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FUNNY GAMES di Michael Haneke, 2008 di Rossella Valdrè

 

 

" In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra.(….) Allora ho sparato quattro volte su un corpo inerte dove i proiettili si insaccavano senza lasciare traccia. E furono come quattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura"

(A. Camus, Lo straniero)

 

Dalla prima scena ci rendiamo conto che la breve vacanza di Anne, Georg e il piccolo George, non sara’ tranquilla. Qualcosa aleggia, incombe fin dall’inizio, impalpabile, innominabile, eppure presente. Nel suo ultimo film, "Funny games", Michael Haneke (lo ricordiamo soprattutto per La pianista) riesce molto efficacemente a calarci immediatamente in un’atmosfera che, sebbene apparentemente normale e quotidiana, sembra invece appartenere a quella che Freud definiva la sfera "dello spaventoso, di cio’ che genera angoscia": il perturbante.

Rifacimento fedele di un omonimo film austriaco del ’97, in questa versione adattata al mercato americano non si perde nulla della forza espressiva e dell’intensita’ della versione originaria, che qui e’ solo trasferita in una casa di vacanza sul lago, in un possibile Vermont, dove una famiglia come tante, giovane e apparentemente serena, va a trascorrere alcuni giorni di vacanza.

I tre si accorgono subito, pero’, appena arrivano in auto, che i loro vicini hanno un’aria strana, e l’inspiegabile abbaiare del cane, a cui nessuno da’ peso, sembra avere annusato un pericolo nell’aria. E’ solo quando Anne va ad aprire alla porta ed inizia l’assurdo dialogo con un ragazzo vestito da tennis coi guanti bianchi, entrato col pretesto di chiedere delle uova, che il perturbante piano piano si materializza. Cosa vuole in realta’ questo ragazzo con la faccia d’angelo e lo sguardo ambiguo (Michael Pitt), e ora, una volta che e’ entrato anche l’amico, del tutto simile a lui ma piu’ scaltro, piu’ diretto e piu’ sfacciato, cosa vorranno tutti e due, perche’ Anne resta imprigionata nella morsa dialettica di due estranei entrati nella sua cucina e non piu’ usciti?

Inizia cosi’ il terrificante assedio da cui nessuno dei tre personaggi uscira’ vivo: i due ‘bravi ragazzi’ dai guanti bianchi prendono possesso della casa, ne isolano tutte le possibilita’ di contatto neutralizzando i cellulari, e tengono in ostaggio Anne, il marito e il piccolo George per un tempo che scorre nell’arco di una giornata, ma che viene avvertito (dallo spettatore e dai tre personaggi, con cui lo spettatore e’ subito identificato) come lento, impietoso ed interminabile. All’interno di questo spazio, in una sorta di teatralita’ sospesa e surreale, i due non rubano, non sono interessati agli oggetti, non sono delinquenti comuni; essi mettono in scena la rappresentazione sadica dei loro giochi (funny games), alternano violenza fisica a trappole verbali, umiliano e mettono in ridicolo, pretendono risposte a domande assurde.

Come rendere l’altro folle, scriveva in un famoso saggio Harold Searles nel ’74 e, nonostante egli si riferisse alle dinamiche inconscie soprattutto tra il futuro schizofrenico e i suoi genitori, noi possiamo senza troppo sforzo rintracciare il nucleo di questa perversita’ relazionale in molti contesti umani di cui, a me pare, il film di Haneke fornisce una intensa rappresentazione.

Sadismo centellinato e tentativo di far impazzire l’altro con messaggi incongrui e disturbanti (fin dall’iniziale richiesta delle uova), forse come mezzo per esternalizzare il conflitto e la sofferenza (cosa sappiamo dei due ragazzi, in fondo? Di loro intuiamo solo che uno, Paul, ha un ruolo dominante sull’altro, chiamato infatti spregiativamente ‘Ciccia’), si mescolano sapientemente creando nello spettatore una totale immedesimazione con le vittime. E’ questa la chiave stilistica che Haneke sembra privilegiare, rispetto ad un didascalismo psicologico che risulterebbe infatti pesante e fuori luogo, ma che e’ implicito a tutta la vicenda.

Da un altro vertice di lettura, come lo stesso regista ha raccontato in un’intervista, il film ha voluto rappresentare il tema della violenza come gioco nel cinema e nel cinema americano in particolare, quella spettacolarizzazione del Male a cui si siamo abituati ad assistere, il complicato rapporto tra violenza e spettacolo. Paul e Ciccia godono nel guardare i loro ostaggi ridotti a poveri esseri in cattivita’, non piu’ umani, non piu’ liberi, l’elemento dell’immagine e il gioco, anche qui, di identificazione con lo spettatore sottende a tutto il film creando una sorta di ‘doppio registro’: da un lato la veridicita’ della violenza, la nostra immedesimazione con la deriva delle vittime, dall’altro il continuo ammiccare di Paul verso lo spettatore, la televisione sempre accesa, vengono a comporre il mosaico del gioco post moderno per eccellenza, quello dell’immagine prima di ogni altra cosa.

Tuttavia, il film riesce ad andare ben aldila’ di questo, diventando metafora di come l’individuo possa, in ogni momento e senza ogni ragionevole motivo, diventare ostaggio di qualcosa di folle e assurdo che lo trascende, lo isola e lo distrugge, quell’unheimlich (il perturbante), quel senso di sconosciutezza e di incertezza che avvertiamo all’inizio e che diventa la premessa perche vi si instauri l’espropriazione di se’, l’annullamento finale. Ricordiamo pero’ che umheimlich e’ "l’antitesi di heimlich, confortevole, tranquillo e quindi familiare, abituale" (Freud, 1919), che la radice semantica e’ comune, e che dunque Anne non avrebbe forse aperto la porta se non avesse visto un bravo ragazzo, fine ed elegante e con la faccia da ricco, che poteva davvero essere ospite della vicina o figlio di un’amica. Il ragazzo sembrava familiare. Il confine e’ sottile, i nostri personaggi non vengono presi in ostaggio e devastati dal diverso da noi, ma dal simile a noi, da cio’ che appare bello, pulito, giovane, conforme. Il perturbante si insedia nella loro casa sotto le vesti del suo opposto, il familiare, il conosciuto, il rassicurante.

A proposito dei due ragazzi, e’ stato scritto di un chiaro riferimento ad Arancia meccenica, nel senso di una banda di sadici coi guanti bianchi che entrano nelle case e, efferati killers seriali, violentano tutto cio’ che di umano vi trovano dentro, per puro divertimento, per noia ("vuoto esistenziale", dice Paul in un evidente parodia degli psicologismi dei media). Il riferimento e’ corretto non tanto, a parer mio, per l’analogia tra i personaggi (dell’Alex di Arancia meccanica si rintracciava una storia, mentre qui i due ragazzi sono del tutto astorici, privi di biografia, incollocabili), ma per l’assoluta assenza di speranza circa la natura umana e la radice del Male.

Sembra inevitabile che la violenza debba perpetrarsi. In Arancia meccanica, l’aggressivita’ veniva spenta come pulsione interna ad Alex con l’intervento medico, ma si trasferiva ad altre forme di violenza (il potere); in Funny Ganes, dove tutto e’ giocato nell’arco di un giorno, dopo aver consumato lentamente i tre delitti, senza soluzione di continuita’ Paul e Ciccia vanno a suonare alla porta di un’altra villa, con identico rituale, ed il gioco ricomincia.....................

COLLABORAZIONI

Il tema del rapporto tra Cinema e psiche è molto intrigante sia sul versante specifico della rappresentazione sia sul versante della interpretazione dell'arte cinematografica. Come redazione anche alla luce della sempre maggiore concentrazione dei media saremmo lieti che questa sezione si sviluppasse in maniera significativa e in questa logica contiamo sulla collaborazione dei lettori da cui ci aspettiamo suggerimenti ma soprattutto collaborazione.

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