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IL SEGRETO DI VERA DRAKE

Meritatamente premiato alla 61° Mostra del Cinema di Venezia come migliore film e migliore attrice protagonista a Imelda Staunton, "Il segreto di Vera Drake" di Mike Leigh e’ un film praticamente perfetto.

Siamo nella Londra del dopoguerra, 1950. Vera e’ una piccola donna della working class, modesta e sollecita verso tutti, che lavora come domestica presso le case di alcuni signori, che la stimano e insieme la ignorano. La sua esistenza, modesta eppure ricca di affetti, ruota intorno all’estrema cura che Vera presta ai suoi familiari, sia quelli piu’ prossimi che quelli piu’ lontani: il marito Stan, meccanico di officina insieme al fratello; I figli Sid e Ethel; la vecchia madre da sempre malata; il giovane che finisce per fidanzarsi con Ethel, solo e immiserito dalla vita quanto lei.

Vera abita questo microcosmo familiare con una sollecitudine sincera, si occupa sempre di aiutare tutti e in particolare I piu’ deboli, sembra instancabile nella sua mite e perenne dedizione.

Le tragedie della Storia — la Guerra che ha ucciso e impoverito — sono ben presenti nella vita del microcosmo ma non ne intaccano la vitalita’ e la fiducia nel futuro.

Ma dietro la sicurezza della routine domestica e le frasi stereotipe del ‘ti faccio una tazza di te’, Vera nasconde un segreto: aiuta le ragazze in difficolta’. Pratica aborti clandestini (era vigente in materia una legge del 1861) su ragazze povere, o costrette a nascondere la loro gravidanza, senza richiedere alcun compenso in denaro. La vera profittatrice e’ l’amica, ex collega di lavanderia, cui le donne disperate si rivolgono, che incassa la soma richiesta e fornisce in seguito l’indirizzo a Vera. Priva della consapevolezza di commettere un reato, Vera si reca in queste povere case e con la delicatezza di cui e’ capace, tranquillizza le ragazze e fa si’ che ‘cosi’ ti tornano le tue cose’.

I primi venti minuti del film ci fanno seguire Vera nel suo indaffaramento quotidiano: I lavori come domestica nelle case, le tranquille serate casalinghe, le visite all’anziana madre, gli incontri con le ragazze difficolta’ (definizione semplice e struggente che torna lungo tutto il film). Il microcosmo familiare e’ tenuto all’oscuro di questa zona d’ombra nella vita di Vera (ma, come dira’ in seguito il marito al figlio ‘non ci ha mentito, ha omesso di dircelo .Non e’ la stessa cosa’).

Un giorno, una delle ragazze cui Vera ha praticato l’aborto domestico, si sente male e rischia la morte per sepsi. Forse, una siringa non pulita. Facilmente la Polizia risale a Vera.

Nel giorno in cui la famiglia riunita festeggia il fidanzamento della figlia Ethel (evento a cui Vera teneva moltissimo, essendo Ethel una povera creatura in difficolta’), la Polizia fa irruzione nella casa e finisce per arrestare Vera, sotto lo sbigottimento dolente di tutti.

Durante l’interrogatorio — condotto da un ispettore sempre piu’ sensibile al dramma di Vera — la donna confessa tutto senza esitazione, palesando cosi’ alla giustizia umana uno stato d’animo misto e assai particolare: c’e’ il dolore per la ragazza che ha rischiato la morte ma c’e’ soprattutto la pena per I familiari tenuti all’oscuro, per il giorno di festa rovinato; c’e’ la crescente consapevolezza di avere fatto ‘una brutta cosa’ ma mai disgiunta dalla profonda e in qualche modo candida convinzione di averlo fatto per aiutare, perche’ le ragazze in difficolta’ ‘non hanno nessuno che le aiuta’.

Nonostante le attenuanti, Vera sara’ comunque condannata ad una pena che accetta senza discutere, e che si spera le sara’ abbreviata.

Narrare la trama non rende, ovviamente, la delicatezza e insieme la compatezza di questo film. Toccante senza divenire sentimentale, sociale senza divenire ideologico, a me pare che ne ‘Il segreto di Vera Drake’ Mike Leigh confermi e affini al meglio la sua vena di regista di un nuovo cinema neorealista inglese, che vede in lui e in Ken Loach I due esponenti piu’ creativi e piu’ rigorosi. Tornano in questo film I temi cari a Leigh: la famiglia (si ricordi I precedenti ‘Segreti e bugie’ e ‘Tutto o niente’), l’avere figli, e soprattutto il ceto sociale, l’unico infine se non a sancire ma a differenziare drammaticamente il destino degli uomini.

Meglio ancora che nelle precedenti prove, qui ogni personaggio e’ un vero carattere, un character appunto, perfettamente narrato e con una sua precisa indole personale che lo caratterizza e lo distingue: la profondita’ triste del marito Stan, la gratitudine del cognato, la frivolezza della cognata, la vitalita’ giovanile di Sid, la mite poverta’ intellettuale di Ethel……persino nel fugace incontro con le ragazze in difficolta’ riusciamo a tratti a cogliere uno sguardo, un gesto che denuncia un aspetto dell’animo, come l’ansia, la colpa, l’ignoranza, la negazione.

La famiglia e’ nella vena del regista un microcosmo complesso, piu’ ricco di sfumature di quanto non sia in Loach. E’ il giardino segreto delle menzogne e, appunto, dei segreti celati per una vita intera (in ‘Segreti e bugie’ si parlava di un’adozione non rivelata), e’ il terreno dove nasce la follia e dove si conferma l’emarginazione (‘Tutto o niente’), ma e’ anche un luogo unico per le risorse emotive che riesce a contenere e a far vivere, dove l’uno dipende dall’altro in un intreccio fatale ma anche di solidarieta’ e di amore. La gravidanza e l’avere figli (come detto, tema gia’ percorso nel suo primo film importante) rappresentano un delicato terreno (tanto piu’, a mio avviso, se a parlarne e’ un regista uomo) che qui e’ narrato forse con piu’ sfacettature di quanto non sembri. Vera e’ madre a sua volta, e un’intelligente domanda dell’ispettore (‘e’ successo anche a lei?’) a cui non segue risposta ci fa intuire che e’ forse lei stessa passata attraverso il dramma che ora vuole evitare ad altre; si intuisce sullo sfondo la vita difficile con una madre da sempre malata, forse malata di mente (piccolo segreto che Vera confida al marito in un momento di intimita’).

L’avere figli, una delle cose che ci sono care piu’ care nella vita, il vederli crescere e l’occuparsi di loro non sono un dato scontato o meglio, non sono un dato naturale ma anche sociale e culturale. In uno dei momenti piu’ intensi del film, il fidanzato di Ethel (nuovo arrivato ma subito dalla parte del dolore di Vera) nel triste Natale trascorso ad aspettare il processo, dira’ al figlio inizialmente riottoso, che sua madre aveva avuto sei figli, ‘e se non li puoi sfamare non li puoi neanche amare’.

E’ dunque la differenza di classe - negli anni ’50 piu’ di oggi, forse — il destino segnato dal ceto sociale che non gia’ rende diversi gli esseri umani (anche la ragazza ricca, in una breve vicenda parallela, viene violentata e deve abortire, ma lo puo’ fare pagando in un ambiente medico, e nessuno la scoprira’ mai), ma rende diverse le loro possibilita’ di affrancarsi dalla sofferenza, le loro opportunita’ di scelta e di autodeterminazione.

E’ il censo, non la morale, a differenziare gli uomini di fronte al dolore della vita.

Va reso merito a Leigh, come al cinema inglese di questo tipo, la capacita’ di raccontare e di descrivere prima di giudicare, e anzi in luogo del giudicare. Seppure siamo portati a provare una certa simpatia per Vera (‘non ha mai fatto male a nessuno’ dira’ il marito che non smettera’ mai di difenderla), il film non ci trascina in una vicenda di buoni e cattivi, di vittime e carnefici: non c’e’ una cattiveria ‘di genere’ in quanto molti sono I personaggi maschili buoni: il marito, il cognato, il figlio, il fidanzato di Ethel, lo stesso ispettore anziano a fronte di una ‘cattiva donna’ nella profittatrice che trattiene il denaro dalle ragazze senza condiverlo con Vera. Le donne sono vittime degli abusi del sesso, come gli uomini lo sono delle violenze della Guerra. Ne’ la motivazione a non partorire trova un ‘giusto’ e un ‘ingiusto’, poiche’ Vera incontra ogni tipo di donna, compresa la ragazza ricca che le mandera’ gli auguri al processo, e cio’ che trasversalmente accomuna queste donne — povere e ricche, sole o sposate — e’ la solitudine con cui consumano la loro scelta. Cio’ che le diversifica, sono I mezzi economici con cui possono far fronte alla malaugurata situazione in cui si vengono a trovare.

 

Ricordo un solo altro film di diversi anni fa che aveva affrontato lo stesso tema, il francese ‘Un affair des femmes’ interpretato da Isabelle Huppert; film ugualmente forte e bello, ma che si declinava in un diverso contesto narrativo, piu’ drammatico che sociale. Mi trovo del resto spesso a rimuginare tra me e me che I film italiani recenti, persino l’intelligente ultimo Gianni Amelio con ‘Le chiavi di casa’, sembrano aver rinunciato al compito che fu di De Sica o Rossellini, e che oggi cosi bene portano avanti gli inglesi allievi di Loach per un verso, I fratelli Dardenne o persino il sofisticato Lars Von Their in altro stile: cioe’ quello di raccontare la realta’. La realta’, che e’ anche realta’ sociale, non interessa piu’ I cineasti italiani, impegnati a sfornare innumerevoli piccoli film sulla coppia (in primis) e sulla familgia…ma quale coppia e quale famiglia?
Quella dove l’amore (romantico e sensuale) e’ tutto e salva tutto, dove la poverta’ e la desertificazione sociale non contano, dove alla fine tutto si aggiusta coi buoni sentimenti, e le generazioni si incontrano nell’ultima scena per dirsi quanto si sono sempre voluti bene.

Ho cosi’ trovato molto opportuno vedere premiato questo film, e non solo per la sua bellezza. Che in un momento di ambigui revisionismi che investono ogni sfera della vita dell’uomo Occidentale e di malcelate tentazioni illiberali, un autore di talento ripronesse il dramma degli aborti illegali e di tutte le morti che hanno causato fino a non molti decenni fa, e ancora oggi in diverse parti del mondo, mi e’ parso un atto artistico e in qualche modo etico insieme.

Sebbene siano cose risapute (che ci siano I ricchi e I poveri, che certe leggi che oggi ci sono prima non c’erano), e’ tutt’altro che inutile e scontato essere invitati a ricordare

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