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Oltre la capacità

di P. Zatti

 

 

 

Si deve al saggio di Thomas Kuhn su " La struttura delle rivoluzioni scientifiche" l'idea che da più di un quarto di secolo accompagna ogni considerazione critica sullo stato dei diversi saperi : quella di "paradigma ", inteso come costellazione di credenze, idee, strumenti di lavoro condivisi dagli appartenenti a una comunità scientifica.

L'ascesa e il declino di un paradigma disegnano un'epoca nella storia di una disciplina: una costellazione domina a lungo l'evoluzione del sapere, e così a fondo che le "conquiste" del periodo storico che segue una "rivoluzione scientifica" sono spesso svolgimenti, sempre più ampi e profondi del paradigma instaurato. Solo la crisi e la revisione della grande premessa consentono l'inizio di una nuova esplorazione.

Il pensiero giuridico italiano degli ultimi decenni ha conosciuto una fase di critica e di incrinatura del paradigma vigente, nella quale da diversi punti di vista si è posto in luce il legame tra gli strumenti in uso nel discorso giuridico e quelli che Von Hippel chiamava i " ricordi infantili del primo Ottocento", iscritti naturalmente, a loro volta, in più antiche e profonde memorie, largamente inconsce.

E' divenuta , così, materia di comune didattica , e qualche volta di sintesi riduttive la collocazione delle radici del nostro linguaggio nella costellazione di concetti dell'individualismo cosiddetto "possessivo" o "proprietario", che univa in un tessuto senza cuciture le idee del Soggetto, del Diritto , dell'Atto, della Colpa : ciascuna quasi manifestazione di un fuoco centrale, l'immagine dell'uomo inteso filosoficamente come sittliches Vernunftwesen, essere morale dotato di ragione e volontà, protagonista della scena etica e protagonista della scena giuridica che da lui stesso è creata .

In alcuni settori, relativamente delimitati - la teoria dell'interpretazione della legge e degli atti privati, la strumentazione della tutela degli interessi particolari, la responsabilità civile, la teoria della persona giuridica, per certi aspetti la teoria dell'atto giuridico e la considerazione della proprietà - la consapevolezza e la critica del paradigma individualista hanno liberato il pensiero giuridico da condizionamenti antichi e hanno permesso un'evoluzione significativa.

In altri settori però, e forse nell'insieme del sapere giuridico, la costellazione originaria è solo incrinata, e la sua caduta e sostituzione pare lontana.

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Tutti sappiamo come il concetto di capacità , nelle due accezioni di capacità giuridica e di capacità di agire , si iscriva nella costellazione del Soggetto come l'esito e insieme la chiave del superamento degli status; la capacità riflette, sulla scena giuridica, quelle che Domat considerava le sole qualità "naturali" : le qualità che la natura stessa imprime e distingue in ciascuna persona. Tali le qualità legate all'essere padre, madre, figlio; tali anche le "distinzioni che fa la nascita " come il sesso, o che induce l'età ; e tali infine, nel linguaggio di allora conservato nelle codificazioni dell'800, la demenza, l'imbecillità, il furore, che non tolgono alla persona lo stato che essa ha in ragione di altre qualità, ma la pongono tuttavia in uno specifico stato di incapacità che ne richiede la tutela o la cura; così che "sapere se una persona è insensata è questione che, secondo Domat, "si chiamerebbe una causa di stato".

Le espressioni che il giurista del 600 riferiva alla "natura", nel pensiero del primo Ottocento, sensibile all'idealismo e in particolare alla concezione kantiana dell'uomo, sono impregnate del valore etico riconosciuto alla libera volontà dell'uomo.

Non per altro "ogni singolo uomo e solo l'uomo singolo"- secondo l'asserzione savignyana- è soggetto di diritto, se non perché proprio del soggetto è di avere volontà e ragione , radice e fonte della "signoria" che nell'etica dell'individualismo possessivo è il significato degli atti che si svolgono sulla scena giuridica. La soggettività precipita poi nella capacità giuridica, come attitudine ad avere diritti, ma la capacità d'agire ne rimane il connotato costituente, che fa considerare soggetti, direi per estensione ma non per essenza, minori e interdetti: della capacità d'agire si discute infatti nel capitolo degli "atti liberi" ( Freie Handlungen) titolo che dà piena ragione del significato attribuito alla capacità d'agire come attitudine ad acquistare diritti ( dunque a fare ciò, cui la capacità giuridica rende idonei e che è il ruolo del Soggetto) : specchio giuridico della libertà morale riconosciuta a ciascun uomo.

Quel che mi preme sottolineare è che il paradigma originario del nostro sapere, in cui il concetto di capacità trova la sua matura sistemazione, riflette una concezione dell'uomo fondata su un postulato etico e su una predicazione pre-psicologica di "qualità" considerate da un lato come aspetti della "natura", dall'altro, nella loro rilevanza giuridica, come condizioni della capacità di obbligarsi.

Ciò di cui si parla sono certo gli uomini, o forse meglio le "persone fisiche" : ma le persone considerate non nella loro immediata varietà nell'immagine che risulta da due fuochi : l'archetipo dell'Individuo, dell'Uomo singolo definito per la sua libertà morale, e la veste dello status unificato che raccoglie alcune qualità naturali - la ragione e la volontà, archetipi anch'esse- secondo le sue leggi di selezione del rilevante e dell'irrilevante.

Particolarmente significativo, da questo punto di vista , è il primo Thibaut : il quale lega insieme la soggettività e la capacità d'agire , ed esclude dal novero dei soggetti egualmente gli imbecilles e i monstra : questi perché manca in loro la forma dell'uomo, quelli perché in loro manca la sostanza dell'uomo, l'essenza dell'archetipo, il valore che si fa connotato di ciò che l'uomo "è" in sé, da un punto di vista etico e metafisico, non empirico né, tantomeno, psicologico.

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La consapevolezza dei ricordi infantili comprende anche il riconoscimento della loro "pietrificazione".

Matura, a metà dell'Ottocento, un altro paradigma del sapere, che solo nel nostro secolo mostrerà le prime incrinature e un crescente travaglio : quello del positivismo. Allo sguardo oggettivo, osservatore della "realtà" giuridica data, nella quale il primato non è più del Soggetto, ma della Norma o dell'Ordinamento, la veste giuridica dell'uomo è ormai quella, tecnicizzata, del centro di imputazione di rapporti giuridici.

Le idee-valore che ruotavano attorno al ruolo dell'individuo - Soggetto, Volontà, e appunto, Capacità- conservano i loro simboli linguistici; ai quali però si fa corrispondere un significato tecnico relativamente costante ma "pietrificato": non più risonante , cioè , alle premesse ideali che li avevano animati e adeguato invece al ruolo comportamentistico dell'homo iuridicus.

La permanenza dei concetti è pagata al prezzo dell'insignificanza una presunta neutralità tecnica induce i giuristi a custodire e tramandare concetti sterilizzati, oggetti e strumenti di una "scientificità" ingannevole, che esige e malamente nasconde la perdita di significato del linguaggio giuridico.

Così la capacità, antica qualità naturale del soggetto, armatura della volontà dell'individuo protagonista, diviene un "requisito" soggettivo di una fattispecie, osservata nel meccanismo della norma che collega oggettivamente a fatti qualificati la qualificazione di comportamenti.

E' forse a causa della "pietrificazione" dei concetti che i primi decenni di sviluppo della psicologia come " scienza" non sembrano indurre alcuna sensibile modificazione dell'impianto concettuale in tema di capacità legale e naturale d'agire .

Nel 1888 il pandettista Dernburg riporta serenamente, sotto il paragrafo dedicato ai "Geisteskränke" la distinzione romanistica classica tra furiosi, palesemente " fuori di senno" (offenbares Wahnsinn) e dementes , classificati come " Geisteskränken anderer Art"; avverte anzi che al tempo di Giustiniano la distinzione aveva perduto di interesse, e giustamente, perché ciò che rileva è il risultato vale a dire il difetto della normale " forza mentale " (GeistesKraft) , non la forma patologica di Geisteskrankheit . E la serenità con cui ignora l'intero processo e connotati della malattia mentale trova conforto in una breve nota, in cui riferisce la comune definizione medica di malattia mentale del suo tempo : lo stato in cui un uomo è privato dell'uso della ragione

Una diversa impressione si ricava in prima lettura da un testo più tardo, il Trattato di diritto civile italiano a cura di Pasquale Fiore. Nel tomo dedicato alle " Persone incapaci", Giuseppe Piola introduce il paragrafo relativo agli incapaci maggiorenni con le parole : " la psicopatologia insegna" ; e rende poi conto diligente delle diverse "cause" della "anomalia psichica" e delle "condizioni mentali patologiche" che secondo la scienza del tempo pongono una persona nella possibilità di essere " sommamente influenzato" dalla volontà altrui; infine distingue secondo scienza le condizioni psichiche anomale permanenti da quelle temporanee e intermittenti.

Il giurista si fa dunque attento alle conoscenze o ai teoremi della scienza del suo tempo -della psichiatria, più che della psicologia.

Ma come li legge? La loro, pur delimitata, varietà, riceve una sorta di prosciugamento e tipizzazione dettati dal paradigma giuridico : ogni condizione descritta - dalla "psicosi, alle "anomalie degenerative" all'ubriachezza, alle emozioni perturbanti come la collera , l'odio, il timore, tutto è raccolto in tre categorie: a) la categoria generalissima di "anomalia psichica " o, in negativo , mancanza di "sanità mentale" che consente di dare rilievo a qualsiasi condizione nel suo esistere in un momento dato e corrisponde al concetto giuridico di incapacità naturale; b) l'idea di infermità di mente che denota la condizione stabile della persona che dev'essere "protetta" e infine c) l'alienazione mentale che prelude ai provvedimenti di restrizione manicomiale.

Sotto i due primi punti di vista, e in particolare sotto quello dell'incapacità naturale, il giurista ascolta gli psichiatri per raccogliere un risultato, sempre quello: la "mancanza di discernimento" , ovvero il difetto della "qualità" che fa l'uomo capace di obbligarsi. Si guarda in realtà alla presenza, assenza, vizio di un requisito dell'atto giuridico; e ciò in armonia con una definizione dell'atto che risale al paradigma originario : l'atto come espressione del "soggetto " creatore di rapporti giuridici per forza di ragione e volontà. Ciò che conta, dunque, è che manchi nell'atto "quel carattere della volizione che, convenzionalmente, si è intesi chiamare libertà" . Il giurista osserva gli studi psicologici per ricavarne una sua conclusione, che si esprime nei termini di sempre : " aver l'uso di ragione" o " essere padroni di sé"

Vale dunque il postulato - un tempo etico, ora forse soltanto logico-pratico - che sembra scritto nel nucleo del discorso giuridico. Esso suona così : esiste la libertà ed è legata all'uso di ragione ; l'uomo che ha uso di ragione è libero; non lo è, e va protetto da sé stesso, l'uomo che non ha uso di ragione.

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L'evoluzione successiva della psichiatria e della psicologia hanno influenzato il diritto in modo sensibile ; la critica all'idea storica di follia, ai definienti e alla nozione stessa di malattia mentale, al modello medico in psichiatria, scuotono fortemente il paradigma giuridico , che regge al prezzo di incisive correzioni .

Da una parte, il diritto scopre l'inettitudine del modello della capacità legale d'agire e della sua stella gemella, la potestà e rappresentanza legale, a governare i problemi del l'autodeterminazione nelle zone in cui emerge l'implicazione diretta degli interessi personali : dal contratto di lavoro, agli atti di disposizione del proprio corpo, al consenso al trattamento medico, ai consensi familiari, agli atti di disposizione degli interessi personali, il territorio dominato dalla capacità legale si restringe gradualmente; anche se il processo, che accelera progressivamente in dottrina e in giurisprudenza, stenta ad uscire, nella prassi quotidiana, dalle vischiosità del costume che tende ad appoggiarsi sugli strumento della capacità e della sostituzione legale.

Dall'altra, l'incapacità naturale, legata nel codice civile dell'Ottocento all'idea di sanità mentale - che resiste finanche nel progetto del codice civile vigente come rubrica dell'art. 428- si apre lentamente, nel campo degli atti negoziali, alla rilevanza di condizioni in cui non si riscontra il " totale obnubilamento "delle "facoltà mentali" né una condizione di fatto paragonabile a quella che consente l'interdizione: il passaggio dallo schema della nullità a quello dell'annullabilità consente di erodere il modello del soggetto "senza uso di ragione" e di dare rilevanza alle condizioni che menomano gravemente ma non totalmente la capacità di valutare i fatti e di decidere i comportamenti.

Infine, storia recente, l'abbandono del sistema manicomiale e la necessità di rompere, secondo il linguaggio di Paolo Cendon, l'ingessamento dell'infermo di mente stimola studi e reazioni, che portano a meditare sull'esperienza francese di rottura del legame tra protezione e incapacità, e a costruire , nelle pieghe di un sistema che non ha nel proprio DNA gli strumenti del diritto "debole" attrezzature di sostegno al sofferente psichico che preservino insieme le esperienze possibili di autonomia e le esigenze di garanzia sia del sofferente che dei terzi.

Nulla di tutto questo dev'essere minimamente sottovalutato.

Ma occorre ormai avvedersi del fatto che si tratta di elaborazioni ancora interne al paradigma originario : il quale esige, come sua premessa , che l'uomo giuridico sia " per essenza" e per "natura" capace di esercitare lucidamente processi di decisione razionalmente condotti che si manifestano in atti di autonomia ; che tale capacità si configuri insieme come il valore che fa l'uomo persona per il diritto e il connotato "normale" della realtà umana ; che la capacità di essere "padroni di sé", di determinarsi "secondo ragione " sia non soltanto reperibile in natura ma "regola" naturale e perciò legge adeguata delle relazioni umane ; che l'affaccendarsi dei soggetti sulla scena giuridica debba e possa quindi seguire il criterio della capacità eguale che trova limite solo nella patologia.

Più a fondo : ciò che domina il discorso sulla capacità è una concezione della persona e delle sue relazioni fondata sull'etica , e quasi sul modello metafisico della separazione autosufficiente ; sull'idea che sia proprio dell'uomo- non solo come valore, ma come realtà ed esperienza- saper frapporre tra sé e gli altri, tra sé e le vicende che affronta nel vivere , uno schermo dietro al quale si produce e si vive la libera decisione; e che l'inconsistenza o la fragilità di un tale schermo, e dei processi che il suo riparo garantisce, debba essere guardato come un fatto patologico da trattare come caso singolare rispetto alla regola.

Da questo punto di vista, il concetto giuridico di capacità d'agire si perpetua come segno e strumento dell'individualismo etico e come attrezzo concettuale sostanzialmente pre-psicologico.

 

 

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Ora, i temi di cui discutiamo sono tesi tra due idee. Quella di malattia mentale, che compare nel titolo del convegno, e quella di sofferenza psichica, che compare nel titolo della sessione odierna.

Non ho la competenza necessaria ad accogliere o respingere, o soltanto a interpretare, il concetto di malattia mentale: se sia possibile distinguere con fondamento, e con quali criteri, nelle fragili configurazioni della mente, uno stato da chiamare salute e uno da chiamare malattia, e se ciò sia diverso da uno stato di benessere rispetto ad uno stato di sofferenza, è tema su cui occorre lasciare la parola a psichiatri e psicologi, perché ci guidino nella foresta , sempre più intricata per un osservatore estraneo ma partecipe, delle posizioni scientifiche.

Ma da un punto di vista giuridico mi sembra più utile e meno controvertibile un approccio fondato sull'idea di sofferenza psichica, e vorrei dire di sofferenza e basta, visto che non v'è altro luogo e veicolo della sofferenza che non sia la psiche.

"Sofferenza " indica una condizione , se non la condizione, dell'essere umano, più che di una parte degli esseri umani; allude ad un carico da portare, e alla possibilità che il carico sia troppo grave per consentire al sofferente di vedere con chiarezza; a differenza di altri termini tradizionali, non contiene il germe di una divisione tra campi di esperienza contrapposti, o tra ciò che è norma e ciò che è singolare o abnorme.

La scelta dunque fa pensare ad un discorso giuridico aperto al mutamento del paradigma di altri saperi, e in particolare delle scienze che si occupano della mente, dell'esperienza psichica e , se mi si permette l'espressione, spirituale degli uomini : richiama un modo di considerare l'esperienza mentale e psichica che dubita dei crinali troppo nettamente disegnati, e preferisce disporre in un unico spettro differenti stati di coscienza e differenti stati di benessere e malessere. Se l'allusione sia pertinente, se il linguaggio sia fondato da un punto di vista psicologico e fecondo per un dialogo interdisciplinare è cosa da verificare.

Di certo, a mio parere, è valido e fecondo per una revisione dei concetti giuridici pietrificati dal tempo.

Occuparsi della sofferenza psichica significa chiedersi come regolare rapporti e decisioni che si inseriscono nelle condizioni di fragilità, di fatica, di malattia e di battaglia, di handicap, di non autosufficienza, di declino delle forze e della vitalità, di vecchiaia, di attesa e di desiderio di morire: le condizioni che tutti gli esseri umani incontrano in qualche punto tra la nascita e la morte, e che li conducono in quell'esperienza in cui, come dice S. Levine, "la mente si consuma e il cuore diviene di brace"

Problema del giurista e in particolare del privatista è chiedersi come attrezzare le decisioni in questi stati : la dignità di poter decidere, la difficoltà di saper decidere, la sicurezza del contesto della decisione e di chi interagisce con il sofferente.

Ebbene, se vogliamo affrontare questo problema per quel che è, e per quel che si avvia ad essere nella società che ci aspetta, non possiamo avvicinarlo con le mani legate dal paradigma del soggetto, che ci impone di guardare agli uomini come all'Uomo della natura o della metafisica, dotato per essenza di libera volontà, possessore dell'uso di ragione, padrone di sé e signore delle cose, che esercita tali sue qualità in Atti che scaturiscono dal suo intelletto e dalla sua volontà come Minerva dalla mente di Giove; non possiamo affrontare quei problemi con gli occhi fissi ad un immagine irreale sempre eguale a se stessa, che non si piega ma solo si spezza, precipitando nell'incapacità, quando la sua libertà cessa di veleggiare, lucida e forte, sopra la foresta oscura della mente, e il soggetto , perdendo la S maiuscola, vi sprofonda come Icaro nel mare.

Abbiamo bisogno di un diverso approccio, che io sono lontano dal saper descrivere, e che forse un giovane Savigny del nuovo secolo potrà disegnare.

Possiamo intuire però che un nuovo paradigma debba avere alcuni connotati, che è possibile tener presenti per orientare in giusta direzione la revisione dei concetti di cui facciamo uso : dovrebbe fondarsi sul senso dell'interdipendenza tra singoli e tra singoli e gruppo, anziché sul rapporto di separazione tra monadi individuali e ambiente-oggetto; dovrebbe guardare all'esperienza psichica degli uomini come ad una continuità di stati, che procedono da condizioni di oscurità e viluppo emotivo - che chiamiamo di sofferenza - a condizioni di apertura e di dispiegamento armonioso- che chiamiamo di benessere; dovrebbe , in conseguenza e soprattutto, guardare alle decisioni non come ad atti, ma come a processi in cui domina l'interazione tra i protagonisti e il contesto; guardare infine al modo in cui la decisione si comunica con una sapienza ermeneutica ricca ed aperta, capace di considerare l'intero linguaggio della persona dalle parole agli atteggiamenti.

Se teniamo presenti queste esigenze, l'attesa di un nuovo paradigma può essere bene impiegata.

Possiamo anzitutto ripulire vigorosamente i concetti.

L' idea di capacità legale di agire è divenuta fonte di equivoci, perché dotata di un'estensione - a tutta l'attività giuridica, a tutti gli atti negoziali o di autonomia- che non corrisponde più alla realtà del diritto applicato né alla necessità. La capacità legale può sopravvivere se torna alle sue origini. Domat riferiva la qualità naturale della capacità esclusivamente alle obbligazioni e successioni, solo oggetto del diritto civile; il diritto privato dell'ultimo secolo ha conquistato territori impensati fuori del campo patrimoniale; la capacità legale se ne è impadronita come una milizia al seguito. Se le esigenze di certezza proprie del terreno patrimoniale valgono ancora - ma avrei dei debbi per l'atto testamentario, almeno quando non sia dispositivo di sostanze rilevanti , ,la capacità legale, che le soddisfa, va ridotta nell'ambito in cui quelle esigenze vigono. Dunque, capacità di atti di disposizione patrimoniale : questo è l'unico senso della maggiore età legale.

Dobbiamo poi abbandonare in modo risoluto la relazione tra protezione e incapacità. Essa è fondata in un paradigma ancora più antico, che attribuiva all'individuo i caratteri del pater familias, e che legava la capacità all'essere sui iuris e la protezione all'essere alieni iuris, soggetto a potestà, e perciò incapace .

La chiave della correlazione tra potestà e capacità va posta in luce per essere abbandonata: essa sta nella concezione secondo cui il soggetto debole è di inciampo ad un traffico che può svolgersi solo tra soggetti forti; nell'idea che il debole debba essere perciò alieni iuris, soggetto a potestà, e che il forte debba esercitare la protezione e la rappresentanza : l'incapacità è conseguenza, come risulta limpidamente dalle pagine di G. Piola.

Occorre dunque consentire al soggetto sui iuris la protezione necessaria senza sottoporlo a potestà e quindi senza incapacitarlo; qui abbiamo già l'esperienza francese che ci guida e che occorre elaborare e perfezionare.

Più delicata, ma necessaria per ragionare di sofferenza, è l'ultima liberazione, quella dal concetto di capacità di intendere e di volere.

Non entro nella questione dell'imputabilità, civile e penale, che è oggetto di altre relazioni, e che si intreccia, soprattutto in campo penalistico, con l'idea stessa di pena . Mi limito a ricordare l'ambivalenza dell'idea di incapacità di intendere e volere, che apre la via della "reclusione senza termini" nel manicomio giudiziario, ma al tempo stesso la sofferenza degli accertamenti di capacità per serial killer e massacratori familiari, cogliendo del tema solo questo spunto che interessa il seguito delle mie brevi considerazioni : in campo di imputabilità, come e forse più che negli altri campi di rilevanza della capacità di intendere e volere, il paradigma giuridico pone allo psichiatra una domanda fondata giuridicamente - finché il paradigma vale -- e forse infondabile scientificamente . La domanda imposta dal paradigma giuridico è semplificata fino ad essere distorta, perché deriva dalla riduzione preventiva del campo visivo ad un aspetto astrattamente separato del rapporto tra soggetto ed atto materiale: essa chiede se sussista nell'autore dell'atto la capacità di comprensione e di determinazione con riguardo alla materiale consistenza dell'atto stesso, alla relazione causale tra il comportamento e le conseguenze, al " disvalore" dell'atto ; e seleziona ed isola questa ipotetica presa di coscienza e movimento della volontà, questi "strati" che , rispetto all'esperienza integra e reale , possono forse meritare il nome di realtà virtuale. Il significato dell'accaduto, la collocazione dell'atto tra i simboli nei quali un uomo cerca ragioni, senso e relazione con l'esistenza che gli è toccato di vivere, figura bensì tra le motivazioni del dispositivo che lo psichiatra è chiamato a fornire, ma va costretto nell'imbuto della domanda semplificata, che chiede di accertare esistenza inesistenza o grado di esistenza dell'uso di ragione e della padronanza del volere: domanda, a mio parere, riduttiva rispetto alla sua stessa funzione di premessa al punire o non punire.

Quanto al campo della decisione nel diritto privato, della "autonomia", il discorso presenta gradi diversi.

Nel campo in cui rimane valido il concetto di capacità legale - quello degli atti di disposizione patrimoniale, ampiamente intesi - le esigenze di certezza e il criterio stesso dell'affidamento possono rendere necessario conservare un concetto che stabilisca una soglia relativamente standardizzata di lucidità e si traduca in criteri accessibili di riconoscimento della soglia .Siamo nel campo in cui servono le convenzioni, e non c'è niente di male a stipulare una convenzione che stabilisce un confine - convenzionale, senza pretese di realtà - tra capacità e incapacità : a ben vedere, questa è una capacità legale occasionale, non , come si usa dire, una "capacità di fatto"

Ma al di là di questo cerchio, si apre il campo, sempre più vasto, delle decisioni non patrimoniali : dei consensi che riguardano la sorte fisica della persona e i suoi legami affettivi immediati , e più ampiamente quella vasta identità che si conserva solo attraverso la gestione dei diritti della personalità : la dignità, l'intimità privata, il pudore, l'immagine, la vita di relazione. Come vivere, con chi vivere, a chi affidarsi, come farsi curare, come non farsi curare, come morire, cosa chiedere ai congiunti per il tempo oltre la propria morte.

Siamo in un territorio aperto alla sofferenza, e spesso generato dalla sofferenza : dove è necessario consentire a una decisione di farsi strada nella confusione, nella paura e nel dolore, nella debolezza fisica che agita e annebbia la mente, nella fragilità delle barriere che ci separano da angeli e demoni interiori; là dove si è esposti al gesto, alla domanda, alla freddezza, all'ansia di chi sta vicino.

E' possibile continuare con un paradigma che lega la rilevanza giuridica di queste decisioni o di queste richieste , come pure la valutazione dei comportamenti di risposta - il trattamento medico, la prestazione di assistenza, il rispetto di volontà finali - a un concetto come " capacità di intendere e volere "?

Vogliamo credere che sia degno di un diritto intelligente applicare al malato che annega nella sua paura il modello dell'uso di ragione e della padronanza di sé, ed escluderlo, se non ne risulta provvisto, dalle decisioni che lo riguardano?

Qui il diritto, che incontra certo il suo limite, può deformare i rapporti se fa uso di idee deformi. E in questo territorio, l'idea di capacità è un'idea deforme , e un'idea ancora più deforme è quella di atto giuridico e di atto di volontà. E' questa congiura che occorre rompere.

Capacità di intendere e volere è idea deforme perché pone un quesito che rifiuta la complessità, e la sofferenza è complessa e non va semplificata in nome di esigenze che hanno il loro posto nel traffico dei beni, non nella gestione dei rapporti con il disagio e il dolore .

Insisto sul paradigma : la capacità di intendere e volere è un quesito che si forma tenendo gli occhi fissi a un'immagine , quella dell'Individuo come entità morale, dotato di ragione e volontà , padrone di sé e signore dei suoi atti; è questo Cavaliere Inesistente che, alto sul mare della coscienza, concepisce, osserva e delibera un Atto. E' guardando a questa immagine che si forma ed ha un senso la domanda sulla capacità di intendere e volere; e allo psichiatra viene chiesto di tenere da un lato davanti a sé questa icona metafisica, per guardare al singolo, concreto uomo che attraversa faticosamente le acque della sua psiche, per riconoscervi l'icona . Specchio deforme, che può produrre solo ritratti deformi.

La domanda sulla capacità è un imbuto, in cui può entrare tutta la moderna psichiatria, ma ne esce sempre e solo il Soggetto Signore , il Proprietario di Savigny. Non ne esce il soggetto debole, perché il soggetto debole, cioè tutti noi, è qualcosa di complesso e va difeso nella sua complessità; rispetto al sofferente la domanda semplificata, se confrontata con la realtà che vuole interpretare, diventa veramente, per usare le espressioni con cui G. Bateson rivendicava la complessità, qualcosa insieme di "stupido... e sacrilego".

Noi dobbiamo uscire da questa sintesi impropria; dobbiamo dare rilevanza , in quest'ambito, alle molteplici condizioni che rendono il rapporto tra la persona e le sue decisioni variamente colorato negli equilibri di impulsi, resistenze, dipendenze, consapevolezze e oscurità.

Un diritto che costringe tutte le valutazioni possibili delle motivazioni, della forza, della debolezza, della resistenza di una decisione nell'imbuto dell'uso di ragione è un diritto violento e cieco : è il diritto dei moduli di consenso informato.

Se vuole farsi diritto umanistico deve lasciare il proprio secolare paradigma, e dare rilevanza a connotati molteplici e differenziati della relazione in cui la decisione si colloca : deve guardare al processo, non all'atto, garantire e valutare le condizioni del processo, non dell'atto; deve imparare a parlare di debolezza e forza del consenso, non solo di validità ed invalidità; di resistenza della volontà e non solo di sua manifestazione ; di atteggiamenti e non solo di comportamenti materiali e di dichiarazioni; di fragilità e non solo di incapacità di volere; di confusione e di angoscia che convivono, come tutti sappiamo, con l'uso di una ragione che ne è dolorosa testimone e prigioniera.

Processo di decisione, condizioni del processo, effettività del processo : se guardiamo con questi occhi la capacità non è più il concetto adatto, né necessario, a pesare il contributo del protagonista al processo della decisione, e a valutare se la decisione possa, anche giuridicamente, essere sua; e gli affidamenti dei partecipanti al processo - il medico, i congiunti, gli amici, i protettori - non si fondano più sul riconoscere nel protagonista l'uso di ragione e la libertà del volere, come al mercato dei beni, ma nel collaborare ad un processo secondo le modalità di un effettivo accompagnamento e le garanzie offerte dal pieno rispetto dei doveri di comportamento dei partecipanti . In questa modo di guardare, il rispetto della libertà di decisione non è cosa diversa dal rispetto della persona; e la sua prova non coincide con la prova formale di un consenso, ma con la prova del corretto ed effettivo svolgimento del processo.

Su queste basi si possono precisare regole idonee a garantire i diversi interessati alla decisione. Disponiamo, del resto, di un utile punto di riferimento proprio nell'attuale disciplina del contratto. La clausola generale di correttezza e buona fede nello svolgimento delle trattative, nell'interpretazione, nell'esecuzione del contratto rappresenta un principio di svolgimento del processo di produzione e attuazione della decisione contrattuale che è capace, se adattato alle esigenze del territorio di cui discutiamo, di indicare una misura di determinazione dei comportamenti richiesti per l'effettività del processo e le condizioni di rispetto della persona e della libertà del decidente come di garanzia per i soggetti che ne accompagnano la decisione: senza alimentare illusioni sulla possibilità, per la regola legale, di andare oltre un'onesta disciplina dei comportamenti sociali, che lascia di necessità ad altre prescrizioni ed altri linguaggi l'indirizzo degli atteggiamenti interiori.

Mi sono permesso di esporre convinzioni provvisorie e parzialmente informi ; ma altro non sentivo di poter fare, alla luce di una sensazione e di un'esigenza che, in questa materia, mi sembrano ormai impellenti : la sensazione che un paradigma stia per cadere; l'esigenza di fare un passo oltre, e scoprire cosa può esserci di là.

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