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L’invisibile rete d’oro del dio fabbro

 

Chissà mai perché quando Alberto Schön mi ha proposto di venire al vostro incontro e di tenere addirittura una relazione su naturale e artificiale mi è venuto in mente il titolo che ho appena detto collegandolo a Nane Oca e alle Foreste sorelle, dilogia di una sognata e possibile trilogia con le avventure nel Magico Mondo e nel Mondo Questo del fatato e pavante Giovanni e sua compagnia resa immortale da foglie dolci e garbine (il momón) e dal magico elisir.

Per fortuna che poi Schön ci ha ripensato e invece di una relazione mi ha chiesto di raccontarvi un po’ di Nane Oca e di Foreste.

Io però qualche appunto l’ho scritto.

Ecco qua.

C’è una storia d’amore di Ares con Afrodite - un divino adulterio - che mi ha sempre lasciato curioso.

Afrodite e il giovane Ares amoreggiano alle spalle di Efesto (o, come dicono i greci d’oggi, Ifisto - il marito zoppo, il miglior fabbro, l’orafo, il protometallurgo, il costruttore di troni divini, di carri d’oro, di scudi istoriati e di quanto di artificiale abbisognano gli inadatti alla pratica e oziosissimi dei - e lui, furbissimo, che fa? Tesse, o ricama, o forgia un rete d’oro invisibile con cui intrappola, o cattura - alla maniera dei pescatori e dei cacciatori - l’amorosissima nata dal mare e dal pene del cielo Uranos reciso dal tempo Cronos - e il dio della lotta che i giovani e la natura ingaggiano per germogliare ed essere in fiore, ossia in amore e in erezione. Amore e lotta che il dio zoppo (ma perché zoppo?) irretisce, cattura e immobilizza - svelando i due amanti alla vista degli altri dei - e al disdoro e ai lazzi che ne fanno.

Ma cos’è l’oro nel racconto mitico, e cosa diventa (letteralmente e metaforicamente) una rete così fatta da essere invisibile e nello stesso tempo irretire e immobilizzare due dei così irrequieti, seduttivi ed eroticissimi?

Ecco - sui due corpi nudi, abbracciati, compenetrati, in estasi, milichi, indolciti come miele — c’è una rete paralizzante che impone l’immobilità della morte. E per di più d’oro.

Oro.

La maschera d’oro sul viso dei morti.

Maschera.

Un oggetto artificiale calco del volto (calcato sul volto) per attraversare indenni il regno di Ades - di zio Ade — sostituendosi per sempre alla pelle destinata a sparire.

Una scultura d’oro.

Un fotografia d’oro.

Fermare il tempo per vincerlo.

La maschera, fotografia d’oro, copre tutto - e dietro c’è un morto.

La rete, invece, lascia vedere tutto - l’amplesso, il pene dentro la vagina - i due corpi in amore. Li immobilizza (e potrebbe lasciarli immobili per sempre) svelandoli nel momento di massima pulsione vitale.

Chi è, cos’è, allora, la rete rivelatrice e pericolosa del dio fabbro?

A me sembra sia una metafora neanche poi tanto metafora del linguaggio umano, soprattutto della scrittura (e, oggi, della fotografia e di tutto ciò che cerca di fermare il flusso della vita). Cosa fa un descrizione in fondo? Immobilizza per sempre ciò che descrive. Lo svela e lo immobilizza. Per conservarlo, tramandarlo, fargli attraversare il tempo.

Il linguaggio scrittura, la più artificiale delle invenzioni umane e insieme la più sottile, la più capace di penetrare nel corpo erotico della vita - mostra qui tutta la sua sapienza e il suo limite, la sua zoppezza: è qualcosa sempre in moto, sempre ondeggiante e in metamorfosi quando parliamo, ma nella scrittura (e nella fotografia) è come la Medusa, ferma per sempre ciò che vede. Infatti, se andiamo in un luogo descritto da qualcuno lo troviamo sempre cambiato rispetto alla descrizione.

Ifisto - il dio fabbro dal piede zoppo - mentre rivela immobilizza. Mostra Eros ma rischia di dare Thanatos. E la rete, il logos, invisibile, è insieme vivente per ciò di cui si compenetra, i due corpi in amore - e non vivente per la sua natura di arte fatto.

Così è il linguaggio scritto.

A meno che…

A meno che il testo formato non sia di quelli che Platone nel Fedro chiama di mania ispirata dalle Muse - i testi di poesia - dalla Teogonia in poi (e come l’ha capito bene Freud Gradivus). Quell’in-spirato respiro annidato nel testo - come sanno Guido il Puliero e tutti i poeti del platano alto dei Ronchi Palù - appena sente di nuovo vicino il respiro della voce e degli occhi di chi legge - respira di nuovo e succede qualcosa che trasforma l’artificio del linguaggio e della forma (la rete d’oro) - di nuovo in eros e germoglio - natura. E si sente il corpo voce mettersi in amore - e Afrodite ballare compenetrata di Ares.

La rete si rifà corpo.

Non è così?

A me sembra così - e che la poesia sia dunque vero momón e vero elisir - col suo tremito d’Ares e Eros di Afrodite, l’umida figlia e madre dello sperma di dio.

 

Giuliano Scabia,
mare Egeo, Ionia,
sulla nave fra Mitilini e Dikili,
2 luglio 2007

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