavoratrice. Il Comitato Esecutivo, che prendeva la maggioranza delle decisioni (che sarebbero poi state ratificate dalla assemblea generale), era inizialmente composto di 22 membri, 14 scelti su base geografica (2 per ciascuno dei sette distretti della città), gli altri 8 scelti dai 4 maggiori sindacati. La rappresentanza su basi geografiche era importante almeno quanto la rappresentanza di una data fabbrica o reggimento (un dettaglio rilevante nelle presenti discussioni che riguardano il criterio di rappresentanza applicato ai processi partecipativi del bilancio, o gli attuali tentativi di democrazia radicale) ed è certo rivelatrice del peso che assumevano quelle tematiche che, non direttamente relazionate al lavoro, spesso non potevano essere risolte da organizzazioni che privilegiavano i lavoratori . Solo durante una seconda riunione, e dopo una certa discussione, il Soviet decise di invitare due membri di ciascuno dei partiti socialisti attivi (Menshevichi, Bolscevichi e Socialisti Rivoluzionari) a far parte del Comitato Esecutivo (Anweiler 1974 [1958]: 52-3).

Benché il Soviet di San Pietroburgo funzionasse all’inizio come un esteso comitato di sciopero, il suo manifesto di fondazione dichiarava che era stato formato con il fine di "rappresentare gli interessi dei lavoratori di San Pietroburgo di fronte al resto della società ", finendo a un certo punto, insieme ad alcuni altri soviet provinciali, con l’assumere alcune funzioni di governo (Anweiler 1974 [1958]: 58). Il Soviet di San Pietroburgo iniziò ad operare proprio quando le citate riforme dello zar erano state annunciate, risultando indebolito dalle divisioni che ciò aveva creato nel movimento. In dicembre le forze zariste avevano messo termine alla rivoluzione e ai soviet, ma non al loro impatto sul futuro lavoro di organizzazione. Durante i pochi anni successivi la sinistra, russa (Menshevichi, Bolscevichi, Socialisti Rivoluzionari e Anarchici) e non solo russa (Luxemburg 1906: 205-207 [citato in Gluckstein 1985: 212]), riconobbe l’importanza dei soviet, sia come spazi per l’organizzazione democratica dei lavoratori sia come corpi rivoluzionari.

I Soviet nel 1917

Appena prima della Prima Guerra Mondiale, gli scioperi in Russia avevano raggiunto il livello del 1905 e, benché la guerra all’inizio avesse ridotto le tensioni, nel 1915 le richieste dei lavoratori — tra di esse quella di porre fine alla guerra - iniziarono nuovamente ad aumentare. Come risposta, il governo zarista promosse la creazione di comitati di industria di guerra a livello cittadino, e un comitato centrale di industria di guerra a San Pietroburgo (adesso Pietrogrado). In ciascun comitato era prevista la presenza di gruppi di operai eletti nelle fabbriche, i quali, dopo una lunga discussione interna sulla partecipazione o meno, risultarono prevalentemente Menshevichi di destra, il cui gruppo aveva appoggiato la partecipazione. I gruppi operai presentarono domande salariali e trattarono temi quali l’aumento dei prezzi, la carenza di abitazioni e la disoccupazione; ma le elezioni, e i gruppi operai in sé, offrirono anche un’ampia opportunità di discussione aperta e legale di più vaste questioni politiche — uno spazio organizzativo prima assente. A questo punto l’idea di creare un soviet cittadino e — tra i Bolscevichi — un Soviet di Tutte le Russie, fu discussa ma mai realizzata. Alla fine del 1916 il gruppo centrale degli operai si era radicalizzato al punto di convocare l’elezione di comitati di fabbrica, la fine dell’autocrazia, democratizzazione e una piattaforma di pace che il proletariato russo e di altre nazioni potesse accettare (Anweiler 1974 [1958]: 101). Il governo rispose con arresti, provocando dimostrazioni di massa in Pietrogrado che agirono da detonatore per la Rivoluzione di Febbraio.

Arrestati e in seguito rilasciati, membri del gruppo centrale degli operai, insieme a membri socialisti della duma, si nominarono Comitato Esecutivo del Soviet dei Rappresentanti degli Operai di Pietrogrado e convocarono riunioni iniziali con i delegati eletti. Il Soviet di Pietrogrado formalmente condivideva il potere statale con il Governo Provvisorio (un organo preminentemente borghese che ereditava ciò che restava del governo e delle burocrazie zariste), tuttavia, godendo dell’appoggio dei soldati, esercitava il potere reale. In realtà, nei primi giorni di negoziati tra il Governo Provvisorio e il Soviet di Pietrogrado, quest’ultimo non scelse né di esercitare da solo il potere, né di partecipare direttamente al Governo Provvisorio.

Tra Febbraio e Ottobre, mentre le fabbriche venivano espropriate dagli operai e la terra dai contadini, i soviet apparvero come funghi, con stime di 400 consigli di operai, soldati e contadini in maggio, 600 in agosto e 900 in ottobre (Anweiler 1974 [1958]: 113). Operai, partiti, soldati o membri dei "gruppi di operai " crearono i soviet locali in tutta la Russia, mentre le comunità rurali tendevano ad organizzarsi in comitati della terra con il compito di realizzare espropri, piuttosto che in forma di soviet formali — specialmente perché i già esistenti consigli di villaggio rendevano spesso i soviet superflui. I soviet di operai e soldati a volte confluivano, a volte restavano separati, mentre i soviet contadini raramente si mescolavano con gli altri. A Pietrogrado, così come a Mosca, i distretti della città formarono i loro propri soviet, con i loro organismi esecutivi e le loro commissioni. Ciascun soviet sceglieva la propria forma di organizzazione e la proporzione di delegati di operai e soldati, dando luogo a forme ampiamente disparate da una città o guarnigione all’altra. I soviet provinciali, spesso formati originalmente come affermazioni locali a sostegno della rivoluzione, funzionavano come fortificazioni contro le forze reazionarie e solo in un secondo momento assunsero il ruolo di governo locale nel vuoto creato dal collasso zarista. Mentre nelle citta maggiori i soviet esercitavano un notevole potere, la loro forza relativa nelle province, condivisa con quella del Governo provvisorio o con le duma municipali, dipendeva dalla organizzazione degli operai a livello locale o dalla presenza di una guarnigione militare.

La traiettoria dei soviet, almeno fino a luglio, tendeva ad una radicalizzazione della base e ad una burocratizzazione della leadership, mentre quest’ultima acquistava un ruolo sempre più significativo dentro il Governo provvisorio. La massa degli operai e dei soldati chiedeva la fine della guerra, e i contadini chiedevano la distribuzione della terra: il Governo Provvisorio e la leadership eletta dal soviet, in gran parte Menshevichi e Socialisti Rivoluzionari, non sostenevano attivamente queste richieste (Read 1996), sicché, diventando la divisione tra la base e i dirigenti sempre più evidente, aumentava la forza del discorso, più radicale, dei bolscevichi, soprattutto tra i comitati di fabbrica, che da tempo stavano lottando per il controllo operaio delle fabbriche, non attraverso lo Stato — come i menshevichi proponevano — ma in forma diretta. Per i bolscevichi il sostegno di questa richiesta, più vicina alle proposte anarchiche e sindacaliste, si sarebbe convertito in un notevole problema più tardi, con l’approssimarsi della pianificazione economica centralizzata.

Gli avvenimenti in Russia furono tali che mai l’esperienza dei soviet fiorì fuori da un contesto rivoluzionario, però le caratteristiche essenziali di questi tentativi di autogoverno permettono un’analisi che apre a considerazioni più ampie: i soviet, eletti democraticamente, erano organismi di autogoverno con base locale (a volte derivavano da unità produttive o militari, a volte si creavano in base ad una distribuzione geografica), con responsabilità che riguardavano la produzione e la distribuzione, l’amministrazione locale e la coordinazione con gli altri soviet per le decisioni collettive. Il fatto che i partiti spesso considerassero i soviet solamente come organi della rivoluzione non può cancellare il loro ruolo che, nei fatti, fu quello di governare a livello locale - certo quel ruolo divenne impossibile una volta stabilita la direzione centrale dell’Unione Sovietica.

3. La diffusione dell’idea del soviet

L’ idea del soviet, il "consiglio", come strumento alternativo decisionale, più democratico nella sua essenza del sistema parlamentare, viaggiò rapidamente dopo la Rivoluzione di Febbraio e ancora più dopo quella d’Ottobre, cambiando di significato e adattando la sua pratica alle particolarità locali. In Germania, Gran Bretagna e Italia, diversamente che in Russia, partiti riformisti riconosciuti e sindacati agirono da intermediari tra i lavoratori organizzati e lo Stato. In Germania e Gran Bretagna questi attori avevano stretto alleanza con i governi nazionali a sostegno della guerra, frantumando il patto della Seconda Internazionale, mentre in Italia il Partito Socialista ufficialmente decideva di non aderire né sabotare. In tutta Europa, come in Russia, la guerra significava riduzione dei salari reali, peggioramento dell’alimentazione e morte dei soldati inviati al fronte. La posizione contraria alla guerra dei nuovi governi russi, risultato della rivoluzione di febbraio e, specialmente, di ottobre, aggiunse soltanto lustro al profilarsi di una rivoluzione socialista, specialmente una basata su forme consiliari di governo.

I Comitati degli Operai e l’organizzazione contro la guerra in Gran Bretagna, 1915-1918

A causa dell’alleanza di guerra tra i governi e i sindacati, i lavoratori si trovavano spesso senza adeguata rappresentanza per le loro richieste. A Glasgow nel 1915 un gruppo di delegati di officina socialisti creò il Comitato degli Operai di Clyde, all’inizio poco più che un comitato di sciopero, per affrontare le questioni lavorative che, nelle speciali circostanze di una produzione di guerra, i sindacati rifiutavano di trattare (Gluckstein 1985: 65). Il comitato era evidentemente informale, e i delegati di officina, insieme ad altri lavoratori fortemente motivati, si incontravano una volta alla settimana per discutere problemi e rivendicazioni. Nel novembre del 1915 il comitato così si descriveva: "Poiché siamo i Delegati di tutte le officine e siamo liberi dalle zavorre di regole e leggi obsolete, affermiamo di rappresentare i reali sentimenti dei lavoratori. Noi possiamo agire con immediatezza, secondo l’importanza del caso e il desiderio della base". In questo primo pamphlet, il Comitato di Clyde proclamava la propria capacità di agire, senza il consenso del sindacato, quando fosse il caso — cosa che si avviava a divenire una necessità, poiché l’azione sfidava le limitazioni che il Munitions Act poneva alle organizzazioni del lavoro durante la guerra. In questo contesto, il Comitato rifiutò, tacciandole di attacco ai diritti di tutti i membri del sindacato, le proposte del governo di una "diluizione" intesa a sostituire gli operai specializzati con operai senza qualifica o parzialmente qualificati, giustificate come strumento di riduzione dei costi della produzione bellica. Il Comitato si disse d’accordo con la diluizione, a patto che il governo nazionalizzasse tutte le industrie e le risorse nazionali — dando alle organizzazioni del lavoro il 50% del controllo manageriale dell’industria. (Gluckstein 1985: 72). Questa richiesta tanto radicale (e — verrebbe di dire — decontestualizzata) aveva lo scopo di rendere visibile le vere intenzioni, naturalmente legate al profitto, della politica della "diluizione". Il conflitto terminò con la messa al bando del giornale del Comitato e l’allontanamento forzato dalla città di alcuni leader, che ritornarono l’anno successivo e ricostituirono il Comitato.

Alcuni membri del Comitato di Clyde parteciparono alla Convenzione di Leeds, convocata nel 1917 dal Partito Socialista Britannico e dal Partito Indipendente del Lavoro, appoggiandone le richieste di fine della guerra e creazione di consigli di operai e soldati in tutta la Gran Bretagna (Slatter 1996). La conferenza raccolse 1150 delegati, ciascuno dei quali rappresentava 5000 persone, ma le riunioni a livello di distretto, che sarebbero dovute seguire per iniziare a formare i consigli, si scontrarono con la repressione, che mise fine al tentativo. L’importanza dei soviet come forma di organizzazione era nondimeno palpabile e i consigli operai furono ripresi da alcuni gruppi della sinistra, che li promuovevano come alternativa al sistema parlamentare. L’attività di questi comunisti favorevoli ai consigli sarebbe continuata, sia pure debolmente, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in opposizione sia al Partito Comunista della Gran Bretagna, sia al Partito Laburista (Shipway 1988).

Nel febbraio del 1919 il Comitato di Clyde proclamò uno sciopero richiedendo la settimana lavorativa di 40 ore come strumento per ridurre l’aumento della disoccupazione che accompagnava la fine della guerra. Il movimento iniziò a diffondersi attravero la Scozia e il giornale del Comitato dichiarava: "Noi, "Bolscevichi Britannici" abbiamo come guida il precedente russo, e crediamo che nelle ore critiche della nostra propria rivoluzione il grido dei nostri raduni sarà "Tutto il Potere ai Comitati degli Operai"" . L’esercito occupò velocemente Glasgow e il movimento cercò sostegno altrove in Gran Bretagna; ma se inizialmente si ebbero manifestazioni di solidarietà, il sindacato nazionale dei metalmeccanici tradì il movimento, sospendendo i comitati distrettuali di Glasgow, Belfast e Londra, mentre uno sciopero di solidarietà, promesso dai lavoratori elettrici di Londra, fu cancellato in seguito alle pressioni del governo. Con il fallimento di questo sciopero termina la storia del Comitato di Clyde, però la sua organizzazione mutuata dai soviet, prima e dopo la rivoluzione del 17, mostra l’ampiezza della formazione e del discorso politico del tempo. La rapida adozione del nome di "consigli di operai e soldati" e la ripetizione dello slogan "Tutto il potere ai soviet" mostrano pure l’impatto della rivoluzione russa e dei consigli nella Gran Bretagna del tempo.

I Consigli Operai e la rivoluzione in Germania, 1918

La formazione dei consigli degli operai e dei soldati in Germania indica la maniera in cui il discorso politico dei societ viaggiò in Europa e si è modificato per rispondere alle particolarità di un contesto locale. In Germania i consigli degli operai erano essenzialmente la forma popolarmente scelta — o comunque accettata — di mettere fine alla guerra e al governo del Kaiser, attraverso quella che si sarebbe potuta configurare come una rivoluzione liberale. Gli obiettivi e l’eventule impatto dei consigli in Germania erano ampiamente contenuti nelle richieste presentate dal Consiglio degli Operai di Leipzig nell’aprile del 1917. Questo primo consiglio si formò per dirigere uno sciopero di dimensioni cittadine messo in moto da una dimostrazione di donne per il pane, la cui razione era stata decurtata dal governo centrale. Simili scioperi si diffusero in molte città tedesche, e presto vari consigli si formarono anche in alcune fabbriche di Berlino. Il Consiglio agiva in rappresentanza di tutti gli scioperanti, portando avanti una piattaforma (che in seguito sarebbe stata fatta propria da altri consigli), di richieste politiche ed economiche, quali un aumento nella razione alimentare, la fine delle leggi del lavoro di guerra obbligatorio, una pace senza annessioni (facendo eco alla richiesta dei russi), libertà per i prigionieri politici, la fine della censura e la convocazione di elezioni libere (Staude 1968: 289).

Nel corso del gennaio 1918, durante i colloqui di pace russo-tedeschi a Brest-Litovosk, un’ondata di scioperi attraversò gli Imperi Centrali, da Budapest a Vienna a Berlino, appoggiando le proposte di Trotsky di una pace senza annessioni né indennizzi. A Berlino, per la prima volta in Germania, si organizzò, prima di uno sciopero, un consiglio operaio, che si mantenne fedele alle richieste avanzate l’anno precedente a Leipzig. Il governo del Kaiser rispose con una severa repressione, spedendo al fronte un gran numero di lavoratori prima esenti, molti dei quali divennero agitatori, fraternizando con i soldati russi e diffondendo propaganda pacifista (Staude 1968: 294).

Alla fine del 1918 il sentimento pubblico contro la guerra era cresciuto, mentre l’Ambasciata Russa e le organizzazioni della sinistra comunista davano a conoscere l’esperienza dei consigli operai russi. Quando, il 2 di novembre, nonostante il voto per la pace del Reichstag (estate del 1918) e il riconoscimento dell’impossibilità di una vittoria tedesca per ammissione dello stesso Alto Comando Tedesco (fine di settembre), gli ammiragli ordinarono ai marinai di Kiel di salpare, questi rifiutarono e iniziarono a diffondere rapidamente la rivolta in tutta la Germania, creando sulla loro scia, nel corso dei dieci giorni successivi, un succedersi di consigli di operai e soldati che, espressione soprattutto del sentimento popolare contro la guerra e contro il potere del Kaiser, erano quasi del tutto privi di qualunque funzione di governo. E’ vero che alcuni consigli si dichiararono autorità locale, e che varie città maggiori organizzarono consigli operai vicini al modello di democrazia di massa, dove ciascun delegato rappresentava un certo numero di lavoratori, ma davvero pochi furono i consigli che realmente intendessero lavorare per la radicalizzazione della rivoluzione. L’11 di novembre le pressioni continue dei consigli avevano cacciato il Kaiser e messo fine alla guerra.

Tra il novembre 1918 e il gennaio dell’anno successivo, il potere statale era diviso e disputato — come era avvenuto in Russia — tra il Governo Provvisorio e i consigli degli operai e dei soldati. Nonostante gli sforzi degli Spartakisti e dei rappresentanti di officina, la maggioranza degli operai seguiva la linea contraria ai consigli degli operai e dei soldati, aderendo alle proposte, dirette a rafforzare il potere parlamentare, del riformista Partito Social Democratico (SPD), che aveva pienamente collaborato con gli sforzi bellici (Gluckstein 1985: 120-161).

L’esperienza tedesca dimostra chiaramente l’impatto della rivoluzione russa e dei soviet non solo sulla sinistra, ma anche sulla popolazione tedesca in generale, che si appropriò dei soviet russi come esempio non di una democrazia consiliare ma del potere che potevano esercitare. Giungendo in Germania, l’idea dei consigli di operai e soldati aveva cambiato significato, ed essi erano divenuti semplicemente il meccanismo appropriato per rovesciare il sistema vigente, piuttosto che uno strumento di creazione della rivoluzione socialista.

Controllo operaio e democrazia operaia a Torino, 1919-1920

La rivoluzione in Italia era incombente — almeno questa era l’opinione diffusa durante i due anni che seguirono la fine della guerra; i consigli operai avrebbero bene potuto dirigerla — ma solo sotto condizioni differenti. A Torino, la maggiore città industriale d’Italia, cresciuta enormemente (come Berlino, Pietrogrado e Glasgow) durante i decenni precedenti, soprattutto grazie ad una recente immigrazione, esisteva un movimento operaio forte e indipendente, con una lunga (in relazione alla recente industrializzazione della città) storia di combattività. La forza degli operai organizzati a Torino erano le commissioni interne delle fabbriche metalmeccaniche, protagoniste dei due scioperi del 1912 e 1913. Lo sciopero del 1912, diretto principalmente a questioni relazionate con il controllo operaio e organizzato dagli anarchici, fallì dopo 73 giorni. L’anno successivo uno sciopero vittorioso di 93 giorni, organizzato dalla Federazione Italiana Operai Metalmeccanici (FIOM), aveva diretto l’attenzione agli aspetti rivendicativi economici, pur senza perdere di vista la tematica del controllo operaio (Levy 2000: 245-246).

Nel 1919 —20 Gramsci, insieme ad altri militanti dell’ Ordine Nuovo, iniziò ad immaginare un sistema di produzione e distribuzione "globalizzato" (o, per lo meno, "europeizzato"), controllato dai produttori e basato sul ruolo delle Commissioni Interne, convertite in Consigli di Fabbrica: "Il carbone inglese si incontrerà con il petrolio russo, il grano siberiano con lo zolfo siciliano, il riso di Vercelli con il legname della Stiria... in un organismo unico, soggetto alla amministrazione internazionale che governa la ricchezza del mondo nel nome dell’umanità tutta. In questo senso il Consiglio di Fabbrica Operaio è la prima cellula di un processo storico la cui fine sarà l’Internazionale Comunista " (Gramsci 1974 [1920]: 8-9). Quest’idea trovò un suolo fertile a Torino, grazie alle correnti anarchiche e libertarie, da lungo tempo presenti nell’ambiente culturale dei lavoratori torinesi, e all’impegno attivo degli anarchici e dei sindacalisti dentro la FIOM e l’ Unione Sindacale Italiana (USI). Oltre ai consigli di fabbrica, Gramsci teorizzava anche la creazione di comitati di rione che dessero a un corpo di lavoratori eletti un ruolo di direzione anche fuori dalla fabbrica, su di un territorio specifico: il comitato di rione "dovrebbe essere emanazione di tutta la classe lavoratrice abitante nel rione, emanazione legittima e autorevole, capace di fare rispettare una disciplina investita del potere, spontaneamente delegato, ed ordinare la cessazione immediata e integrale di ogni lavoro in tutto il rione. " (Gramsci 1919).

A Torino i consigli operai emersero con forza negli anni 1919-20 attraverso alcuni cambiamenti nelle regole di organizzazione dei lavoratori nelle fabbriche: per potere evadere il controllo delle commissioni interne da parte del sindacato, rappresentanti sarebbero stati eletti in ogni officina, piuttosto che a livello di fabbrica, come si era fatto prima; inoltre, tutti i lavoratori, membri sindacali e non, avrebbero potuto votare (ma solo i primi essere eletti) (Gluckstein 1985: 185). La proposta iniziale gramsciana collocava i consigli operai in una lotta molto più ampia, su di uno sfondo nazionale e internazionale, però in pratica i consigli inizialmente concentrarono l’attenzione solo sul controllo operaio della produzione e della fabbrica. Gramsci sosteneva che un completo controllo delle fabbriche da parte dei lavoratori li avrebbe formati all’esercizio delle loro capacità, conducendo quasi inevitabilmente a un controllo operaio capace di andare ben oltre la fabbrica e occupare l’arena politica, finendo pertanto col creare uno Stato basato sui consigli operai — cioè direttamente controllato dai produttori della ricchezza. In questa visione utopica di Gramsci, i sindacati ed i partiti avevano il ruolo di creare le condizioni che avrebbero permesso la realizzazione della rivoluzione, e lo sviluppo del sistema descritto.

Nel giugno del 1919, il PSI torinese era stato guadagnato all’idea dei consigli di fabbrica, e in ottobre delegati del movimento consiliare furono eletti nella sezione torinese della FIOM, mentre pochi mesi dopo la Camera del Lavoro, in un incontro generale di rappresentanti sindacali, appoggiò il movimento. La forza del movimento crebbe, e il suo potenziale impatto sulle politiche nazionali divenne visibile quando, il 3 di dicembre, fu in grado di mobilitare 120.000 operai nello spazio di un’ora, per protestare contro l’aggressione fisica di parlamentari socialisti da parte di nazionalisti. Ma per questa data sia il PSI sia la FIOM avevano iniziato ad opporsi all’idea dei consigli operai, criticando la partecipazione dei non sindacalizzati nelle elezioni dei delegati di officina e appropriandosi della tematica dei "soviet", sia in fabbrica, sia nell’arena politica (Gluckstein 1985: 192). Queste posizioni, insieme a quelle di Bordiga, impedirono che l’idea dei consigli operai si diffondesse fuori di Torino.

Nel marzo del 1920 Gramsci, insieme con i bordighisti torinesi, presentò con chiarezza la necessità che i consigli operai si organizzassero insieme al partito, con il fine di promuovere una rivoluzione sociale in Italia. Per quella data Gramsci aveva abbandonato la posizione secondo la quale i consigli, per e in se stessi, potevano provocare la rivoluzione: essi tuttavia avrebbero fornito il sostegno di massa necessario per la sua realizzazione e il materiale di base per la creazione della società post-rivoluzionaria. In marzo e aprile scoppiò uno sciopero, provocato dai proprietari della FIAT, che riguardò non solo gli operai della città di Torino ma anche lavoratori agricoli e contadini delle aree vicine: 500.000 scioperanti, più o meno. La città fu paralizzata per 11 giorni. Eppure, fuori dal Piemonte, l’unico sostegno agli scioperanti venne non dal PSI o dai sindacati, ma dagli anarco-sindacalisti che, per la loro stessa struttura organizzativa, potevano agire fuori dalla burocrazia sindacale. Lo sciopero finì con l’occupazione militare di Torino e il negoziato di una piattaforma favorevole ai proprietari, un esito che anticipava il fallimento delle occupazioni di fabbrica nelle principali città industriali del settembre dello stesso anno. Il destino di queste occupazioni sembrava segnato fin dall’inizio: l’incredibile forza degli operai organizzati, evidentemente pronti per una rivoluzione sociale, finì nel nulla a causa della assenza di organizzazione e lavoro preparatorio da parte di coloro che erano nella posizione per intraprenderla.

E’ difficile valutare i consigli operai torinesi fuori da una prospettiva rivoluzionaria: vennero alla luce quando una rivoluzione politica era una seria possibilità e, d’altra parte, sotto diverse condizioni, avrebbero ben potuto essere uno strumento appropriato per la rivoluzione in Italia. Ma anche lasciando da parte il loro ruolo in una potenziale rivoluzione, i consigli torinesi mostrarono una grande capacità di organizzare la produzione democraticamente dal basso; mostrarono anche — in misura minore — capacità di rappresentanza politica. Il fluire degli eventi — ricorrere all’esperienza locale e internazionale per creare una nuova prassi, ma alla fine fallire negli obiettivi ultimi, per l’incapacità di creare reti esterne che includano altri luoghi — merita d’essere considerato molto attentamente in tutte quelle pratiche attuali che si intraprendano "dentro il capitalismo, contro il capitalismo" (Negri 2004 [2002]: 54).

4. Produzione, consumo e guerra: la Spagna repubblicana, 1936-39

Durante la guerra civile la Spagna repubblicana sviluppò forme alternative di organizzazione sociale, politica ed economica, attraverso sindacati, unioni d federazioni di collettivi. Le fabbriche della Catalogna, Levante, Asturie, Aragona e Castiglia erano autogestite dagli anarco-sindacalisti e/o da sindacati socialisti, mentre nelle aree rurali della Repubblica si formava un numero di collettivi calcolato tra 1500 e 1900. Circa un terzo della terra arabile della Spagna repubblicana fu espropriato tra il 1936 e il 1938, e poco meno della metà di questa terra fu collettivizzata, mentre il rimanente fu attribuito in parcelle individuali.

Il governo dei Fronti Popolari che seguì il tentativo di golpe offrì un contesto politico in cui operai organizzati e gruppi di contadini potevano agire con relativa libertà — la bilancia del potere, sia pure con incertezze e intermittenze, pendeva inizialmente a loro favore (Jackson 1970). La vittoria nei combattimenti di strada a Madrid, Barcellona e Valenza nel luglio del 1936 aprì uno spazio di lavoro per la costruzione di progetti politico-economici creativi, ma il costante mutamento politico degli anni successivi rese necessaria una lotta continua, su fronti differenti, per mantenere quello spazio. Le differenze regionali durante la Guerra Civile di Spagna e la profondità delle diversità delle opinioni espresse dalla storiografia rende difficile l’interpretazione di queste esperienze nello spazio di un breve articolo. D’altro canto, la loro importanza è tale che è impossibile trascurarle.

Produzione nella lotta urbana: l’anarco-sindacalismo di Barcellona

Nel 1936 a Barcellona la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), anarco- sindacalista ed estremamente influente, accompagnata da Socialisti, Comunisti e Repubblicani, aveva respinto il tentativo di golpe di Franco e altri generali. Molti proprietari di fabbriche abbandonarono la città, e i sindacati e le unioni intrapresero la collettivizzazione delle industrie: molte aziende, soprattutto quelle con più di 100 lavoratori, divennero Collettivi, sotto la gestione di consigli di operai eletti, normalmente composti da militanti della CNT e della UGT (Unione Generale dei Lavoratori). Molte fabbriche più piccole non furono tecnicamente espropriate, ma messe sotto il "controllo operaio", e ufficialmente co-gestite dal propietario e da un comitato di supervisione, il quale ultimo effettivamente controllava le operazioni. (Seidman 1982: 416). La CNT, in virtù del suo ruolo leader nella sconfitta del tentativo di colpo di stato, avrebbe potuto all’inizio prendere il potere nel governo regionale autonomo della Catalogna, ma, rifiutando questa possibilità, entrò ed uscì dai governi catalani e nazionali fino al maggio del 1937. Questa politica piuttosto incoerente derivava dai principi sindacalisti che priorizzavano il controllo operaio sulle fabbriche e rigettavano la partecipazione nello Stato, una posizione però mitigata dalla paura di abbandonare ad altri il potere statale, e delle possibili conseguenze di eliminare lo Stato nel bel mezzo di una guerra civile. Persino dopo aver lasciato il governo, comunque, la CNT continuò a tenere la sua parte di controllo su molte delle più importanti industrie di Barcellona, fino alla fine della guerra civile.

Nel luglio del 1936 i lavoratori di Barcellona - l’équipe tecnica con essi - agivano attraverso le strutture dei comitati di fabbrica e sindicatos únicos, per riparare rapidamente e ripristinare servizi d’acqua, energia e trasporti, rimettendo in piedi la città. Durante la gestione collettiva che seguì si realizzarono aumenti salariali nel contesto di una distribuzione più equa; migliori condizioni pensionistiche; aumento dell’assicurazione sanitaria e contro gli incidenti; condizioni di lavoro migliori. La politica industriale di base che la CNT e l’ UGT promossero tra il ’36 e il ´38, nel contesto della riconversione dell’ industria per la produzione di guerra e il suo mantenimento, ad onta della crescente penuria [di materie prime, concentrò gli sforzi sul consolidamento o centralizzazione di piccole fattorie disperse, la modernizzazione delle tecniche di produzione e il miglioramento delle condizioni degli operai, già menzionato. Sia la CNT sia la UGT, come prima Lenin e Gramsci, erano ammiratori del Taylorismo e della efficienza delle industrie statunitensi e sovietiche e, nonostante l’aumento dei salari e il miglioramento delle prestazioni assicurative, i collettivi si trovarono ad affrontare gli stessi tipi di problemi dei sistemi capitalista e di capitalismo di stato: assenteismo, furti e bassi livelli di produzione (Seidman 1982).

All’inizio la coordinazione tra i diversi gruppi produttivi era limitata, e con il passare del tempo e la crescente scarsità della materia prima, singole fabbriche riorganizzarono la produzione a loro gusto, rendendo difficile coordinare la produzione per le necessità civili e belliche. In quello che potrebbe essere descritto come il contributo anarco-sindacalista al Decreto di Collettivizzazione del governo catalano del 1936, diretto in parte a rispondere a questi problemi organizzativi, le funzioni del Consiglio Economico della Catalogna si sarebbero estese al punto di divenire un corpo centrale di coordinazione economica con rappresentanza di ciascuno dei Consigli Generali Industriali, che a loro volta erano formati con la rappresentanza dei consigli di fabbrica nei luoghi di lavoro collettivizzati (Amsden 1979: 107). Con lo scivolamento, nel corso dei mesi successivi, dal controllo al livello di fabbrica verso un sistema decisionale più centralizzato, questo Decreto fu ampiamente ignorato e così anche una proposta nuova sulla coordinazione industriale basata sui consigli di fabbrica.

Il modello decisionale basato su di un sistema democratico di consigli e comitati dei "produttori" presentava debolezze evidenti. Infatti, un potere decisionale sulla produzione, attribuito, per status, ai "produttori", è chiaramente anti-democratico, considerando che la fabbrica non è che una parte della più ampia società, sulla quale riversa non solo i suoi prodotti utili ma anche i suoi effetti socialmente e ambientalmente negativi. Ovviamente gli sforzi per una coordinazione fra i diversi settori industriali andavano nella direzione di forme decisionali più democratiche, lasciando però la maggior parte della società fuori dalle decisioni sulla produzione (e ovviamente sul consumo), non diversamente da ciò che avviene nell’attuale sistema capitalista, in cui le decisioni produttive sono rette da ragioni di profitto o condizionate dai bisogni politici del momento. Una soluzione democratica a questo problema avrebbe dovuto necessariamente comportare un sistema decisionale che potesse coniugare tematiche sociali più ampie, individuate dalla società nel suo insieme, con i bisogni e le necessità dei "produttori", considerati specificamente in ciascun luogo produttivo. Un tale modello avrebbe richiesto una complessa coordinazione tra corpi decisionali definiti per geografia e per funzione, simili a quelli che attualmente vengono presi in considerazione dalle iniziative del bilancio partecipativo e, con una più estesa applicazione, dalla Rete del Nuovo Municipio. Somigliavano a queste iniziative attuali i tentativi che, durante la guerra civile spagnola, furono intrapresi dai collettivi rurali, nei quali la distinzione tra abitanti e "produttori" di una data area, benché ugualmente oggetto di discussione, era spesso più fluida.

Verso un’autosufficienza di rete: i collettivi agricoli

I collettivi rurali creati tra il 1936 e il 1938 si differenziavano grandemente all’interno di una regione e tra le diverse regioni, e mentre alcuni collettivi — o alcuni suoi membri - cercavano di dare vita a una trasformazione sociale, politica ed economica rivoluzionaria, altri cercavano soltanto la maniera migliore per attraversare le difficili circostanze del momento. I contadini e le loro organizzazioni (in primo luogo la CNT e la UGT) crearono collettivi sulle terre delle proprietà espropriate e in alcuni villaggi sulle terre, riunite, di piccoli proprietari, una collettivizzazione che si realizzò sia spontaneamente, sia sotto la pressione della milizia della CNT (Seidman 2000: 211). Giudicarne il successo o il fallimento cade al di là dello scopo di questo articolo, ma certo si tratta di idee e pratiche che meritano ulteriore riflessione da parte di coloro che propongono una "globalizzazione dal basso".

Le informazioni fornite dagli osservatori simpatizzanti descrivono i collettivi come corpi retti democraticamente, gestiti da consigli amministrativi e operativi eletti e rotativi, che coordinavano la vita economica e sociale in collaborazione con un consiglio regionale collettivo. Tutti i membri, lavoratori e non, si riunivano più o meno ogni mese in una assemblea generale con delegati di gruppi produttivi diversi (artigiani, lavoratori agricoli, lavoratori di fabbrica), incaricati di presentare suggerimenti relativi alla produzione (Breitbart 1979: 84). In molti collettivi l’assemblea generale stabiliva le necessità di ogni famiglia e vigilava affinché i beni necessari fossero forniti da cooperative di distribuzione alle quali, in alcuni casi, anche persone non membri di un collettivo potevano accedere, pagando in denaro o in beni. Sui collettivi ricadeva la responsabilità di aprire e migliorare le scuole, fornire servizi di salute, istituire centri per anziani e bambini, e potenziare i centri culturali già esistenti (ateneos), spesso utilizzando le chiese e le case dei benestanti, abbandonate, per rispondere ai bisogni della comunità (Breitbart 1979). Molti collettivi modernizzarono l’agricoltura grazie all’introduzione di nuove tecniche, nuove colture, sistemi di rotazione ed altre strategie, mentre la realtà della guerra imponeva il passaggio da colture d’esportazione a colture di consumo locale, e la diminuzione delle colture intensive in prossimità del fronte bellico.

Ciascun collettivo si organizzò in maniera da essere più autosufficiente possibile, partecipando però anche alle federazioni regionali di collettivi, istituite tra il luglio del ’36 e il giugno del ‘37, che organizzava lo scambio di beni nel distretto e tra i distretti di una regione, coordinando anche la distribuzione nelle città e al fronte. A volte i collettivi rurali trasferivano gli alimenti nei vicini centri urbani e, in cambio, i sindacati urbani fornivano macchine, manufatti, aiuto tecnico, servizio medico e lavoro nell’epoca del raccolto. Mentre questa forma di baratto era parte delle idee anarchiche dell’abolizione del denaro, la costante svalutazione della moneta e le ricorrenti carenze di beni può averla resa l’unica forma di scambio possibile. Una combinazione di scarsità , problemi di trasporto, difficoltà d’organizzazione, furti, mercato nero, la campagna anti-collettivista dei comunisti e del governo, insieme ad alcune tendenze autarchiche dentro i collettivi, danneggiò tanto i sistemi di distribuzione che inviare cibo sufficiente alle città e al fronte spesso divenne estremamente difficoltoso. Con il tempo, peggiorando le condizioni per il perdurare della guerra e perdendo influenza la CNT in favore dei partiti comunisti, le requisizioni forzate di prodotti dei Collettivi divennero più comuni. Anche se alcuni Collettivi, specialmente nelle zone più lontane dai fronti bellici, continuarono fino alla fine della guerra civile, ormai le condizione si erano fatte definitivamente difficili.

C’era una differenza chiara, anche se non rigidamente praticata, tra la visione del sindacalismo urbano che voleva che il potere decisionale risiedesse nei sindacati, e una prospettiva rurale, più "puramente" anarchica — o anarchico-comunista — che vedeva nel Comune (villaggio, paese o potenzialmente quartiere) il centro in cui dovevano realizzarsi le decisioni. Benché all’interno della CNT questa divisione fosse stata considerata, sia pure parzialmente, da Abad de Santillán e Gastón Leval, che riconoscevano l’importanza dei sindacati ma sostenevano l’idea di una forma di organizzazione basata sul Comune (García Ramón 1979: 73-74), in pratica la differenza tra un potere decisionale basato sullo status di "operaio", o su una volontaria partecipazione (tale era spesso il caso nei collettivi rurali), o sulla geografia, è significativa. Nel caso urbano come in quello rurale i corpi decisionali escludevano molti che non possedevano le condizioni per partecipare, sia per scelta (nel caso di collettivi rurali, perché alcune persone sceglievano di non partecipare) o in ragione del loro status oggettivo (nelle aree urbane, dove molte persone non potevano in nessun modo entrare a far parte dei sindacati) .

Non c´è nessun’altra esperienza che uguagli quelle degli anni della guerra civile spagnola in termini di tentativi volti a realizzare un’organizzazione politica ed economica federativa, non diretta dallo stato, e collettivamente gestita. Alcuni di questi tentativi meritano attenzione, e vale la pena esplicitarli. Innanzi tutto, la riconversione delle fabbriche da una produzione civile ad una di guerra sotto la direzione operaia è un esempio da tenere presente per una potenziale transizione delle fabbriche oggi esistenti verso una produzione socialmente utile e ambientalmente compatibile. In secondo luogo, i sistemi di coordinazione che funzionarono all’interno dei collettivi rurali e all’interno delle industrie urbane, così come i tentativi di coordinazione tra la campagna e la città, anche se certamente problematici, forniscono un solido esempio in grado di suggerire all’elaborazione di simili sistemi di produzione e distribuzione l’ampiezza degli elementi in gioco. Finalmente, le tensioni tra membri e non membri dei sindacati o dei collettivi, e così pure all’interno di essi, sulle regole interne e la loro trasgressione mette sul tappeto realtà complesse e conflittuali che non possono essere ignorate.

 

5. Trasformazione municipale e bilancio partecipativo

Bilancio partecipativo a Porto Alegre

Negli ultimi 20 anni i governi municipali hanno acquistato forza rispetto allo Stato, in parte a causa del progressivo indebolimento di quest’ultimo, dovuto al collasso del sistema fordista e la fine della Guerra Fredda, e in parte a causa delle politiche delle Istituzioni Finanziarie Internazionali dirette a "decentralizzare" il potere statale. Tra i più noti esempi del rafforzamento dei poteri municipali si colloca il processo di bilancio partecipativo messo in moto nel 1989 dalla città brasiliana di Porto Alegre.

Porto Alegre, non a caso la sede dei tre primi World Social Forum, durante gli ultimi quindici anni ha lavorato al potenziamento della democrazia politica locale e alla redistribuzione delle risorse municipali attraverso un sistema di bilancio partecipativo (Sousa Santos 1998; Baocchi 2001; Heller 2001). Gran parte del dibattito intorno a Porto Alegre si dirige agli aspetti tecnici del processo di bilancio partecipativo, tuttavia non bisogna dimenticare che il significato più profondo di questo esperimento riposa in una storia che lo colloca in un più esteso e ampio processo politico. Durante la dittatura militare in Brasile (1964-1985) l’organizzazione politica su base nazionale divenne estremamente difficile e gli attivisti di Porto Alegre, una città che si era attivamente opposta alla dittatura, come gli attivisti di altre città, iniziarono ad organizzarsi a livello di quartiere e municipale, dando vita nel 1983 ad un’organizzazione di quartieri che copriva tutta la città; oltre a presentare una piattaforma di richieste che andava dal rispetto dei diritti umani alla situazione abitativa, l’organizzazione esigeva la democratizzazione a tutti i livelli della società brasiliana (Sousa Santos 1998: 466). Le prime elezioni libere del 1985 portarono al potere municipale un partito che utilizzò i "consigli popolari" ma che continuò ad amministrare la città attraverso il tradizionale modello clientelare. Il PT (Partito dei Lavoratori), formatosi all’inizio degli anni ’80 dal movimento dei lavoratori, con la confluenza di esponenti della chiesa cattolica, associazioni di contadini, attivisti di gruppi dei Diritti Umani e una sfilza di organizzazioni rivoluzionarie, guadagnò l’11% dei voti alle elezioni municipali del 1985, e raggiunse la vittoria nel 1989 (Heller 2001: 155). I movimenti sociali, dentro e fuori del PT, hanno mantenuto un dialogo attivo con il governo municipale, in uno scambio che è stato determinante per il successo dell’esperienza del bilancio partecipativo di Porto Alegre. Subito dopo essersi istallata, l’amministrazione del PT fu scossa da un duro dibattito interno sul ruolo del partito: un gruppo sosteneva che il ruolo del partito fosse quello di rappresentare gli operai in opposizione al governo nazionale dominato dalla borghesia, mentre un altro gruppo richiedeva al partito di rappresentare l’intera città, e specialmente le classi popolari (Sousa Santos 1998: 475-6).

Le dinamiche attuali e l’impatto del bilancio partecipativo di Porto Alegre meritano approvazione per i successi che hanno ottenuto nel promuovere una partecipazione attiva nel processo democratico decisionale e nella redistribuzione delle risorse. Questi successi sono stati ampiamente discussi altrove (Sousa Santos 1998; Baocchi 2001) e non li ripeterò qui in dettaglio; vorrei tuttavia suggerire il senso di questa iniziativa costantemente in evoluzione. Il processo, infatti, fin dall’inizio è stato organizzato in maniera da potersi inserire dentro la legge municipale brasiliana già esistente, e di fatto richiede una coordinazione tra gli organi consultivi di rappresentanza popolare e l’esecutivo municipale, nonché l’approvazione ufficiale del consiglio municipale eletto. In sintesi, Porto Alegre ha sviluppato una forma di partecipazione democratica decisamente istituzionalizzata, ma in constante processo di adattamento. In essa sia gli individui sia i gruppi organizzati hanno voce, incaricati come sono di distribuire le risorse municipali a quelle aree della città che più ne hanno bisogno, secondo le priorità stabilite da ciascuna zona. Con il tempo il processo è passato da un sistema basato sui "consigli popolari", ampiamente controllati dalle organizzazioni di quartiere, ad un sistema che gode di una partecipazione sempre più ampia, più inclusiva. Il processo di adattamento ha comportato anche un cambiamento da un’attenzione quasi esclusiva alle aree più povere della città a un’attenzione che, senza perdere di vista la loro priorità, si rivolge anche ai bisogni della città nel suo complesso. Ulteriori sforzi si sono fatti per assicurarsi che la distribuzione dei fondi nell’area sia quanto più possibile egalitaria, disegnando delle microzone dentro le esistenti zone cittadine, e dando impulso a sistemi organizzativi a livello di quest’ultime, che possano garantire una distribuzione equa al loro interno.

La natura democratica del processo deriva da un insieme di riunioni (di zona e cittadine) organizzate per stabilire priorità di bilancio. Queste riunioni, che possono a volte essere conflittuali, dal momento che le diverse correnti politiche sostengono diversi tipi di progetti, sono esperienze formative importanti per i delegati eletti. Si raggiunge un equilibrio tra redistribuzione e democrazia, tanto che "la zona più povera della città, Ilhas [...], con una popolazione di 5,163 abitanti, quasi tutti classificati bisognosi, ha lo stesso peso decisionale della zona più ricca, il Centro, con 293,193, dei quali solo 7,586 sono considerati bisognosi" (Sousa Santos 1998: 484-485).

Le procedure democratiche del bilancio municipale sembrano un improbabile punto di partenza per una trasformazione sociale sostanziale: i limiti saltano velocemente agli occhi. In un processo di costruzione del bilancio manca la discussione sul controllo dei mezzi di produzione (neppure nel senso di mappatura o regolamentazione) — pertanto si riduce l’impatto sulla distribuzione della ricchezza, sui tipi di lavoro disponibili nella città, le questioni sanitarie, l’ambiente, gli aspetti estetici della città, ecc... Inoltre, le implicazioni politiche per il più ampio sistema regionale, nazionale e internazionale, dentro cui il municipio si colloca, può non essere esplicitamente preso in considerazione. Tuttavia un sistema decisionale collettivo può scegliere — sempre che esistano alcune condizioni interne ed esterne - di espandere le sue funzioni e può ugualmente scegliere di creare relazioni politiche praticabili e convenienti al di fuori del municipio, secondo il suo giudizio. Infine, quest’esperimento prende la forma di un processo formativo per i delegati, non diversamente da ciò che Gramsci aveva pensato per i consigli operai a Torino, e più che certamente rappresenta un esercizio apprezzabile in un mondo in cui la tendenza è quella di una decisionalità di dimensione individuale o macroistituzionale, con ben poco spazio per decisionalità collettive di qualunque genere.

La idea del bilancio partecipativo si è molto diffusa, in parte perché "le organizzazioni internazionali simpatizzano sempre più con essa, un interesse però diretto più alle sue virtù tecniche (efficenza ed efficacia nella distribuzione e utilizzazione delle risorse) che a quelle democratiche (la sostenibilità di un complesso sistema di partecipazione democratica e di giustizia distributiva)" (Sousa Santos 1998: 505), ma in parte anche grazie ad altre reti, specialmente quelle che hanno organizzato il World Social Forum, o che da quest’ultimo sono nate. Queste reti alternative, che pure sicuramente in parte si sovrappongono a quella delle "organizzazioni internazionali", deve qualcosa del suo successo proprio alla città di Porto Alegre e agli sforzi del governo cittadino che, attraverso questi eventi, ha mostrato la sua generosa volontà di apertura a progetti di trasformazione che si estendano al di là dei suoi propri confini.

 

Costruendo in orizzontale: La Rete del Nuovo Municipio

In Italia, come in altre parti del mondo, sono in atto sforzi locali di trasformazione economica e politica che a volte si rivolgono allo Stato, a volte lavorano fuori di esso. Il crescente numero di movimenti sociali, molti dei quali possono trovare alcune delle loro radici nei movimenti rivoluzionari dei tardi anni sessanta e dell’inizio dei settanta, si sono recentemente trovati insieme in numero e forme forse prima inimmaginabili, non solo all’interno di un dato paese, ma anche a livello globale, come testimoniano sia la imponente partecipazione ad eventi quali il World Social Forum, sia la coordinazione, senza precedenti, delle proteste organizzate contro l’invasione Anglo-Usa dell’Iraq (Magnaghi 2004: 22).

La frammentazione dei movimenti negli anni ’80 e ’90 derivò dalle critiche interne rivolte agli aspetti non democratici e non egalitari dei movimenti rivoluzionari più potenti, ma anche dalla crescente stanchezza della più ampia "sinistra" nei confronti del "socialismo reale". L’orizzonte, possiamo ben dirlo, era oscuro. In una versione degli eventi semplificata e ottimista, si può affermare che la recuperata unità si deve al fatto che molte delle critiche sono state, sia pure in parte, costruttivamente accolte dallo stesso movimento, e che un consenso generale sull’importanza di lavorare uniti, piuttosto che separatamente, lega adesso insieme le varie organizzazioni. Si può quindi immaginare che nelle attuali condizioni si riapra tra anarchici e comunisti di sinistra un dialogo che era stato reso difficile, nel XX secolo, innanzi tutto — e in maniera diretta - dall’esistenza dell’Unione Sovietica e, negli stessi anni, dalla riduzione degli spazi di dibattito politico, prima per la repressione fascista e poi per gli esiti materiali della democrazia sociale. E’ ugualmente interesante che tutti questi "ri-incontri" avvengano sullo sfondo del crollo dei sistemi sociali (democrazie sociali e socialismi reali) nati e sviluppatisi tra le due guerre mondiali, e fortemente influenzate dalle lotte di classe e le idee che le accompagnavano.

Il richiamo più chiaro a mettere insieme questi gruppi, in qualche modo isolati, è venuto nel 1996 dall’EZLN, con il suo invito a un Incontro contro il Neoliberismo e per l’Umanità, nel quale alcuni pezzi del WSF possono sicuramente rintracciare le loro radici. Otto anni di incontri sono stati utili ma, come Magnaghi nota (2004: 198), i tentativi concreti di creare alternative al sistema dominante sono stati pochi. Alcuni degli intenti più notevoli, escludendo le esperienze di Porto Alegre e Kerala, si sono svolti nel mezzo di cambiamenti politici violenti: la fondazione delle nuove Giunte del Buon Governo (Juntas de Buen Gobierno) nelle aree del Chiapas controllate dall’ EZLN, nel 2003 , e l’occupazione e autogestione di fabbriche e la creazione di assemblee di quartiere (asambleas barriales) in Argentina (Dinerstein 2003).

La Rete del Nuovo Municipio, recentemente stabilita in Italia, propone la creazione e il potenziamento di strutture locali e democratiche di organizzazione politica ed economica, che tengano conto delle specificità culturali ed ambientali, definite patrimonio territoriale locale, e così pure di indicatori di benessere localmente stabiliti. I partecipanti della Rete vedono nell’organizzazione politica ed economica locale un’esplicita sfida all’attuale forma di globalizzazione e pertanto una delle basi per la costruzione di una "globalizzazione dal basso". La Rete riunisce vari attori, per esempio un certo numero di governi municipali, o gruppi di essi, insieme a consigli di quartiere e associazioni che condividono gli obiettivi della Rete ma non hanno il sostegno dei loro governi municipali, mettendo insieme esperienze già stabilite, come la lunga storia dell’Isolotto di Firenze e i dieci anni di bilancio partecipativo di Grottomare, con nuove iniziative quali il processo sperimentale di bilancio partecipativo in corso a Pieve Emanuele, dove si iniziano a discutere gli indicatori di benessere della municipalità. Si tratta di esperienze diverse, che la Rete vuole rafforzare, mentre cerca di stimolarne di nuove, attraverso il confronto e il sostegno tecnico, fornendo una piattaforma comune che insieme unisce esperienze vecchie e nuove e le guida nella proiezione verso il futuro. Come si dice nella Carta di Intenti, approvata nel novembre del 2003, la Rete chiama ad una pianificazione locale democratica che cerca di includere tutte le persone e tutti "gli attori sociali, culturali ed economici", privilegiando, tra questi ultimi, quelli che operano con obiettivi etici (www.nuovomunicipio.org/documenti/CartIntenti.htm).

Il rispetto e l’uso oculato delle risorse (culturali, storiche, ambientali, ecc.) deve guidare questa pianificazione e deve agire come strumento di rallentamento dell’attuale processo di globalizzazione, mentre inizia a crearne uno alternativo. Anche se talvolta il suo vocabolario si avvicina al discorso ufficiale (per esempio "sviluppo sostenibile"), la Rete adotta alcuni obiettivi "post-sviluppisti" riguardo i criteri di benessere, localmente determinati, coniugandoli con un esplicito richiamo al federalismo municipale e alla combinazione della democrazia elettorale con quella diretta.

Nei modi e procedure che la Rete individua per sviluppare forme locali di autogoverno confluiscono sia le vicende storiche sopra delineate, sia l’attuale processo di bilancio partecipativo di Porto Alegre. Ma la Rete vuole anche andare oltre. Se la relazione tra governi municipali e movimenti sociali attivi nel territorio municipale rappresenta il punto di partenza per le "nuove municipalità" (Magnaghi 2004: 205), in maniera abbastanza simile al caso di Porto Alegre la Rete chiama anche alla creazione di statuti municipali che regolino una forma di democrazia partecipativa che inizi con fini redistributivi ma che non si limiti al bilancio partecipativo: "il processo partecipativo non dovrebbe limitarsi alla redistribuzione delle risorse pubbliche disponibili, ma deve riguardare le scelte che producono nuova ricchezza per renderla socialmente disponibile" (www.nuovomunicipio.org/documenti/ CartIntenti.htm).

La Rete del Nuovo Municipio articola, in una forma concreta, molte delle idee che già circolano sul controllo locale e sulle reti di produzione e consumo locali e regionali con una più ampia coordinazione globale tra le località. Fornisce anche una formula di base, flessibile ed intenzionalmente adattabile, per fare di queste idee una realtà. Come l’esperienza di Porto Alegre, la Rete cerca di aprire nuovi sentieri che, oltre a creare migliori sistemi decisionali locali, possano anche essere parte di un processo di trasformazione molto più ampio.

 

6. Altri mondi sono, ancora, possibili

I nuovi e radicali tentativi di prendere, o riprendere, controllo collettivo sulle decisioni si dirigono principalmente al rafforzamento di iniziative locali, molto spesso dentro la visione di un coordinamento di più ampia scala. Come ho cercato di dimostrare, il ventesimo secolo ospita una lunga storia di simili tentativi, assai spesso esplicitamente legati alla nozione che la loro realizzazione dipenderà da una rivoluzione sociale e politica di classe. La maggior parte delle iniziative oggi presenti si concentra meno sul cambiamento radicale e violento del sistema politico come strumento di creazione di mutamenti sociali ed economici, e più sulla creazione, usando forme decisionali radicalmente democratiche, di un insieme di istituzioni sociali ed economiche, parallele a quelle già esistenti nel più ampio sistema, ma non per questo ad esso esterni, anzi al contrario collocate al suo interno. La Rete del Nuovo Municipio cerca di proiettare le attuali reti di istituzioni parallele in modo da creare forme locali decisionali più partecipative, adattando i già esistenti sistemi di governo locale (liberal-democratici). Questo ci riporta all’idea di un collettivo decisionale cosciente e informato che in un certo senso si arricchisce della gran parte degli sforzi storici brevemente descritti in questo articolo.

Detta proiezione deve essere vista sia come un passo di un processo ben più lungo e più vasto in cui nuove reti devono essere create e altre devono essere estese, sia anche come uno dei molti processi sociali convergenti, alcuni dei quali possono dare luogo ad altre opzioni politiche. E’ necessario mantenere uno scambio costante e un dialogo aperto sulle idee che sostengone queste opzioni e la loro concreta messa in atto, in modo che ciascuna di esse possa essere modificata per adattarsi alle specificità locali, poiché si tratta di idee e di forme organizzative che viaggiano, che si muovono per il mondo.

In ciascuno dei tentativi di trasformazione radicali sopra descritti è presente una sorta di tensione tra la partecipazione politica e la rappresentazione, quest’ultima basata su di una collocazione geografica o sull’appartenenza ad una particolare classe, movimento sociale o associazione. Qualunque sistema democratico deve affrontare queste questioni in modo diretto, chiarendo esplicitamente i ruoli dei diversi attori. Le associazioni politiche, le unioni, i comitati di quartiere, etc., sono più che un insieme di individualità, e come tali devono essere rappresentati — nascondere questa realtà significa inficiare il dibattito politico.

Come indica la citazione di Latouche che introduce questo articolo, ciò che non sembra più in discussione è il controllo sui mezzi di produzione, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Questo tema cardinale nelle lotte del diciannovesimo e ventesimo secolo non può essere così facilmente ignorato senza rischiose conseguenze. Le vittorie del secolo XX in questo campo, benché parziali e a volte gravide di conseguenze discutibili, non dovrebbe permettersi che scivolino via. Se gli "altri" mondi in costruzione non assumono un controllo collettivo e democratico che si estenda anche al reame del sistema produttivo, c´è da chiedersi in cosa mai consista la "alterità".

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