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Claudio Cricca, Faceless, Damiani, Bologna 2007

(foto e testi di Claudio Cricca)

Damiani Editore, Bologna, Via Zanardi, 376

fax. 051 63 47 188

tel. 051 63 50 805

info@damianieditore.it

www.damianieditore.it

www.claudiocricca.com

ISBN 978 88 6208 013 2

[Ringraziamo Claudio Cricca, che ci ha regalato alcune foto ed alcuni testi di "Faceless": un libro appassionante, che documenta il suo "lavoro sul campo" nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Il lettore può farsi un’idea precisa di questo straordinario lavoro leggendo i testi qui presentati e le foto qui riportate. Chi voglia contattare il fotografo Claudio Crippa può scrivergli qui: photos@claudiocricca.com]

Introduzione

Nel 1998, quando mi si prospettò di entrare nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, ovvero un "manicomio criminale", non sapevo a cosa stavo andando incontro. Ancora.

Sono le tre e mezzo del mattino, sono steso sul letto dell’alloggio dove risiedo, all’interno dei reparti detentivi. Non riesco a prendere sonno… Sono sconvolto. Nel pomeriggio precedente, il comandante della Polizia Penitenziaria mi ha portato a fare un giro nei reparti detentivi. Sapevo che avrei avuto difficoltà a relazionarmi con i ricoverati, ma di persona è stato peggio di come avevo immaginato.

La "politica" dentro alcuni OPG è quella di far socializzare i ricoverati fra loro. Nei vari reparti le porte delle celle sono aperte e, di conseguenza, te li trovi tutti addosso: la pressione è devastante. A primo impatto ti trovi di fronte ad una barriera di timori, emotivamente destabilizzante. Non si sa cosa fare, cosa dire, come affrontare la situazione.

Sono ancora qui, steso sul letto, in piena notte, con gli occhi sbarrati a pormi alcune domande del tipo: "Ma che cazzo sto facendo in un posto del genere?!?" Ma la domanda cruciale è questa: "Sono veramente in grado di ‘farcela’?" Intendo, dal punto di vista umano. Come raccontare la storia di posti del genere e della gente che ci vive e lavora se proprio io sono in discussione con me stesso, non come fotografo, ma come essere umano?

Scattare una foto è facile; scattare una foto in faccia ad una persona è difficile; scattare una foto in faccia ad una persona che soffre... è contro natura. Ho dovuto attraversare un processo di trasformazione interiore per poter controllare determinate emozioni.

La pazienza, la determinazione e soprattutto la volontà di interagire con questa realtà, mi hanno premiato: durante i miei primi giorni di visita, sono stato affiancato e ho affiancato operatori della Polizia Penitenziaria ed infermieri straordinari per professionalità ed impegno umano. All’inizio, mi facevano da filtro con i ricoverati, facendomi tastare il terreno un po` per volta ed insegnandomi una forma di comunicazione che non fa parte delle relazioni quotidiane a cui di solito si è abituati. Osservandoli, ho capito come avere a che fare con le persone rinchiuse negli OPG. Gli infermieri, ma soprattutto i poliziotti, sono le figure di riferimento. Non hanno nessuna preparazione fornita dallo Stato. Il tutto è lasciato al buon senso ed al lato umano dei singoli individui.

Una volta imparato a comunicare con i ricoverati, ho capito come avrei dovuto sviluppare il lavoro fotografico che mi ero proposto di fare. Il culmine del mio rapporto umano con loro si è verificato in Sicilia, quando un ricoverato ha ricevuto una lettera da casa. Con mia sorpresa e immensa emozione mi chiede di leggergliela. Un altro ricoverato si intromette: "Dai, te la leggo io" - "No! Voglio lui!" Anche se la cosa mi ha enormemente inorgoglito, non posso dimenticare la grande tristezza che mi ha pervaso durante la lettura.

Riflettendo sul tempo che ho trascorso all’interno dei cinque istituti visitati, mi sono accorto che nel corso degli anni ho collezionato quattordici settimane di vita vissuta all’interno di queste carceri per gente "malata" e "pericolosa", gente disarmata del proprio orgoglio, dalla propria fierezza… Cosa ne rimane? Alcuni, i più lucidi, cercano di mantenere una propria dignità, ma fanno molta fatica.

Il lavoro prende in esame la realtà di questi Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che a tutt’oggi sono quasi del tutto sconosciuti ai più. Si tratta di vecchie istituzioni che raramente trovano esempi analoghi nel panorama internazionale. In virtù di ciò da tempo lo Stato italiano sta prendendo in considerazione la possibilità di chiuderli.

Questi luoghi rappresentano il capolinea della società, qui la gente vive tra deliri ed allucinazioni, ognuno con la propria storia di violenza e umiliazione.

All’interno di essi si vive la realtà drammatica di persone abbandonate sia dalle istituzioni che dalle famiglie stesse (si consideri che la maggior parte dei ricoverati ha compiuto il proprio delitto in famiglia e molte di queste non hanno più intenzione di riprenderli con sé).

Va sottolineato che tra i vari istituti si contano poco più di un migliaio di ricoverati in tutta Italia. Le pene da scontare sono relativamente brevi, ma se alla fine di esse il ricoverato non ha una struttura che possa accoglierlo, famiglia, comunità, ecc., è condannato a rimanere dentro l’istituto ad oltranza, anche per tutta la vita. Ne consegue che le detenzioni si allungano vistosamente ed i ricoverati chiamano questa situazione "ergastolo bianco."

In questi istituti, inoltre, vige un regime carcerario laddove dovrebbe trattarsi di ospedali. I poliziotti sono più numerosi degli infermieri e il risultato è una struttura a metà tra il "manicomio" e la prigione: un mostro a due teste senza identità.

Sin dall’inizio del progetto, ho espressamente deciso di rendere i ricoverati pressoché irriconoscibili. Pertanto, ho elaborato forme con luci ed ombre, corpi e spazi, alla ricerca di immagini, emozioni e sensazioni il più possibile forti, incisive, che potessero restituire il clima all’interno degli istituti anche senza il supporto dei volti dei ricoverati.

Per tutte le ragioni esposte mi sono impegnato in questi anni a documentare la realtà interna degli OPG, visitando tutti e cinque gli istituti esistenti in Italia che dipendono dal Ministero della Giustizia.
Per le stesse motivazioni ho intitolato il progetto: Faceless, senza volto.

Dal mio diario
1: Arrivo all’ingresso di un reparto detentivo,

i ricoverati si radunano davanti alla porta a vetri.

Si chiedono chi io sia.

Generalmente,
i riferimenti sono le divise
dei poliziotti o i camici degli infermieri.

Poi uno di loro dice: "Ma non vedete?
È uno nuovo!"

2: Un ricoverato mi avvicina.

Persona istruita, relativamente giovane,
in forma fisica. Non fumatore.

"Fotografo mi consenta,
ma lei sta sbagliando tutto!"

-"In che senso? Mi puoi spiegare?"

"Certamente. Lei ci sta fotografando così come siamo…"

-"E quindi?"

"La gente di fuori come fa a capire
che noi siamo matti?

Se però lei fotografa uno di noi nudo, ecco che allora la gente può dire: certo che questo è proprio matto! Le propongo di fotografarmi nudo, metto giusto qualcosa per coprire il volto, così lei ha le foto per il suo servizio e poi mi manda due o tre immagini, che mi piace valutare lo stato del mio fisico in quanto seguo regolari esercizi fisici…"

"Fotografo! A proposito, se le occorre qualcuno che le scriva l’articolo io sono disponibile!"

3: "Prego affinché mia moglie venga a trovarmi,
non vedo l’ora di vederla."
La preghiera di un ricoverato alla Messa, sorride felice, sembra, anzi è emozionato. Il parroco lo abbraccia, il ricoverato si commuove.
Non vede la moglie da due anni.
La fede è forse, per alcuni, l’unica cosa alla quale aggrapparsi.

Alimenta le speranze.

4: "Perché una persona ritenuta malata deve essere tenuta dietro le sbarre?

Quando all’interno di una struttura del genere, vero e proprio carcere, un ricoverato ha un momento di lucidità e/o consapevolezza, soffre enormemente perché sa di pagare per una colpa che non gli è stata riconosciuta."

Mi dice un ricoverato
Non è raro che, in uno di questi momenti di consapevolezza,
un ricoverato tenti il suicidio.

5: Fabrizio è un ex giocatore di calcio:
il calcio era ed è tutto nella sua vita. Perfino all’interno dell’istituto era difficile vederlo senza il suo pallone.
La sua è la storia di un sogno distrutto, incontri sbagliati, droga, miseria e, finalmente, la scoperta di una nuova ragione di vita. A 17 anni, in uno scontro di gioco durante una partita, un ginocchio ha ceduto, spezzando per sempre i suoi sogni di grande calciatore.
Inizia l’incubo. Subito dopo l’infortunio, Fabrizio è caduto in una grave forma di depressione associata a un grande senso di autodistruzione.

"All’inizio la droga mi calmava il dolore che continuava
a perseguitarmi, ma soprattutto non mi faceva pensare.
Per procurarmi soldi facili per la droga, cominciai a rubare e a rapinare, perdendo in breve tutti quei valori umani e morali che grazie alla pratica dello sport mi erano stati insegnati sin da piccolo. Diventai un’altra persona, completamente l’opposto di quello che ero stato… In passato sono stato veramente un gran bastardo…"
Il carcere è stato inevitabile. La storia di Fabrizio è il racconto di una vita tesa tra dolore e speranza di rinascita e che nei record di palleggi trova una sorta di sfida contro la sofferenza e la fatica del vivere.

"Nella malattia migliori, mi sento più disponibile nei confronti degli altri e dei loro problemi… Ogni giorno di vita in più, è un regalo!"

Oggi Fabrizio è un uomo libero, con un lavoro, una compagna, una casa.

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