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Fuori dal cerchio del fanale: peccato originale, errori storici e possibile redenzione delle politiche di cooperazione alla salute di Rosalba Piazza

 

 

Notte di nebbia a Londra. Un ubriaco, carponi, cerca qualcosa nel cerchio illuminato da un fanale del lungofiume.

Cortesemente, un poliziotto si avvicina: "Ha perduto qualcosa, signore?"

"Sì - risponde l'ubriaco - non trovo più le mie chiavi..."

"Se permette - continua, gentile, il poliziotto - la aiuterò a cercarle..."

Anche il poliziotto si mette a cercare nel cerchio illuminato. Dopo alcuni minuti di ricerca infruttuosa, e notando lo stato non perfettamente lucido del suo compagno, il poliziotto si permette di domandargli se è proprio sicuro di avere perduto le chiavi proprio lì, in quel punto.

"Ah no - risponde l'ubriaco - al contrario sono quasi sicuro di averle perdute laggiù, dall'altro lato del fiume".

"E allora - il cortese poliziotto a stento nasconde la sua stizza - perché le stiamo cercado qui?!".

"Ma signore - risponde, stupito, l'ubriaco - è questo l'unico punto illuminato!".

Non so a quanti e quali altri campi del sapere la parabola appunti il dito; io l'applicherò alla medicina, quale, nella sua duplice "natura" di scienza e pratica, si declina negli interventi di cooperazione allo sviluppo. Un osservatorio particolare, che tanto del sapere medico come della politica della cooperazione sembra enfatizzare gli aspetti più conservatori: anche quando occasionali (e sempre più rare) dichiarazioni contrarie - che si riferiscono soprattutto alla valorizzazione dei sistemi medici tradizionali locali - sembrerebbero suggerire percorsi avventurosi, si tratta di interventi che continuano a muoversi nello spazio di luce offerto dal fanale, forse per temerne, o forse per ignorarne i possibili teatri oscuri e lontani. Tanto rassicurante è la luce del nostro fare e del nostro pensare. Tanto promettente e salvifica per tutti.

La tesi di questo breve scritto - che sviluppa altre considerazioni che su queste stesse pagine ho sviluppato (Piazza 1995 e 1999) - è presto detta: nel campo della salute, è responsabilità etica e scientifica della Cooperazione stimolare e accompagnare le realtà mediche locali verso la comprensione e articolazione delle pratiche terapeutiche tradizionali. Si tratta dunque non di passare, come turisti curiosi, attraverso le medicine tradizionali; si tratta di restarci, il tempo necessario - cioè tutto il tempo.

L'oggetto della mia riflessione continua a dirigersi contro quel "colonialismo medico" che sembra inscritto nel codice genetico della medicina cosmopolita, e che la cooperazione allo sviluppo non è riuscita non solo ad eludere, ma nemmeno a scalfire. Eppure ricordo i propositi, formulati in tempi lontani, quando, in quest’ambito ambiguo ma generoso, un cuore e un cervello pulsavano e pensavano con piú decisione. Si diceva allora che la forma e il contenuto del sapere e della pratica medica si doveva tentare di trasformarli in proposta, scambio; e, innanzi tutto, ricerca comune.

Perché di ricerca si tratta, e guai a dimenticarlo. Diversamente dalle chiavi dell'apologo, l'oggetto della nostra ricerca non è solo un pretesto. Mi allontanerò dunque dalla ironica leggerezza di quell'incipit, e pesantemente argomenterò che l'oggetto in questione, le chiavi che stiamo cercando sono, né più né meno, gli strumenti per capire e condividere il modo con cui gli esseri umani, individualmente e come gruppo, affrontano la sofferenza e la morte.

L'oggetto in questione è dunque tale, di tale enormità, che merita - impone - avventurarsi oltre il cerchio rassicurante del lampione, nell'oscurità, al di là del fiume. Persino se non sospettassimo che è lì che abbiamo perduto le chiavi.

Perché se la domanda di più vita e più salute è - almeno se la teorizziamo in senso molto, molto ampio - "universale", non altrettanto universali sono i percorsi per rispondervi. La protervia con cui la scienza medica ufficiale - la medicina cosmopolita - continua a ignorare i percorsi diversi e le risposte "altre" che a queste domande si sono date e si danno, è scientificamente incomprensibile ed eticamente inqualificabile. Sembra tradire il timore di scoprire, attraverso la varietà, la straordinaria ricchezza di percorsi e risposte, che le domande poste alla vita, per la vita, nel vasto mondo non sono necessariamente quelle che le cittadelle del potere hanno stabilito essere universali, globali, lecite.

E nei fatti, è stato avvicinandomi alle risposte di un gruppo che ho appreso, oltre a immaginarne le domande, a intravedere che il classico obiettivo della cooperazione sanitaria (portare i benefici della salute in quelle società dove, per diverse ragioni, essi non sono disponibili) deve essere completato - o forse corretto e limitato - da un altro obiettivo: sottomettere questi stessi benefici a riflessione critica, interrogandone la applicazione universalizzata e la presunta assoluta positività. Si tratta, se vogliamo, di una "antropologia medica" che, rifiutando la parzialità sia dell'approccio emico, sia dell'approccio etico, si definisce teoricamente critica degli effetti dell'esportazione della medicina cosmopolita, e operativamente impegnata nella estensione dei benefici reali (e transculturalmente accettati) della medicina moderna. Da queste premesse discende che per qualunque intervento nel campo della salute è prioritario conoscere, di un gruppo dato, le forme tradizionali del curare, oltre naturalmente alla concettualizzazione del binomio salute/malattia e la cosmovisione in cui la concettualizzazione si colloca. Per due ragioni: in primo luogo perché il sistema di salute locale (tradizionale) di un gruppo è parte della storia dello stesso, conserva nel suo seno una grande ricchezza di conoscenze e valori e pertanto rappresenta una realtà terapeutica insostituibile per i componenti del gruppo. La seconda ragione estende il suo campo al terreno della "scienza medica", affermando che la persistenza dei sistemi tradizionali locali, testimoniando di una concettualizzazione differente, e di pratiche curative differentemente efficaci, rappresenta un contributo indispensabile per la riflessione e l'autoanalisi che la medicina occidentale contemporanea deve realizzare, se davvero vuole ampliare - e, soprattutto, migliorare - la sua copertura. Il primo passo da realizzare è quindi criticare l'attitudine - teorica e operativa - che presume che la medicina cosmopolita sia la unica medicina "sapiente" (contrapposta a una medicina empirica - o "superstiziosa"), considerando dunque che il sapere sia unico, universale, indipendente dal contesto storico e sociale; oltre che, naturalmente, codificato nei diversi campi della scienza moderna, di cui la medicina partecipa.

1. Sotto la luce del lampione: uno sguardo alla storia.

In linea con le considerazioni esposte, l'antropologia medica, declinata nelle domande che la cooperazione dovrebbe porsi, è l'erede legittima della critica che negli anni sessanta certa sociologia rivolgeva ai paradigmi autoritari e normativi della organizzazione della professione medica. Questa critica - forse più conosciuta nell'ambito psichiatrico, ma che ben riguardò la medicina in generale - proprio nella sua proiezione transculturale potrebbe operare i passaggi più interessanti: oltre il fiume, fuori dalla luce della scienza cosmopolita.

Vale la pena ricordare che, in patria (l'Occidente, patria delle scienze, la scienza medica con esse), oggetto della critica non furono tanto i fondamenti della scienza medica, quanto la sua organizzazione, la sua politica: lo strapotere autoritario, l'inegualitarismo, la "reificazione" del malato. In quegli anni la rassicurante affermazione parsoniana, secondo la quale la società possiede dottori perché la società ne ha bisogno, veniva sfidata dalle impietose argomentazioni secondo cui i medici esistono perché sono stati capaci di conquistare, nel mercato, il monopolio del controllo della offerta di "salute". Ma non è tutto: unico caso tra le diverse istituzioni del lavoro organizzato - si argomentava irrispettosamente - la professione medica era riuscita a convincere l'opinione pubblica che il monopolio raggiunto non fosse semplicemente un successo della corporazione, ma un bene per l'umanità tutta: il potere della professione medica, si accusava, viene contrabandato come un bene pubblico.

A questo esito - sorprendente, eppure accettato come ovvio - si era giunti attraverso un percorso i cui strumenti organizzativi datano dal XIX secolo, ma le cui radici risalgono lontano. Con la nascita della Scuola Medica di Parigi - erede della Rivoluzione Francese (una eredità amara, e tutt'altro che lineare) - l'Ospedale diveniva l'incarnazione della Salute Pubblica e, nella sua volenterosa missione democratica (salute per tutti), operava una radicale rivoluzione nella relazione tra il malato e il medico. Perché, è bene ricordarlo, il medico titolato fino a quel punto era stato appannaggio dei pochi che potevano permetterselo, e la gente comune si era curata con tutto il reportorio di automedicazione, praticanti, guaritori, saggi e santi che costituivano l'attenzione terapeutica disponibile. Fino al XVIII secolo, pertanto, la esclusività del servizio collocò il medico in una delicata situazione di dipendenza dal paziente, la cui rilevanza sociale ed economica impediva un'organizzazione corporativa dei professionisti della salute, favorendo al contrario il sistema di Patronato.

Ma nella relazione medico-pazente non è solo in gioco una gerarchia sociale. Forse più significativa di questa, la storia della relazione tra il medico e il malato deve ricostruirsi anche dal punto di vista della gerarchia del "sapere". In epoche anteriori alla concettualizzazione totalmente biologica della malattia (e all'utilizzo della strumentazione di indagine che la rilevasse, presumibilmente senza "arbitrio interpretativo"), per formulare la diagnosi e intraprendere la cura il medico contava quasi totalmente sul paziente, sulla sua narrazione e la interpretazione di ciò che "sentiva". Il paziente non solo partecipava delle stesse conoscenze (in senso lato, ma non raramente in senso più strettamente medico) del suo curatore, ma spesso le eccedeva, e solo demandava al medico la "pratica" della cura, non il suo sapere. Una situazione destinata a essere radicalmente ribaltata quando, con l'affermazione della scienza moderna, specialmente la scienza biologica del secolo XIX, la bilancia penderà decisamente dal lato del medico, che potrà, anche grazie a una strumentazione sempre più sofisticata, appellarsi alla progressiva affermazione di una "scienza medica" codificata e appannaggio dell'accademico, in questo campo più titolato del suo paziente - non importa quanto dotto (in altri campi) e quanto ricco e potente.

Cambia il sapere medico, e cambiano anche le strutture che trasformano le conoscenze in servizi di salute. L'indagine sulla malattia - e pertanto la terapia, il servizio medico - si spostano dal "capezzale" del malato all'ospedale, che simbolizza perfettamente la confluenza di "scienza" e "pratica" (che hanno già sostituito, rispettivamente, il sapere filosofico e l'ars, - le due metà che formavano, prima della modernità, la materia medica). L'ospedale, in questa sua nuova e decisiva fase storica, non è, come nel passato, il luogo dell'isolamento del malato e della sua assistenza, verosimilmente accompagnandone la morte (il lazzaretto); è il luogo in cui si cerca di curare quei malati - sempre più numerosi nell'Europa della rivoluzione industriale - che, senza mezzi e senza assistenza famigliare e comunitaria, accettano l'implicito patto che su di essi si tenti insieme la cura e la sperimentazione: attraverso l'osservazione del corpo vivo e l'autopsia del corpo morto.

Nell'ospedale, la separazione tra il sapere del medico e la ignoranza del paziente non può essere più grande, sia per il tipo di paziente, sia - forse di più - per il tipo di sapere che adesso si maneggia: un sapere in larga misura ricavato dall'osservazione "oggettiva" del corpo del malato, in vita e in morte, ossia dai dati che questo corpo, insieme alle altre migliaia che il medico - e solo il medico - potrà osservare nell'ospedale, fornirà alle elaborazioni statistiche sul comportamento di questa o quest'altra malattia, quest'ultima isolata e catalogata, grazie anche agli strumenti tecnici - di osservazione e manipolazione - che proprio in quegli anni accrescevano enormemente la potenzialità della scienza biologica.

L'intreccio tra scoperte biologiche e progressi tecnologici (e, pertanto, medici) è storia troppo nota perché valga la pena qui riferirla; ciò che voglio sottolineare è il poderoso influsso che questi avvenimenti hanno sulla relazione tra medico e paziente. Alla fine, quest'ultimo rimane muto: la sua storia non interessa nessuno, e ancora meno l’interpretazione del suo patire, già che entrambe sono superate dai dati oggettivamente rilevabili e dalla griglia interpretativa in cui il medico li collocherà. Che questa griglia interpretativa sia costruita sugli stessi dati, costituisce una autoreferenzialità che non solo non preoccupava (e, a quanto sembra, continua a non preoccupare) nessuno, ma al contrario viene proposta come metodo scientifico, di approssimazione alla realtà.

La stessa sociologia medica, quindi, dedicò più energie alla critica "politica" della relazione, lasciando quasi in una zona d'ombra la critica epistemologica; anche quando si denunciò la estromissione del malato dalla partecipazione alla propria guarigione, gli argomenti tornavano ad essere sociali e politici, fermandosi al di qua di una messa in discussione della scienza che il medico maneggiava e rappresentava. Una ritrosia a mettere in discussione i fondamenti della scienza medica è presente anche nelle critiche più radicali, quelle che assimilano il servizio medico a una merce, della quale il paziente è il compratore e il medico è il produttore/venditore (Johnson, 1972). In queste critiche, ancorché radicali, ciò che non si discute è la "bontà" della merce stessa, ovvero i fondamenti della sapienza medica - non del singolo praticante, ma della scienza stessa.

E' pertanto solo nell'ambito del movimento antipsichiatrico che si ritrovano elementi di critica epistemologica, capaci di sfidare i principi del sapere della medicina. Se riannodiamo le fila, come non si sono annodate nella realtà, potremo ritrovare in quell'accusa, rivolta alla psichiatria, di inventare la malattia psichica, un concetto che, con più evidenza quando ci si sposta nello spazio (dall'Occidente verso il vasto "resto del mondo"), recupera tutta la sua forza anche nel campo della malattia "fisica" (sempre che una distinzione tra le due sia possibile e legittima).

Purtroppo, questa che era la strada maestra per giungere alla "scoperta" delle medicine tradizionali, fu abbandonata (o forse mai intrapresa). Era la strada maestra perché, mettendo al centro non la malattia ma l'individuo malato, e non l'individuo isolato, bensì la persona inserita nel suo contesto materiale e simbolico, la ricerca medica - ossia il lavorio verso la risposta più adeguata al patire del corpo umano - avrebbe iniziato a mettere in crisi quei postulati propri della scienza medica occidentale contemporanea, biologista, assoluta, universale e de-contestualizzata, aprendo dunque le porte ad altri paradigmi.

Ma così non fu. Al contrario, la Medicina Tradizionale (la sua inclusione nei programmi di salute di base) è entrata nella scena delle politiche sanitarie internazionali senza passare per la scena della discussione teorica, divenendo insieme strumento di negoziazione politica (Piazza, 1999), e fiore all'occhiello di programmi burocraticamente concepiti nel cuore dell'impero e da diffondere nella periferia: programmi non realistici - opportunisticamente non realistici - che hanno contribuito al fallimento di una idea sicuramente fertile, sicuramente giusta: iniziare a guardare alle medicine "altre", ai sistemi locali: le loro risorse, le loro "storie".

Alcuni caratteri dell'attualità, mentre indicano quale versante del pensiero e dell'azione medica la cooperazione stia presentemente occupando, dimostrano che questi esiti erano impliciti nelle premesse, perché l'apertura operativa verso le medicine tradizionali (persino, si è detto - e in alcuni casi realizzato - la sua presenza nelle strutture pubbliche) non era sostenuta da una adeguata conversione teorica. Al contrario, la mancanza di contributi teorici sul tema ha permesso che, come un cancro, nel mondo medico ufficiale dei Paesi che avrebbero dovuto, con entusiasmo, accettare questa nuova imposizione che veniva dalla metropoli, si incistassero riserve e opposizioni che, discutibili quanto si vuole, sicuramente esprimono problemi reali e, soprattutto, indicano la necessità assoluta di elaborazione teorica su alcuni grandi temi che la proposta di prendere in considerazione le medicine tradizionali mette in gioco.

Una di queste riserve, per esempio, muove da una realtà incontrovertibile: in molti casi il mantenimento delle pratiche del curare tradizionali si è coniugato con l'esclusione della popolazione dai benefici della modernizzazione (e, tra di essi, naturalmente i benefici della biomedicina). E' quasi tautologico affermare che il sistema medico cosmopolita - biologista per ciò che si riferisce al suo credo, e chimico e tecnologico quanto alla sua strumentazione - esprime il suo più avanzato sviluppo nei paesi del Nord del mondo; al contrario, approcci olistici e strumentazioni di tipo naturale e simbolico continuano a perdurare laddove è maggiore il "ritardo" tecnologico, coniugandosi pertanto con ciò che spesso accompagna questo "ritardo": bassi indici di crescita del PNL e quindi mancanza di risorse economiche (e, nella maggior parte dei casi, sociali). Ciò che normalmente si chiama "povertà". In molti ambiti e in molti paesi del Sud si è visto pertanto nelle pratiche tradizionali un ostacolo allo sviluppo: un "arbitrio" logico in cui entrano in gioco tanto postulati non dimostrati (nulla infatti dice che, in presenza di copertura medica di tipo moderno, la medicina tradizionale sparirà), quanto visioni dello sviluppo che tutte si costruiscono sulla base di indicatori confezionati dalle agenzie che amministrano internazionalmente la salute. Eppure questi postulati e queste visioni dello sviluppo, anche se non esplicitamente confermati dai Progetti di Cooperazione Sanitaria (la conferma implicherebbe uno sforzo teorico che quasi mai si incontra nei progetti in questione), non vengono neppure confutati.

Ugualmente ignorata è un'altra posizione, adottata spesso da quelle strutture sanitarie locali che si vedono oggetto di interventi internazionali il cui "pacco dono" prevede, insieme a ben graditi aiuti "reali" (rimodellamento delle istallazioni, medicinali, fondi per i vari corsi di formazione del personale, etc.), fumosi interventi a favore della Medicina Tradizionale. Con aria rassegnata, i responsabili di queste unità locali si prepareranno al peggio, con la segreta speranza (non sempre vana) che non se ne faccia nulla, ma anche, almeno in alcuni casi, disposti ad accettarne i possibili frutti, sulla base della convinzione che alcuni elementi della medicina tradizionale (naturalmente le piante dall'effetto scientificamente comprovato), rappresentino una risorsa, per quanto "inferiore" e tipica di situazioni di sottosviluppo, da utilizzare in sostituzione di rimedi inaccessibili, più sofisticati (e quindi più efficaci). Un atteggiamento, questo, del tutto legittimo, considerando che quella visione critica della scienza medica moderna, che dovrebbe stare alla base della proposta di valorizzazione e presa in considerazione delle medicine tradizionali, non ha grande visibilità nelle attività concrete: al contrario, tutto congiura verso la conferma che la propaganda della medicina tradizionale, quando non è il sogno romantico di antropologhi che hanno perduto il cammino, sia la calcolata proposta delle agenzie internazionali che intendono in questo modo abbassare i costi della copertura sanitaria di popolazioni marginali (e da dimenticare).

Inoltre, pensare di argomentare la bontà delle medicine tradizionali, esibendo la crisi della biomedicina nei nostri paesi dell'Occidente, è espediente che inizia a mostrar la corda: non perché la crisi non sia reale, ma perché intorno ad essa non si coagulano proposte politiche e scientifiche visibili - come del resto dimostra la assenza di visione critica della stessa cooperazione medica. E le grandi distanze che, nella qualità del servizio, separano i ricchi e i poveri (oltretutto non sempre distribuiti ordinatamente: nell'Occidente i primi, nel Sud del mondo i secondi) non possono comunque nascondere che si tratta di esiti di uno stesso fenomeno. La connessione tra il "qui" e il "lì" è intuitiva; anzi: è sotto i nostri occhi, fino al punto da annullare un qui e un lì: la esclusione della maggioranza della popolazione mondiale dalle opportunità di cure che spesso segnano il confine tra la vita e la morte, l'indifferenza verso la valorizzazione di forme di cura e presa in carico della malattia ("biologica" o "mentale") la cui efficacia è evidente, anche se non "dimostrabile"; la estrema specializzazione della biomedicina in quanto scienza e, al contrario, l'estensione dei suoi ambiti in quanto merce (in coincidenza con la restrizione dei suoi servizi): sono tutte facce di questo poliedro, che costituisce la medicina cosmopolita, il suo sapere scientifico e le sue azioni politiche intorno al mondo.

Gli interventi di cooperazione sanitaria che hanno abbracciato la causa della trascultura medica hanno spesso errato anche in questo: abbiamo dimenticato, nella nostra appassionata "difesa" delle medicine tradizionali, l'esclusione politica ed economica della popolazione che - in una relazione tutta da analizzare caso per caso - si è accompagnata al loro perdurare. E' vero, in teoria si è affermato di volere collocare la valorizzazione delle pratiche e dei saperi tradizionali in un contesto di giustizia sociale, economica ed etnica, che permettesse alla popolazione di accedere ai benefici reali che, nel caso di alcune malattie, la tecnologia moderna offre; si tratta della quadratura del cerchio, e molti sforzi teorici, molti tentativi pratici si devono mettere in atto per incontrare il punto - o i punti - nodali dove ciò può avvenire: dentro la stessa medicina tradizionale? Dentro il sistema medico ufficiale? Dentro politiche economiche e sociali? E queste ultime, locali o globali? L'assenza di questi temi anche dal panorama dei movimenti sociali attuali - pure così sensibili ai temi della ibridazione e della trasformazione dal basso - è realmente preoccupante. E ci accusa tutti noi, gli operatori e i teorici della transcultura medica.

2. Al di là del fiume

Quando, vari anni orsono, iniziavo l'esperienza della transcultura medica, la meta, certo lontana, era - se ben ricordo - l'articolazione tra le due (o più) medicine. Una articolazione che solo può darsi, si diceva, in alcuni punti focali, che rispondano a due caratteristiche: presentare elementi di convergenza (se non concettuale, per lo meno empirica); essere strategicamente importanti, nella visione e nel giudizio dei due o più sistemi medici in gioco. Solo queste due condizioni, infatti, permetterebbero la costruzione di azioni definite, puntuali e comuni, a beneficio della popolazione.

Non è mio campo l'analisi della prima condizione, che fa appello a una possibile trasculturazione di dati clinici, un tema posto con autorità da Kleinman (1973 e 1980), ma presentemente congelato, e comunque ancora molto lontano da indicazioni operative.

Anche la seconda condizione, apparentemente più semplice, non progredisce. Chiama in causa approcci politici, sociali, antropologici e terapeutici fortemente interdisciplinari. Comporta indagini e riflessioni intorno alla concettualizzazione della salute e della malattia, all'idea di efficacia terapeutica - sullo sfondo di concetti quali sviluppo, progresso, benessere, e persino vita e morte. Queste indagini mancano, o sono disperse, o non sono accessibili lì dove più servono. E soprattutto, mancano i soggetti che possano compierle. Qui e lì.

Due strade dunque intravedo:

La formazione di "esperti" davvero esperti - una formazione eticamente responsabile, capace di sfidare l'attuale bussiness che intorno a questa nuova, tecnicissima cooperazione si è costruito - è un primo passo ineludibile. Il profilo ideale dell'esperto che attualmente la cooperazione sta favorendo è fortemente tecnico, e del tutto svincolato dalle tematiche generali della cooperazione stessa - o almeno dalle tematiche di una cooperazione, l'unica auspicabile, non allineata con le attuali politiche internazionali. Le "Medicine Tradizionali" (cioè un approccio critico e transculturale nei confronti dei programmi di salute di base che normalmente la cooperazione stessa promuove), può essere uno di questi campi di expertise (in realtà lo è sempre meno; ma supponiamolo): a nulla serve se in tutti gli altri campi il profilo dell'esperto è quello di una persona formata alla luce della universalità dell'approccio della scienza che maneggia.

E' interesante notare che le figure che con più frequenza appaiono nei programmi di intervento (e ancora prima nei programmi di studio) che si riferiscono all'ambito della salute, sono sempre meno medici e sempre più "esperti" della salute: economisti della salute, statistici della salute, esperti della comunicazione nel campo della salute, esperti nella gestione dei servizi di salute...

Il medico è sospinto sullo sfondo; ma non, come si auspicava un tempo, per dare spazio ad approcci più "umanistici", capaci di recuperare gli aspetti sociali, culturali e simbolici del curare, bensì per tecnicizzare quanto più possibile il servizio della salute, in cui il clinico - e l'indesiderato margine di interpretazione che la sua ars lascia aperto - gioca una parte che si avvia a divenire secondaria. Non vi è dubbio che l'atto del curare non è solo un atto clinico - anzi, non è principalmente un atto clinico. E' un atto che va inserito in un contesto, e dipenderà dagli esperti che sceglieremo il tipo di contesto in cui, alla fine, questo atto si troverà collocato.

Naturalmente articolata con la prima, la seconda strada è quella della ricerca. Ricerche coraggiose, eterodosse. Specifiche o generalissime, poco importa, e dipende dai diversi casi. Ricerche libere, indipendenti, esterne ai circuiti delle agenzie internazionali. Se mi è difficile darne in positivo i caratteri, mi si permetta definirle al negativo: ciò che non devono essere. Lavori capaci di prendere le distanze dalle ben note indagini che, a partire dagli anni 50 (dunque immediatamente dopo la scoperta del sottosviluppo e la necessità di combatterlo), hanno occupato quasi tutto lo spazio di "ricerca", disponibile nei circuiti della cooperazione medica. Si trattava - e si tratta - di studi commissionati dalle grandi agenzie internazionali, volte prioritariamente a capire il comportamento di una determinata popolazione nel campo della salute. Un comportamento "deviante" che gli investigatori, trovando il bandolo della matassa (qui il ricorso all'antropologia, spesso a studi realizzati in altri contesti), dovevano aiutare a correggere. Gli sforzi dunque di questi investigatori, impiegati dalle allora giovani agenzie internazionali per lo sviluppo, erano rivolti a facilitare la accettazione, da parte della popolazione indigena, della medicina cosmopolita, il che presupponeva due postulati: che la medicina cosmopolita è sempre e in ogni campo la migliore; e che gli ostacoli che questa medicina incontra nel suo cammino di diffusione nel mondo sottosviluppato si devono alla "ignoranza" della popolazione, inadeguatamente informata sui benefici della medicina moderna e inadeguatamente educata ai comportamenti necessari per introdurre tali benefici.

Cosa è cambiato da allora? Molto sul piano del dibattito teorico tra i "sapienti". Straordinariamente poco, forse nulla, nel campo della ricerca "militante" e nel campo degli interventi "per la salute", che continuano ad essere illuminati da una visione biologista dell'oggetto e positivista del metodo, che ignora le crisi del discorso e dei paradigmi forti. Con sempre maggiore e indiscussa autorità, dunque - via via che perdono credibilità di fatto, acquistandola, per un paradosso puntuale, di diritto - le diverse istanze preposte alla gestione e distribuzione dei beni propongono della salute un'unica dimensione, biologista e tecnologica, aiutati dagli innumerevoli interessi economici che intorno a questa visione fioriscono.

Nel frattempo, continua la mappatura delle resistenze e dei loro "errori". Perché il comportamento della popolazione oggetto dell'intervento, in quella visione, è sempre il risultato di un errore, di una mancanza - ed è nella individuazione di questo errore che si inserisce lo strumento dell'analisi socio-antropologica. Questa, nel caso di studi più avvertiti, può finire con l'intravedere, sia pure posto sotto la voce "devianza", un pensiero, una ragione - persino tutto un sistema medico, e la sua cosmovisione; aprendo così una ferita, lacerando il tessuto concettuale nel quale questi interventi si collocano. E' lì, credo, che deve appuntarsi l'attenzione, innanzi tutto teorica, della nostra "cooperazione". E' lì che si aprono spazi di contaminazione, di scambi, di ibridazioni di conoscenze, esperienze, risultati (magie o scienze). Non si tratta certo di riproporre la vecchia formula della "ricerca/azione", che ha banalizzato, nella giustapposizione cronologica, ma persino nell'intreccio, i due "momenti", poiché i "dati" che la ricerca ha cercato sono stati marginali e secondari, strumenti minimi di un agire i cui caratteri sono comunque già stati decisi da tempo - o meglio: esistono in sé, sono i caratteri permanenti, eterni, del nostro "pensiero forte". Il punto nodale è la qualità di questa ricerca e la qualità di questa azione. Una qualità non razzista, non discriminatoria, non aggressiva, non distruttiva.

Investire nella formazione di "operatori" (qui e lì) che realmente sappiano e vogliano misurarsi con questi temi (o meglio: con la visione teorica e l'approccio politico che questi temi comportano), creare un "capitale" di idee, esperienze, informazioni, desideri e sfide alte, di alto profilo umano e professionale, e usarlo in maniera decisamente e chiaramente antagonista rispetto alle attuali politiche di guerra e di morte in cui anche la cooperazione si inscrive, è forse l'unica strada per potere tentare di usare la transcultura dei saperi medici come strumento di liberazione - dalla malattia e dal dolore, ma anche dall'ingiustizia, dalla guerra, dalla distruzione, dalla moderna barbarie in cui, con le nostre scienze, precipitiamo.

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