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Pubblichiamo l'intervista a Mario Galzigna per gentile concessione della Direzione della rivista "Psiche" (Società Psicoanalitica Italiana, Borla Editore), dove essa è già stata pubblicata ( nel numero monografico - gennaio-dicembre 1999 — dedicato al tema del potere ).

INTERVISTA A MARIO GALZIGNA : INCONSCIO, COSCIENZA E STORIA

di AGOSTINO RACALBUTO

Racalbuto

A partire dalle nostre conversazioni e dalla lettura di alcuni tuoi scritti — soprattutto La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna (1992), l'introduzione a Binswanger (1994), il saggio su L'epistemologia della connessione (1999) e La sfida dell'altro (1999) - mi è parso di aver individuato una delle prospettive più interessanti del tuo lavoro: e cioè lo studio delle relazioni tra la storia e gli apparati psichici individuali: in particolare, tra la struttura, tra il funzionamento concreto delle istanze di potere e l'inconscio psicoanalitico di matrice freudiana. Nella messa a fuoco di questa linea di ricerca — e, più generalmente, nel tuo itinerario intellettuale - hanno avuto un qualche peso e una qualche influenza le "genealogie" di Michel Foucault?

Galzigna

La riflessione che mi stimoli a riprendere richiede, anzitutto, una preliminare e sommaria definizione dell'istanza di potere, vista nel suo svolgimento diacronico. Per rendere più chiaro il mio punto di vista, procederò, se non ti dispiace, attraverso qualche necessaria semplificazione, dedotta dai miei specifici itinerari storico-epistemologici e dalle loro articolazioni teoriche, oltre che dal mio personale rapporto con il lavoro di Michel Foucault: con il suo stile di pensiero, con il suo straordinario ed appassionato rigore analitico.

All'interno di svariati approcci storico-epistemologici alle discipline psicologiche ed alle life sciences, ho liberamente utilizzato quella che egli amava definire la sua boîte à outils (la sua "scatola di arnesi"), rimanendo volutamente estraneo a qualsiasi logica di appartenenza accademica o di adesione dottrinaria.

Fortunatamente, era lo stesso Foucault a scoraggiare in tutti i modi simili posture, rendendo così impossibile — all'interno della sua infaticabile attività d'insegnamento - la produzione di quello che vorrei definire un effetto scuola (con le sue necessarie e spesso paralizzanti articolazioni "istituzionali": la gerarchia, l'ortodossia, l'esegesi). In questo suo atteggiamento, egli era indubbiamente favorito dalla mobilità e dall'irripetibile originalità del suo linguaggio, dalle continue trasformazioni dei suoi campi problematici e dalla varietà dei suoi attraversamenti disciplinari (spesso mal digeriti — occorre dirlo — dall'establishment universitario).

Per parte mia, a partire dalla fine degli anni settanta mi ero avvicinato alla sua ricerca tenendomi lontano da qualsiasi tentazione sistematica o "esegetica"; mi interessava l'orizzonte strategico generale che egli stesso assegnava al suo lavoro: e cioè la costruzione di una genealogia della complessa relazione, variabile nel tempo e nello spazio, tra soggetti, verità e potere.

Lavoro tuttora nell'ambito di questo orizzonte genealogico, saldamente ancorato ad una percezione storica del nostro presente, individuale e collettivo. E mi auguro, rispondendo alle tue domande, di riuscire ad indicarti con sufficiente chiarezza la direzione delle mie indagini.

Ma vengo subito al tema che mi proponi. Il funzionamento del potere nelle moderne società occidentali muta radicalmente nei decenni immediatamente successivi alla Rivoluzione Francese e all'Impero napoleonico. I grandi padri del liberalismo europeo del primo Ottocento — penso soprattutto ad Alexis de Tocqueville — descrivono con straordinaria acutezza questa importante trasformazione. In De la démocratie en Amérique Tocqueville mette in evidenza quello che altrove avevo già definito il paradosso costitutivo delle società liberal-democratiche del secolo XIX, e cioè la loro capacità di far funzionare una sorta di concordia discors: la "concordia" e la coabitazione tra due dimensioni in se stesse discordanti: da un lato un potere che si afferma come negazione, come interdetto, come esclusione (un potere giuridico/repressivo, quindi, eredità dell'ancien régime); dall'altro lato un potere forse più temibile e più efficace — tutelare, dettagliato, regolare, previdente e dolce, per dirla con Tocqueville - che forgia l'interiorità, che orienta, che produce, che si dispiega come istanza affermativa.

La sovranità, con le sue collaudate ed antiche tecniche dispotiche, si sposa dunque con la disciplina, cioè con la capacità di indurre nei sudditi — diventati soggetti e cittadini — un lento e capillare processo di interiorizzazione della norma. Il dispotismo d'ancien régime diviene, in questa prospettiva, il vizio occulto — versteckte Mangel, come lo definì il giovane Marx — delle società liberali moderne, nate sulle ceneri della Rivoluzione e dell'Impero.

In molti saperi e in molte istituzioni ottocentesche — dall'asilo psichiatrico alla scuola — viene sperimentata proprio questa integrazione tra sovranità e disciplina, tra regola imposta e norma introiettata: un'integrazione che trovava nelle società liberal-democratiche del secolo XIX un più vasto e più generale campo d'applicazione.

La sessualità è un terreno elettivo per la sperimentazione di questa sintesi: essa viene repressa nelle sue forme erratiche, trasgressive, irriducibili alla normalità coniugale; al tempo stesso viene socialmente governata, indirizzata e recintata nelle sue forme compatibili con la morale dominante.

Come ha ben mostrato Foucault nel saggio La volontà di sapere — da lui stesso considerato una sorta di preistoria della psicoanalisi - la sessualità, per essere ben governata e indirizzata, deve perdere le sue caratteristiche di comportamento istintuale, opaco, polimorfo, per diventare, sostanzialmente, pratica di parola, oggetto di discorso. Regolamentare la sessualità concepita come sistema discorsivo significherà allora stabilire chi deve parlarne, come deve parlarne, a partire da quale luogo istituzionale, da quale posizione sociale, da quale ruolo familiare.

Parallelamente a questa vasta operazione di mise en discours, l'800 è anche il secolo che assegnerà alla famiglia il compito di regolamentare e di canalizzare la sessualità. Essa si troverà così sottoposta ad un duplice registro: il registro della repressione e quello dell'ingiunzione. Una repressione che funziona, anche in termini medico-morali o addirittura legislativi e polizieschi, contro le forme extrafamiliari ed extrarirpoduttive dell'erotismo. Un'ingiunzione che funziona, in maniera positiva e propositiva, al fine di rendere possibile la confisca del piacere erotico da parte della coppia coniugale. Il sesso non procreativo - estraneo al perimetro matrimoniale, non finalizzato alla riproduzione della specie — verrà condannato come sesso illecito, come contrassegno di una sostanziale ed irredimibile anormalità (cfr. M. Foucault, Les anormaux, Seuil-Gallimard, Paris 1999).

Nasce, in questo contesto, la nosografia delle sindromi, che caratterizza massivamente la psichiatria europea del secondo ottocento. E le sindromi — configurazioni psichiche stabili, che designano uno "stato" generale di anormalità, prodotto dell'ereditarietà e della degenerescenza — rappresentano, all'interno dell'alienistica, la modalità di catalogare e di stigmatizzare le condotte aberranti del petit peuple des anormaux, come lo ha chiamato Foucault: omosessuali, masochisti, agorafobici, claustrofobici, esibizionisti, eccetera.

Non è il caso di soffermarsi, ora, né sulle molteplici sfaccettature di questa psichiatria delle sindromi, di questo "razzismo contro l'anormale", che precede temporalmente il razzismo etnico, né sulle innegabili interferenze tra queste due differenti manifestazioni storiche del razzismo. Basti sottolineare, per il momento, il fatto che la sessualità sterile ed extraconiugale — complici la psichiatria, la morale, il diritto, la precettistica religiosa, l'uso della confessione — viene sorvegliata, spiata, catalogata, censurata ed interdetta.

Ed io credo che l'inconscio freudiano rappresenti adeguatamente, sul terreno di un'analitica dell'apparato psichico, l'efficacia raggiunta storicamente da questa regolamentazione della sessualità: tutta giocata, come si diceva, sul duplice registro della repressione e dell'ingiunzione.

I contenuti dell'inconscio dipendono infatti dal funzionamento della censura: una funzione permanente, per Freud, che tende ad inibire — ai desideri inconsci — l'accesso al sistema del preconscio e della coscienza. Nella seconda topica, come è noto, Freud ricondurrà la censura della prima topica nell'ambito delle attività specifiche del Super-io: del "censore dell'io", cioè dell'istanza morale che esercita la censura dei sogni e da cui parte la rimozione dei "desideri inammissibili".

R.

La categoria freudiana della censura sarebbe quindi, a tuo parere, una spia dei rapporti tra inconscio e potere? O meglio: il ripensamento critico di questa categoria potrebbe favorire una concezione dinamica dell'inconscio e la stessa possibilità di rapportarlo a determinati contesti storico-antropologici?

G.

Non intendo propormi come esegeta del pensiero freudiano. Altri lo fanno e lo sanno fare certamente meglio di me. Preferisco assumere un atteggiamento problematico, che eviti ogni cristallizzazione ed ogni sacralizzazione del testo di Freud: un testo sostanzialmente tradito, nella sua continua e vertiginosa mobilità teorica, da ogni irrigidimento scolastico ed "ortodosso". Preferisco interrogarlo criticamente, a partire dalla mia profonda convinzione — maturata nell'ambito di pazienti ricerche di carattere epistemologico, storico e "genealogico" — che coscienza ed inconscio, nei loro contenuti e nelle loro strutturazioni, sono formazioni storiche, variabili nel tempo e nello spazio.

Certamente: il concetto freudiano di censura, se ripreso e rielaborato, aiuta, io credo, a sviluppare una concezione storica e dinamica dell'inconscio. In questo senso, il recente saggio di Fausto Petrella, che ho qui sotto gli occhi (Censura psichica, "Rivista di psicoanalisi", 1, 99), mi sembra particolarmente importante: viene sottolineato criticamente il quasi totale abbandono, da parte della comunità psicoanalitica (salvo rarissime eccezioni), del concetto stesso di censura psichica; un segnale negativo, secondo l'autore; una spia del fatto che proprio la censura, nelle sue forme contemporanee, è stata probabilmente "censurata" ed occultata.

"La psiche provvista di censura — afferma Petrella — è concepita come un insieme plurimo, intrinsecamente sociale e in movimento". Ed ancora, poco prima: "Fa […] parte degli atti inaugurali della psicoanalisi che la censura sociale, politica, religiosa venisse calata e per così dire precipitasse entro la concezione psicoanalitica dello psichico, divenendo uno dei suoi più importanti ingredienti costitutivi".

In tale prospettiva, la liquidazione del concetto di censura da parte della psicoanalisi contemporanea potrebbe essere vista come sintomo del rifiuto di una concezione antropologica e storica dell'apparato psichico.

Il nesso tra censore interno e censore storico è stato mirabilmente messo a fuoco — all'interno di una prospettiva genealogica - nella voce Censura, scritta da Alessandro Fontana per l'Enciclopedia Einaudi: un nesso assolutamente evidente, ad esempio, nello scritto dedicato da Freud alla Censura onirica (Lezione 9), che appartiene alla sua celeberrima Introduzione alla psicoanalisi (1915 — 1917).

Poniamo attenzione, per qualche istante, alla terminologia freudiana. La censura onirica si esercita contro "tendenze di natura riprovevole"; tendenze "sconvenienti", principalmente "sotto il profilo etico, estetico e sociale"; ed ancora: "moti di desiderio sconvenienti"; "desideri riprovevoli", ai quali il soggetto, in stato di veglia cosciente, può solo pensare con "ribrezzo".

Vediamoli, questi desideri inaccettabili, che popolano l' "inferno" dell'inconscio freudiano. Alcuni, oggi, fanno decisamente sorridere, proprio nella misura in cui non ci riesce difficile riconoscerli come istanze consapevoli: ad esempio il desiderio della "donna altrui". Altri desideri, nell'ambito delle nostre attuali coordinate antropologiche, sono anch'essi più o meno facilmente inscrivibili nel panorama dell'Erlebnis: ad esempio l' "odio" e i "desideri di vendetta", rivolti ai propri cari, di cui parla Freud. E' invece lecito ipotizzare, ancor oggi, l'azione della censura nei confronti di particolari desideri "riprovevoli", che appartengono al medesimo elenco: i "desideri di morte" verso i genitori, i fratelli, i figli, il coniuge, e soprattutto la capacità della libido di investire "oggetti incestuosi": come precisa Freud, la madre e la sorella per l'uomo, il padre e il fratello per la donna.

La censura, vien detto nello stesso testo, non è altro che un termine adatto a designare una "relazione dinamica": una relazione, dovremmo aggiungere, che non riguarda soltanto le interazioni tra le diverse componenti del nostro apparato psichico, ma che include necessariamente anche il contesto storico-sociale e le coordinate antropologiche a cui queste stesse componenti appartengono.

Dovremmo porre, tra l'altro, particolare attenzione alla relatività individuale dei meccanismi di censura: una relatività individuale particolarmente evidente in una società complessa e stratificata come la nostra, tendenzialmente multietnica, caratterizzata dalla compresenza, entro uno stesso territorio, di stili di vita, di visioni del mondo, di culture, di atteggiamenti etici spesso tra loro assai diversi, se non addirittura antagonisti.

Comunque sia, comprendere radicalmente il funzionamento del censore interno (o freudiano) significa collocare il nostro punto d'osservazione in una posizione intermedia, capace di individuare al tempo stesso la realtà intrapsichica ed i modi di funzionamento di quello che per comodità potremmo chiamare il censore esterno (o storico): una posizione intermedia, troppo spesso assente ed ignorata nell'ambito del setting tradizionale (mi vengono in mente, a questo proposito, alcune importanti prese di posizione di Christopher Bollas sulla "funzione della storia" in terapia, presenti nel suo libro Cracking Up, del 1995).

Il censore interno veicola tutti i saperi e tutte le istanze normalizzatrici che in una determinata epoca scandiscono la costituzione della "moralità": saperi ed istanze che vengono perciò ad iscriversi nella psiche, attraverso quel particolare processo di interiorizzazione della norma di cui s'è parlato poc'anzi. In questo senso, possiamo dire che la psicoanalisi ha funzionato come un sapere — o, quanto meno, come uno dei saperi — in grado di garantire continuità ed efficacia alla giunzione tra sovranità e disciplina, così come si è storicamente realizzata già nei primi decenni del secolo XIX.

Nella prima topica la censura sembra funzionare come una sorta di meccanismo automatico di regolazione delle pulsioni in due direzioni possibili, ben visibili nell'economia del sogno: da un lato una loro "cancellazione", una loro "soppressione", che tuttavia, come è noto, non saranno mai assolute e definitive (salvo nel caso della psicosi, che presuppone il rigetto, l'esclusione, la reiezione — verwerfung — delle pulsioni); dall'altro lato una loro "modificazione" ed un loro "riordinamento".

Nella seconda topica si insiste sul fatto che il censore interno interiorizza i divieti del censore storico attraverso il definitivo superamento di un orizzonte meramente repressivo, producendo tutta una serie di compromessi e di conciliazioni tra pulsioni e principio di realtà.

Prevale, qui, una complessa dialettica tra rinuncia e risarcimento, in base alla quale la società ricompensa il sacrificio pulsionale attraverso la concessione di determinati benefici (assistenza, protezione sociale, sicurezza, difesa dal nemico interno ed esterno, eccetera).

La tematica, me ne rendo conto, è molto complessa, anche se ci si limita a focalizzarla nell'ambito dell'opera di Freud. Mi preme, in ogni caso, mettere bene in evidenza la stretta connessione tra censore interno e censore storico, ben presente — anche se non pienamente esplicitata — lungo tutto l'arco della produzione freudiana. In questa prospettiva, la censura ci appare dunque come un vero e proprio operatore di storicità, che collega strettamente tra di loro la mente e il mondo.

R.

Potremmo allora dire, forse, che la censura, in quanto operatore di storicità, mette in relazione la realtà infrapsichica con quella sociale? la temporalità del soggetto con la temporalità del mondo? le dinamiche pulsionali con gli assetti etici e giuridico-normativi esistenti? La censura — Freud, in Die Traumdeutung, la definiva "il guardiano della nostra salute mentale", che occorre "riconoscere e rispettare" — diventerebbe, in questa prospettiva, un fattore dinamico fondamentale, che scandisce, mettendole in relazione tra di loro, l'evoluzione psichica individuale e l'evoluzione storica di una determinata società. Si profila anche a questo livello, io credo, l'orizzonte di una necessaria cooperazione tra un punto di vista psicoanalitico ed un punto di vista storico-antropologico: una cooperazione che tu stesso, pubblicando La sfida dell'altro (1999), hai cercato di rilanciare e di riproporre.

G.

Sono da tempo favorevole, in effetti, a tale tipo di cooperazione, anche se mi rendo conto di quanto sia difficile non soltanto pensarla, ma anche e soprattutto praticarla nell'ambito del lavoro clinico. Proprio su questo terreno, credo, avremmo bisogno di una fantasia teorica e di un'invenzione progettuale capaci di superare le compartimentazioni disciplinari, le barriere istituzionali, gli ostacoli corporativi e la frammentazione delle nostre attuali conoscenze relative alla condizione umana, considerata sia nel suo stato "normale" che in quello patologico. Mi limito a porre la questione in termini provvisori e problematici, nell'attesa che i tempi siano maturi per una nuova sintesi teorico-pratica: senza tuttavia dimenticare che l'etnopsicoanalisi e l'etnospichiatria stanno lavorando, da qualche tempo, in questa direzione (mi limito a ricordare, per l'Italia, i nomi di Roberto Beneduce e di Piero Coppo, che hanno collaborato con me — assieme a Tobie Nathan — alla redazione del volume La sfida dell'altro ).

Per riprendere il filo delle nostre argomentazioni, voglio qui ricordare l'opinione espressa da Edmund Leach a proposito della censura. Egli sosteneva che un ambiente sociale privo di censura non sarebbe affatto un ambiente sociale, ma piuttosto un incubo maniacale.

L'affermazione diventa molto più intelligibile se messa in relazione con gli orientamenti teorici più generali del grande antropologo britannico.

Va ricordato il fatto che Leach, discepolo di Malinowski — prendendo le distanze dallo strutturalismo di Lévi-Strauss e soprattutto dal funzionalismo britannico (alla Radcliffe-Brown, per intenderci) - è stato uno dei primi antropologi a privilegiare, come oggetto delle sue indagini sul campo, le società complesse, aperte e pluraliste alle cosiddette società isolate o fredde, considerate — a volte arbitrariamente, e per ragioni "ideologiche" - come sistemi chiusi ed impermeabili Questo mutamento di indirizzo è già evidente nei suoi studi sui Curdi dell'Iraq, del 1940, e soprattutto nel suo importante libro sui Sistemi politici birmani (pubblicato negli anni cinquanta e riedito nel decennio successivo).

In quest'ambito di ricerche, viene considerata "complessa" ogni società caratterizzata da una marcata differenziazione e specializzazione dei gruppi produttivi, da un'evidente stratificazione sociale, dal funzionamento di strutture politiche centralizzate e dalla presenza attiva di religioni diverse (monoteiste e politeiste) di tipo universalistico (il buddhismo e l'induismo, ma anche l'ebraismo, l'islam e il cristianesimo). Era questo il caso, per l'appunto, delle comunità Kachin degli altipiani birmani, studiate da Leach.

Leach individua, nelle sue ricerche sul campo, la differente maniera in cui gruppi e individui — a partire da interessi particolari — si adeguano alla norma vigente. Ed è proprio la varietà delle relazioni che individui e gruppi intrattengono con la norma a determinare mutamenti sociali, processi di trasformazione soggettiva, modificazioni di determinati assetti strutturali. Credo che la grande lezione metodologica dell'antropologo inglese andrebbe ristudiata e ripensata, anche nell'ottica della psicologia individuale (estranea, come è noto, agli interessi specifici di Leach): spostare l'indagine antropologica dalle cosiddette società primitive (semplici, o selvagge) alle società complesse, significa anche mettere a fuoco la relatività individuale, sociale — e, in ultima analisi, storica — dei meccanismi di censura. Al normativismo della scuola funzionalista, che presuppone l'automatica obbedienza del soggetto alle regole giuridiche, Leach contrappone un concetto "empirico" molto più elastico: quello di norma statistica, che privilegia l'attenzione al comportamento concreto dei singoli individui e dei gruppi, sempre e comunque in grado di allontanarsi, in maniera differenziata, dalla norma vigente.

Sottolineare l'universalità della censura non significa, dunque, ignorare la diversa qualità dei suoi contenuti, nello spazio e nel tempo, e le diverse modalità in cui essa agisce, a livello individuale e sociale. In questo senso, il lavoro di Edmund Leach — e, più in generale, l'intero orizzonte della ricerca antropologica ed etnopsichiatrica - è stato e rimane ancora, per me, un punto di riferimento essenziale.

R.

Tu polemizzi spesso, nei tuoi lavori, contro i vicoli ciechi del riduzionismo, anche in ambito psicoanalitico. Credo tuttavia che per uno psicoanalista, per uno psichiatra, per uno psicologo, anche il riduzionsimo socio-antropologico rischi di diventare un percorso sterile, soprattutto sul piano terapeutico. Penso, in altre parole, che non si tratti tanto di ridurre il soggetto alle sue determinanti sociali, storiche, antropologiche, quanto piuttosto di studiare concretamente l'articolazione tra i due livelli, così come si manifesta sul piano individuale. Mi piacerebbe, in altre parole, ragionare con te, anche in termini empirici - cioè a partire da qualche exemplum significativo — proprio attorno alla concretezza soggettiva, psicologica, di tale articolazione.

G.

Sono effettivamente convinto che sia più fruttuoso lavorare attorno alla costruzione di una "epistemologia della connessione", piuttosto che attorno ad una sorta di "metafisica" della determinazione: si sa, del resto, quanto sia stato sterile, nella storia delle scienze, il riferimento alla cosiddetta determinazione in ultima istanza, di engelsiana memoria.

Vengo ora al tema della connessione, o dell'articolazione, come tu la chiami, tra i due livelli: diciamo, per semplificare, tra psiche e storia. La concezione psicoanalitica della vita psichica non può assolutamente evitare questo terreno di confronto, pena il rischio di eternizzare le proprie categorie e di non cogliere la loro specifica inerenza ad un contesto sociale e antropologico, per forza di cose mutevole nel tempo e nello spazio.

Permettimi di ritornare, ancora per un istante, a Leach. In un testo del 1959 — Rethinking Anthropology — nato come Lettura commemorativa dedicata a Malinowski, egli rimprovera al suo venerato maestro di aver costruito una teoria antropologica esclusivista, proprio perché troppo legata agli specifici materiali empirici della sua indagine: e cioè le famose popolazioni melanesiane delle Isole Trobriand. Potremmo forse dire la stessa cosa di Freud: i suoi materiali empirici - i suoi "trobriandesi" — sono, a ben guardare, gli uomini e le donne del secondo ottocento (basterebbe rileggere, per convincersene, la monumentale ricerca storica e psicologica di Peter Gay: The Bourgeois Experience: Victoria to Freud).

Un exemplum cruciale, a questo livello, è quello relativo alle forme della paternità, su cui ho sto lavorando da qualche tempo. Il complesso di Edipo (cE), a partire da Freud, diventa un asse di riferimento della psicopatologia: nasce come categoria universale, come baricentro di tutta l'antropologia psicoanalitica. La struttura triangolare del cE viene insomma considerata una struttura universale, presente in ogni tipo di cultura, e non soltanto nelle società organizzate attorno alla famiglia coniugale. Bene. Questo, a mio parere, è un classico esempio di generalizzazione arbitraria, smentita non soltanto da molti antropologi (a cominciare dallo stesso Malinowski), ma anche da uno sguardo analitico non superficiale sulle forme della paternità nelle società occidentali di quest'ultimo quarantennio. Il padre castrante, separatore, fonte del principio di realtà, matrice del Super-io — autentica architrave del cE — è spesso assente negli scenari familiari dell'Occidente contemporaneo, dove è emersa, come presenza senza dubbio non maggioritaria, ma comunque importante e visibile, la figura del padre accudiente (nella letteratura di lingua inglese, a partire dagli anni ottanta, si è parlato di un nurturing father, o di un caregiving father): una figura che presuppone, tra le altre cose, un superamento dei tradizionali parametri dell'identità maschile, così come si sono storicamente imposti perlomeno fino agli anni sessanta del ventesimo secolo. Questa vera e propria mutazione antropologica dell'identità mascolina e della figura paterna ci costringe a rivedere criticamente la classica triangolazione edipica, così come è stata proposta da Freud: una mutazione — mi permetto di dire — che non ha ricevuto, in ambito psicoanalitico, la dovuta e necessaria attenzione. Tu stesso, comunque — nel tuo libro Tra il dire e il fare (1994) — non identifichi la "figura paterna" con una entità fisica definita: parli infatti di "metafora paterna", definendola come un ruolo che rende possibili i processi di simbolizzazione. Credo che non sia irrilevante constatare che oggi la produzione di quella che tu chiami una frattura rispetto alla coppia originaria madre-bambino possa dipendere, in molti casi, non soltanto dalla funzione del padre (sessualmente e fisicamente inteso), ma da una complessa dialettica tra unione e separazione, che non è più la stessa, rispetto a cent'anni fa, se il padre è "caregiving" e se la madre, alla pari del padre, è essa stessa portatrice di un principio di realtà. Nei nuclei familiari in cui è presente la figura del "caregiving father", il bambino, già nei primi mesi di vita, vive un duplice livello di intimità fisico-affettiva, garantito — anche se, ovviamente, con modalità differenti — da entrambe le figure genitoriali. Credo che questa nuova situazione — una vera e propria rivoluzione antropologica, troppo spesso ignorata nell'ambito delle cosiddette scienze dell'uomo — dovrebbe costringere la psicoanalisi ad una revisione critica di alcune sue categorie basilari e ad una maggiore attenzione a quel nesso tra psiche e storia da cui è partito il nostro ragionamento.

R.

Ti è mai capitato, nell'ambito delle tue esplorazioni storico-epistemologiche dedicate alla psichiatria, di incontrare autori che abbiano deliberatamente esplicitato questo nesso? Oppure ritieni che questo nesso sia tutto da pensare e da costruire, in una sorta di territorio vergine ed inesplorato?

G.

Ti ho citato, prima, il caso dell'etnopsichiatria e dell'etnopsicoanalisi. Potrei ricordare anche L'anti-Edipo (1972), di Gilles Deleuze e Félix Guattari, con la sua teoria dell'inconscio "molecolare", che "delira" la storia, le razze, i continenti (un testo quasi del tutto privo, purtroppo, di posterità psicoanalitica, che appartiene comunque al mio bagaglio teorico).

Potrei anche continuare, ripartendo dalla nozione di censura, nel mio tentativo di ritrovare la presenza implicita di tale nesso nell'opera di Freud. Questo tipo di approccio è stato in parte elaborato da Norman Brown alla fine degli anni cinquanta, in un libro straordinario — La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia (1959) — ora praticamente scomparso dai cantieri bibliografici della psicoanalisi (ho avuto il piacere di presentare, nel 1984, la seconda edizione italiana di questo saggio per i tipi di Bompiani).

In un libro collettivo, nato dai seminari internazionali di San Servolo — che pubblicherò quest'anno da Marsilio con il titolo Volti dell'identità — ho cercato di proseguire la mia indagine sul rapporto psiche/storia nell'opera di Freud, analizzando, tra le altre cose, il ruolo cruciale, in Die Traumdeutung, dei famosi quattro sogni di Roma: qui, l'interpretazione riduzionista in chiave edipica (Roma come madre, eccetera), che conclude e chiude la trama narrativa, è in contrasto con la ricchezza delle precedenti osservazioni, che ci rivelano la varietà di stratificazioni culturali e identitarie relative alla persona, o, per meglio dire, all'io plurale del sognatore, cioè di Sigmund Freud.

In questa prospettiva, la mia rilettura critica ed antiriduzionista dell'opera freudiana sta solo muovendo, ora, i suoi primi passi.

In ogni caso, sempre cercando di rispondere alla tua domanda, posso dirti che la prima esplicita tematizzazione di un nesso tra psiche e storia in ambito psichiatrico l'ho trovata nei testi inaugurali dell'alienistica moderna: dal Traité del padre fondatore, Philippe Pinel (1800), alla tesi di dottorato del suo prestigioso discepolo Jean Etienne Dominique Esquirol (Des Passions, 1805), fino al Des Maladies Mentales (1838) dello stesso Esquirol, che nell'ospedale parigino della Salpêtrière, a partire dal 1811, getta le fondamenta della clinica psichiatrica moderna.

Nelle tre categorie fondamentali della nosografia psichiatrica nascente — mania, malinconia, monomania — il nesso psiche/storia viene esplicitato soprattutto attraverso una minuziosa analisi dei contenuti del delirio: contenuti che rinviano direttamente a fattori biografici, storici, politici, sociali, religiosi.

Questa prima generazione di alienisti francesi - che aveva alle proprie spalle la tempesta della Rivoluzione, l'ascesa e il declino dell'Impero, l'avvento della Restaurazione — era particolarmente sensibile agli effetti del mutamento sociale sulla psiche degli individui. I Pinel e gli Esquirol, anche per queste ragioni, fondano una nuova scienza medica — la psichiatria — senza mai indulgere a quel riduzionismo organicista che invece prevarrà nella seconda metà del secolo XIX. Cause fisiche e cause morali, per questi autori, concorrono in egual misura a determinare l'insorgere della pazzia. Conseguentemente, anche la terapia — il cosiddetto trattamento morale — obbedisce ad un criterio rigorosamente olista: si serve dei medicamenti, della contenzione, ma anche dell'uso della parola e del dialogo.

E' proprio la sorprendente modernità di questa posizione olista che mi ha spinto a valorizzare testi ed autori del primo ottocento: testi che ci sorprendono, ancor oggi, per la loro straordinaria ricchezza sul terreno dell'osservazione clinica, per la loro capacità di dare spazio e rilievo alla voce ed ai comportamenti dei soggetti internati.

R.

Quale contributo concreto pensi di poter dare — come storico e come epistemologo — alla elaborazione di questo originale percorso di ricerca, che vede, se ho ben capito, nella coscienza e nell'inconscio delle formazioni storico-antropologiche variabili nel tempo e nello spazio? Non avverti il pericolo che queste nuove prospettive teoriche rimangano slegate dalla concretezza del lavoro clinico?

G.

Credo che tu abbia messo — come si suol dire — il dito nella piaga. Mi sono sempre battuto contro un'epistemologia (e contro una storia) esterna all'agire clinico: contro un'epistemologia che reifica la pratica clinica riducendola a discorso, a mera teoria (penso, ad esempio, all'epistemologia della psicoanalisi così come emerge dagli scritti di un Popper, o di un Grünbaum).

Sono convinto che la necessità di una funzione epistemologica emerga, oggi più che mai, dalla concretezza del lavoro clinico: dalla sua necessità di integrare approcci e paradigmi differenti, al fine di migliorare la prestazione terapeutica. Per questa ragione, in un mio saggio che tu citavi in apertura, ho parlato di una epistemologia della connessione. Senza addentrarmi, qui, nella specificità teorica e tecnica di questa proposta, mi limito a ricordarti qualche iniziativa "connessionista", alla quale sto lavorando, da qualche tempo, assieme a psichiatri, psicoanalisti, filosofi, biologi:

  • La connessione tra approccio fenomenologico ed approccio psicoanalitico: è nato, in questa prospettiva, il gruppo di lavoro kère, coordinato dallo psicopatologo Lodovico Cappellari, primario psichiatra a Camposampiero (Padova), e da Giovanni Gozzetti, direttore della rivista "Psichiatria generale e dell'età evolutiva".
  • La connessione tra psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze: su questo progetto è nato un gruppo interdisciplinare - attorno alla rivista/annuario "BioLogica", da me diretta — che si propone di studiare le frontiere della ricerca attorno al problema del rapporto mente/cervello e le sue ricadute in ambito clinico.
  • La connessione tra approccio psichiatrico/psicoanalitico ed approccio storico/antropologico: su questa problematica ho organizzato, per conto della Fondazione San Servolo (Venezia), due colloqui internazionali, ai quali faranno seguito altre iniziative di carattere seminariale.

Più in generale, sempre sulla problematica della connessione, si stanno muovendo, in una certa misura, anche due riviste on line: "POL.it" (Psychiatry on line Italy), diretta da Francesco Bollorino, e "Psychomedia", diretta da Marco Longo. In entrambe le riviste — corredate da affollate mailing-list ricche di discussioni, in genere tra operatori "psi" — trova grande spazio il confronto tra approcci e paradigmi differenti, sempre in relazione alle patologie mentali.

Ho voluto ricordare brevemente queste iniziative - ancora artigianali - di dibattito e di ricerca, nella speranza che anche la vostra rivista, "Psyche", possa dare un suo prezioso contributo a questi nuovi orizzonti della teoria e della clinica.


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