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FENOMENOLOGIA E PSICOTERAPIA

LORENZO CALVI

 

 

Non vorrei essere tacciato di sicumera se mi permetto di dire qualcosa a ricordo di Barison in un ambiente che l’ha conosciuto per tanti e tanti anni. Per quel poco che l’ho conosciuto io, mi è sempre parso che la sua figura fosse avvolta nel pudore. Motivo per cui mi sembra molto appropriato che la nostra giornata di studio s'intitoli non al suo nome, ma alla disciplina che egli ha lungamente e sapientemente coltivato. Tuttavia non mi è stato difficile cogliere nell'invito a venire qui, rivoltomi dall'amico Gozzetti, l’intenzione di ricordare insieme un uomo che è stato, giustamente, molto stimato e molto amato in quanto rispondente alla nostra esigenza d'incontrare e di non lasciarci sfuggire oggetti di stima e di amore, onde sollevarci alla loro altezza e così, come si suol dire, "tirarci su" e "tirarci fuori".

Questi movimenti intenzionali possono toccare il loro compimento a condizione che si traduca in un precetto la qualità essenziale della persona amata e stimata. Cercherò quindi d'infrangere il meno possibile il precetto del pudore dovendo tuttavia cominciare col dire che il mio primo ricordo di Barison risale ad un pomeriggio del 1963, quando esposi una mia ricerca sull'oggetto fobico (1) in uno di quei "Lunedì del prof. Fazio", che hanno lasciato un’impronta inconfondibile lungo il percorso faticoso e frammentario della neuropsichiatria italiana. Nell'intervento di uno degli uditori — il prof. Barison, per me allora sconosciuto — risuonarono accenti di grande calore per la corrente fenomenologica (nella quale mi ero inserito da alcuni anni e che aveva dato corpo al mio lavoro), accompagnati dalla precisa affermazione che da essa ci si potessero aspettare notevoli risultati in sede di psicoterapia. Io gli opposi vivacemente, armato non tanto di dottrina e d'esperienza quanto d'irruenza e d'improntitudine giovanile, che non mi risultava né possibile né verosimile una psicoterapia fenomenologica, spettando alla fenomenologia un compito di "pura" osservazione e di "pura" descrizione. Inutile sottolineare l'autocompiacimento che c'era nel proclamare di dedicarmi ad una ricerca fine a se stessa, collocandomi ipso facto in un'atmosfera rarefatta e "pura": l'atmosfera apicale che la gerarchia classica e quella medioevale assegnano alla filosofia e che pertanto riguarda anche la fenomenologia. In quegli anni di formazione, il mio convincimento, oltre che ricalcare quello di Cargnello, con il quale mi trovavo a collaborare, riassumeva l'esigenza di manifestare un gesto di rottura verso una cultura psichiatrica accademica, che ripeteva stancamente moduli lombrosiani coltivando senza fantasia le "arti meccaniche" della neurochimica, della testistica e della psicoanalisi, fraintesa come "idraulica" della libido. Tutto ciò accompagnato da non si sa quanto convincimento, mentre era sicuramente convinta l'affermazione che soltanto queste discipline rispondevano ad un'esigenza di scientificità, che sembrava essa sola impedire qualsiasi emigrazione dei malati mentali e della loro cura al di fuori dei confini della medicina ufficialmente imperante. Più anziano e più maturo di me, Barison aveva superato, evidentemente, posizioni adolescenziali come la mia e andava già praticando ancor più che predicando un gesto di rottura molto più radicale. Egli infatti non si era perso nella scelta tra questo o quell'indirizzo di stampo naturalistico, ma aveva adottato un orientamento dichiaratamente filosofico, senza abbandonare la terapia nelle mani di coloro che pretendevano di operare nel nome della scienza. Egli si riferiva esplicitamente alla filosofia di Heidegger e la curvava fino a renderla uno strumento idoneo per penetrare i mondi psicotici e per avvicinare concretamente i malati allo scopo di curarli.

In quegli stessi mesi Barison fondava la rivista Psichiatria generale e dell'età evolutiva, nel primo numero della quale egli volle pubblicare il testo della mia relazione di Genova, mentre nel terzo pubblicò la sua traduzione dal tedesco d'un articolo dedicato alla psicoterapia fenomenologica in Germania, corredato da una foltissima bibliografia, portando così un contributo forte al suo punto di vista nel dibattito che ci aveva contrapposti.

Successivamente, come è noto, Barison ebbe a pubblicare a più riprese brevi osservazioni sull'esperienza personale sua e dei suoi allievi in tema di psicoterapia fenomenologica ed una volta volle mettere anche me tra i fenomenologi orientati in senso positivo (2).

La sua menzione, pronunziata da chi, come lui, aveva così a cuore l'argomento ed aveva conquistato una notevole autorevolezza, si presentava come un apprezzamento molto lusinghiero, che cancellava una contrapposizione oramai lontana e dimostrava una lettura molto ma molto attenta dei miei lavori. Nessuno di essi, infatti, è dedicato alla psicoterapia fenomenologica, ma in alcuni di essi si trovano dei passi nei quali si adombra, sia pure con grande cautela, un possibile risvolto terapeutico dell’atteggiamento fenomenologico. Tale risvolto terapeutico era il frutto, o forse sarebbe meglio dire lo specchio, del mio apprendistato, nel corso del quale le mie convinzioni affermate a Genova erano molto cambiate. Il fatto è che il mio approccio alla fenomenologia era avvenuto tramite due momenti, formalmente distinti, ma cronologicamente sovrapposti ed esistenzialmente intrecciati tra loro. Mi ero infatti venuto a trovare nella condizione di avere nello stesso tempo l'insegnamento di Cargnello e quello di Paci. Col suo insegnamento Cargnello mi aveva introdotto nell'atmosfera heideggeriana di Binswanger e mi aveva guidato all'analisi dei mondi neurotici e psicotici, facendomi scoprire la peculiare struttura del loro spazio e del loro tempo.

Questa struttura veniva alla luce grazie ad un disvelamento fenomenico, che appariva come un dono spontaneo, offerentesi a chi sapesse coglierlo con un'attenzione nutrita di attesa paziente e di dedizione totale: con l'assunzione d'un atteggiamento assolutamente neutro (di "fredda neutralità", diceva Cargnello), che premunisse da qualsiasi caduta nel soggettivismo e quindi nello psicologismo, ma che precludeva nello stesso tempo qualsiasi apertura verso la terapia. Come ciò avvenisse non era ben chiaro, senonché qualcuno aveva la vocazione del fenomenologo e qualcuno no.

Paci invece diceva in modo esplicito che l'esercizio fenomenologico è un vero e proprio lavoro, anzi, una fatica, che non si pratica senza un intenso travaglio, per descrivere il quale egli ricorreva spesso ad accenti decisamente drammatici. Tanto drammatici che io mi domandavo qualche volta se non mi stava toccando di avere la stessa esperienza di Fabrizio del Dongo, il protagonista de La Certosa di Parma. Nel romanzo di Stendhal, la partecipazione del suo giovane eroe alla battaglia di Waterloo è vissuta in modo così ignaro della grandiosità dell'evento da far osservare all'autore che, finito tutto, Fabrizio venne a sapere che era stata una cosa tremenda. Anch'io, così come Fabrizio nell'assistere alla battaglia, avevo constatato che l'esercizio della fenomenologia era una cosa molto affaticante, perché richiedeva lunghe vigilie ed intensa applicazione, ma mi sembrava regalarmi assai più esaltazione che angoscia, perché ero affascinato dai suoi momenti d'illuminazione e dalla rivelazione che si potevano fare bellissime scoperte, "vedendo" le piccole cose che avevo a portata di mano. La prima, e fondamentale, scoperta era quella di rendermi conto che "fare fenomenologia" voleva dire aggiungere alla visione sensoriale la visione sovrasensoriale o categoriale o eidetica e che la visione eidetica era niente affatto naturale. Che non fosse naturale me lo dicevano le circostanze in cui mi avveniva di conseguirla: o la rivelazione subitanea ed inaspettata del fenomeno oppure il suo disvelamento graduale e faticoso. Il dono oppure la conquista: l'uno e l'altra dandomi la sensazione vivissima di respirare un'atmosfera nuova, di trovarmi in un nuovo mondo. Con l'apprendere la terminologia husserliana venivo a sapere che il nuovo "mondo" potevo chiamarlo "mondo della vita" e che esso mi dava una sensazione vivissima, perché tutto mi si offriva con una presenza immediata, prima di ogni riflessione e di ogni giudizio, su di essi cadendo l'ironia filosofica o epochè. Il mondo della vita, nel quale mi sentivo libero dall'evidenza naturale, era mosso da una sene di operazioni, sovrapposte alla realtà quotidiana e formanti una sorta di "azione parallela", che potevo chiamare movimenti intenzionali.

Dal mondo della vita andavo raccogliendo giorno dopo giorno una messe di evidenze fenomeniche, emergenti dall'incontro della mia coscienza con me stesso, con le cose, con gli altri, tra i quali prendevano sempre più posto i malati.

È stato specialmente nell'incontro con i malati che ho sentito il dovere della spontaneità, di modo che mi sono trovato a seguire il mio temperamento flemmatico, senza forzarlo né verso la fredda neutralità di Cargnello né verso la turbolenza emotiva di Paci, radicata in un temperamento malinconico. Mi accorgevo di prendere distanza da entrambe, ma da Paci apprendevo in che modo avrei raggiunto una mia posizione autonoma al di là di quel che dettava il mio temperamento. Paci, infatti, in più occasioni dichiarava da che cosa egli stesso prendeva distanza. Era quello che a volte chiamava "negativo", a volte "male", a volte, esplicitamente, morte. La sua concitazione verbale mi si svelava essere l'espressione del suo travaglio liberatorio, della sua personale lotta con l'Angelo, mentre la fredda neutralità di Cargnello mi sembrava che stesse a significare l'arroccamento in una posizione di ascesi esistenziale — abitata peraltro dal continuo colloquio con Binswanger — scelta da lui come idonea a garantire la limpidezza della contemplazione. Tuttavia, per quante congetture potessi fare sulla posizione esistenziale dell'uno e dell'altro maestro, non trovavo da nessuna parte un'indicazione sul rapporto sussistente tra la posizione esistenziale e la professione fenomenologica esercitata da ciascuno dei due. Questo rapporto lo dovevo scoprire da me a mano a mano che portavo avanti di pari passo la mia riflessione sull'epochè. Ciò che mi è parso è che entrambi avevano sospeso (o cercato di sospendere o quanto meno intuito di dover sospendere) l'evidenza naturale della propria naturalità, mediante un esercizio personale dell'epochè, che si manifestava in un modo assai diverso nell'uno e nell'altro. Io stesso conducevo una lotta molto personale con l'Angelo tutte le volte che individuavo nei malati quello che Paci chiamava il "negativo" e che io chiamavo "carne", offrendo loro di condividerne il peso: un peso del quale, evidentemente, l’esistenza non mancava di gravarmi.

L'offerta di condivisione era sostenuta nel mio intimo dalla fiducia che la naturalità della "carne" o del "negativo" o della morte potesse essere messa tra parentesi. Questo decisivo esercizio fenomenologico non è possibile, secondo la mia esperienza, se non adottando la metafora della "seconda vista", in modo assai più letterale di quanto non si faccia di consueto. Quando si parla di visione eidetica si vuol parlare di un'operazione mentale ben lontana dalla sensorialità, mentre io ritengo che bisogna figurarsi di annettervi una certa consistenza, un certo spessore spazio-temporale e corporale. Come se nella coscienza si allestisse una messa in scena sulla quale compaia, non la visione sensoriale, ma una sua mimèsi (o doppio) non del tutto trasparente. Così facendo o, meglio, così lavorando di fantasia, diventa più plausibile parlare di "seconda vista" e

viene spontaneo invocare uno "strabismo" (3) per usufruire insieme della "prima" vista e della "seconda". E’ come se - non guasta un paragone in più - mentre si fa e si pensa qualcosa, ci si immaginasse di farlo o di pensarlo nello stesso momento con la prassi mimetica del gioco. Anche la propria naturalità, per quanto vissuta come morte, in questa prospettiva dovrebbe essere alleggerita dall’angoscia. È qui che trova un suo posto ausiliario il necessario interesse del fenomenologo per le arti e la letteratura, in quanto offrono una mimèsi ludica dell'esistenza.

Negativo, diavolo (4), carne, disordine dell'amore (5). Molti sono i modi con cui i filosofi hanno nominato il peso che portiamo, perché molti sono i modi con cui si manifesta. Uno solo è il modo con cui gli uomini generalmente l'affrontano: occultandolo, facendo finta di niente, non vedendolo. Chiamiamolo pure negativo, senza dimenticarne tutte le altre denominazioni possibili, ciascuna delle quali richiama tutta una sfera culturale ed eidetica, tutto uno spessore storico e antropologico. Chiamandolo negativo va da sé che lo si rifiuti: infatti esso altro non è se non l'annuncio della morte.

Tuttavia la proposta del fenomenologo non è quella di affrontare direttamente il problema della morte. Egli non ripete né il discorso cristiano né quello stoico. Egli suggerisce di non fare finta di niente, ma di vederla, perché vedere la morte è sempre meglio dell'angoscia. Anziché chiedere alla nostra vista l'impossibile, cioè di vedere sensibilmente la morte nei suoi simulacri, il fenomenologo suggerisce di attivare la "seconda vista" e di "vederla" dove emerge il suo senso.

In un punto cruciale come quello di fronteggiare la propria natura mortale, si trovano quindi alcune operazioni di epochè, alcuni gradini di quell'epochè di cui tanto si parla e di cui tanto poco si riesce spesso a mettere in chiaro, al punto che la parola stessa è per molti il segnale d'una terra incognita ed impraticabile.

L'epochè può essere descritta come un'interruzione di quell'adesione tacita alla realtà, al suo tacito fluire temporale, alla sua tacita collocazione spaziale, al suo tacito funzionamento corporale, grazie a cui la nostra esistenza scorre tacitamente. In un mondo pieno di velocità, d'ingombro e di stimoli al bisogno — tutte cose che producono rumore — e dove tutti si compiacciono di dirsi stressati perché si sentono in dovere di correre, di prendere spazio e di consumare, può sembrare paradossale l'affermazione che in effetti lo scorrere del tempo, il dispiegarsi dello spazio e il funzionamento del corpo siano silenziosi. Nella sua ovvietà, l'esistenza è silenziosa. Essa è silenziosa di senso ed è questo silenzio che suscita una domanda filosofica: è nella sua ovvietà che viene riconosciuto il primo ostacolo da spezzare per cominciare a rispondervi. La fenomenologia, come è noto, si è dedicata forse più di ogni altra corrente di pensiero a tematizzare la liberazione dall’ovvietà e l'uscita dal silenzio.

Molti sono i modi con cui può essere formulata la domanda filosofica fondamentale, ma la sua forma più comune, più elementare, più spontanea, quella che erompe dal petto almeno una volta al giorno, è la seguente: "Ma qual è il senso di tutto questo?". Una tale domanda sembra rientrare in un semplice gioco di botta e risposta, dove la botta è costituita da un sia pur piccolo scontro con un qualche elemento della quotidianità e la risposta è una frase o una parola considerate per lo più espressioni di disappunto, semplici imprecazioni. Effettivamente la nostra risposta non ha di solito alcun seguito. Qualunque cosa si dica oppure si dica soltanto: "Merda!", si tira avanti comunque. Eppure la domanda filosofica non può essere elusa tanto tranquillamente. Il fatto stesso che essa contenga una richiesta di senso ci sposta di colpo su un piano, che non è quello della realtà quotidiana. C'è un modo molto semplice per rendersi conto che ci si è spostati su un piano trascendente ed è quello di ascoltare i momenti nei quali si vorrebbe avere uno spazio o un tempo o un corpo diversi.

Ci si può sentire assillati dall'insufficienza del tempo disponibile oppure annoiati dal suo eccesso e allora si vorrebbe che il tempo fosse più adeguato alle nostre esigenze. Ci si può sentire angustiati dall'insufficienza dello spazio oppure smarriti nella sua grandezza e allora può capitare di augurarci di avere uno spazio più consono alla nostra misura. Ci si può sentire inadeguati a compiere un certo sforzo fisico oppure oppressi dalla nostra robustezza che non trova sfogo; incapaci di corrispondere al nostro desiderio sessuale oppure incupiti dall'impossibilità di dare appagamento alla nostra esuberanza; oppressi da un pasto copioso oppure innervositi dalla fame; disturbati da un sonno che viene molto tardi o da un risveglio che viene troppo presto. Via di questo passo ritroviamo tutte le svariate manifestazioni capaci di suscitare il desiderio di avere un corpo diverso.

Tutto questo sembra appartenere soltanto all'ambito della brama e della soddisfazione, della mancanza e del possesso, cioè alla sfera dell'avere, del maneggiare, dell’usare e del consumare. Ma se soltanto si rinuncia per un momento al nostro bisogno di cambiare le cose (a cominciare dal nostro corpo) e le dimensioni spazio-temporali, allora la coscienza può figurarsi un modo di esistere, che non consista nell'andare incessantemente da una cosa all'altra, ma che le faccia cercare in se stessa la sua pienezza. Di questa tabula rasa, cioè di questo disinteresse totale per le cose del mondo, la natura ci offre un prototipo verosimilmente insuperabile: la grave crisi malinconica. Prova ne sia che ad essa viene collegata fin dall'antichità classica un'apertura speciale su tutto ciò che va oltre la realtà quotidiana.

Come dice il famoso passo di Aristotele, "tutti gli uomini che furono eccezionali in filosofia, in politica, in poesia o nelle arti erano manifestamente malinconici". Senza pretendere di entrare nel numero degli uomini eccezionali, il mio impegno è stato quello di perfezionare la visione eidetica e di moltiplicarne le occasioni.

L'intenzionalità è una disposizione della coscienza, che deve essere tenuta desta ed esercitata assiduamente. Essa trae vivacità e fervore dall'apparizione spontanea del fenomeno, che le offre una gratificazione incomparabile ed una grande letizia. Ma il dono è raro e, in assenza del dono, c'è il rischio che la coscienza si lasci ingombrare eccessivamente dalle cure quotidiane ed offuschi così la sua trasparenza. Alla rarità del dono occorre supplire con l'assiduità della conquista e il confronto con l'esperienza malinconica induce ad orientare la ricerca là dove si verifica un sia pur piccolo disagio.

A motivo della mia disposizione umorale non malinconica, io ho sempre cercato, in un primo tempo, si capisce, inconsapevolmente, di usufruire del disagio emergente da quei piccoli scontri con la quotidianità, dei quali ho riportato più su alcuni esempi, dove si verifica un intoppo, una frizione e quindi si percepisce un brusio, un rumore, qualcosa che è certamente ben lontano dall'urlo di Munch, ma è pur sempre qualcosa che rompe il silenzio e chiama verso la sfera trascendentale.

Ma come e quando si coglie questo qualcosa, come e quando qualcosa diventa annuncio potenziale di senso? Ciò accade quando non si disconosce l'intoppo lasciandolo scorrere via col flusso quotidiano della realtà, avendo avuto fretta di eliminarlo. Non sto pensando a grandi cose (anche se non manca un riferimento alle "situazioni affettive rivelatrici" di Jaspers ed alle "fenomenologie della perplessità, dell'attesa, del coraggio", ecc." di Callieri), ma a piccoli intoppi, non più grandi di quel che sia un sassolino nella scarpa. Anche questo non lo si deve togliere troppo presto, altrimenti non funziona come "scrupulum" e non strappa alcuna riflessione.

Quando si sopporta che lo stream of consciousness abbia un gorgo, un arresto e questo non sia ignorato, allora lo si può riconoscere per quello che è: una sospensione spontanea dell'evidenza naturale e quindi l'occasione giusta per praticare una volontaria, ulteriore epochè, facendo un gesto di libertà nei confronti di un rapporto unico e meramente funzionale con le cose, quello che ci è dato dalla visione fisica; un atto di speranza che la realtà possa racchiudere qualcosa di più di quel che sembra imporci la routine quotidiana; un atto di fiducia che l'esistenza possa offrirci qualcosa di diverso rispetto agli schemi ed alle convenzioni.

Il momento dell'epochè è quello in cui viene separata la pagliuzza d'oro del senso dalla sabbia della disposizione umorale malinconica di qualcuno e del grigiore della vita quotidiana di tutti. La visione eidetica è lo strumento, esercitato in stato di epochè, necessario a raccogliere l'oro del senso. Si pone in stato di epochè chi smette di assistere passivamente alla propria malinconia e/o al grigiore del mondo e si mette personalmente in gioco. Chi riconosce la necessità di costruire e di ricostruire continuamente il proprio mondo per abitarlo, come dice Heidegger, dal momento che ha constatato che l'abitabilità del mondo è tutt'altro che certezza concessa una volta per tutte. Il momento in cui si riconosce questo è contrassegnato spesso da una frase banalissima: "Mi sono accorto che...". Essa annuncia che si è entrati nel circolo della visionarietà e della donazione di senso, dal momento che il gesto di libertà, di speranza e di fiducia è stato compiuto. Queste parole vanno intese nel loro significato pieno, senza alcuna carica enfatica. Esse non vogliono assolutamente rimandare ad una sfera di valori maiuscoli, ma, in modo del tutto dimesso, ad un piano dove la libertà scaturisca dalla curiosità di vedere se ci sono altre scelte, la speranza venga dalla pazienza di attendere e la fiducia si radichi nella passione di esistere.

Curiosità, speranza e fiducia sono le qualità che il fenomenologo cerca di non perdere quando si misura nell'incontro col malato in veste di psichiatra. Egli si presenta come "esperto dell'esercizio fenomenologico" e come tale si accinge a ripercorrere i movimenti intenzionali, che hanno portato il malato alla sua situazione esistenziale. Quando il fenomenologo si limitasse a cogliere, del malato, soltanto le spontanee donazioni di senso, allora egli conferirebbe alla visione eidetica un ruolo così esclusivo (e così escludente il suo coinvolgimento) da portarlo ad un possibile approccio estetizzante (6). Ma se il fenomenologo è esercitato ad ascoltare il suo personale, anche se saltuario, disagio, alcuni elementi fisiognomici del malato possono stimolare la sua prassi mimetica a ripresentificare il malato stesso nella sua coscienza, "mettendolo in scena" e quindi offrendolo, sia pure indirettamente, alla sua visione eidetica. Tutto questo avviene in una temperie di grande coinvolgimento affettivo. Sono questi i motivi per cui mi sono soffermato a lungo sulla mia formazione, perché essa costituisce, oltre che un training sui generis, un modello esplicativo del percorso fenomenologico ed esistenziale, che si deve affrontare insieme a ciascun malato, fino ad arrivare a quello "strabismo", che permette di abitare insieme il mondo della mondanità e quello della trascendenza.

Una delle frasi che il malato ci rivolge più spesso è proprio: "Mi sono accorto che...". Mi sono accorto che mi si presentava un aspetto nuovo della realtà, un senso inaspettato, una tonalità affettiva diversa dal solito.

Senonchè quella del malato non è una vocazione, ma è una costrizione al riconoscimento del senso. Egli vive una situazione contraddicente sia la libertà che la speranza e la fiducia. Per lui è andata persa, o sospesa, l'evidenza naturale senza che egli né sappia né voglia né possa fruire positivamente d'una situazione dove il silenzio delle cose non è interrotto da un pacato discorso del senso, ma è lacerato da stridori, richiami, minacce. E non sto parlando, si badi bene, di allucinazioni acustiche, bensì dei clamori o dei sussurri metaforici, che sgorgano da una realtà attraversata da percorsi di senso, che imprigionano e stordiscono.

Abituato com’è ad ascoltare il discorso delle cose, il fenomenologo si ritrova avvantaggiato nell’inserirsi nel discorso che avvolge il malato. Egli pratica l'ascolto partecipante per dargli la sensazione della vicinanza emotiva e interviene con la parafrasi (7) per dargli la sensazione della vicinanza ideativa. Così il malato finisce di sentirsi solo e sente il calore della comprensione.

Lascerò ad un altro momento la lunga digressione che sarebbe necessaria per parlare più a fondo della comprensione, distinguendo tra la comprensione nel senso di Jaspers e la comprensione trascendentale. Cercherò qui di esplorare che cosa si presenti al di là della comprensione, allo scopo di rispondere alla domanda: "Fa o non fa terapia lo psichiatra fenomenologo?". A questa domanda risponde lo stesso Barison. Pochi mesi dopo la comparsa del Trattato Italiano di Psichiatria, egli pubblicò una lunga recensione al capitolo che io vi avevo scritto, dicendo, tra l’altro: "E così io mi permetto d'interpretare il pensiero di Calvi: fenomenologia è psicoterapia; lo è e lo è sempre stato" (8). II mio pensiero è precisamente questo, di modo che mi piacerebbe concludere questo ricordo del maestro col sigillo d'una frase tanto limpida e promettente: promettente perché potrebbe favorire un rilancio della fenomenologia con un più diffuso interesse dei giovani psichiatri verso di essa.

Io stesso però sento di dover esplicitare la frase di Barison sottolineandone il significato in un modo che a lui sarebbe forse apparso riduttivo. Fenomenologia è, sì, psicoterapia, in quanto può fondare saldamente un rapporto di coesistenza tra curante e malato, ma non per questo si può parlare a pieno titolo di "psicoterapia fenomenologica", che è una formula in sé contraddittoria. Fare terapia, nel senso medico della parola, vuol dire usare strumenti mondani: il farmaco, l’interpretazione, l’empatia, mentre la fenomenologia (husserliana) si muove in una sfera che trascende la mondanità, cercando di mettere in evidenza le condizioni di possibilità della comprensione.

Lo stesso Barison, d'altra parte, da un lato ravvIsava la potenzialità terapeutica del mio atteggiamento fenomenologico e dall'altro diceva, della sua ricerca: "ci ostiniamo a chiamarla convenzionalmente fenomenologica, ma è ora orientata verso l’essere" (9). Egli non sarebbe comunque andato indietro a cercare la fondazione della comprensione, ma sarebbe andato avanti per "fare qualcosa". Qualcosa consistente magari nel prendere la decisione di non "fare niente" (10) quando le condizioni del malato sono tali da suggerire questa scelta.

Anch'io, qualche volta, "faccio qualcosa". Qualche volta mi azzardo ad inserirmi nell'esistenza altrui con un consiglio, con una direttiva, con una qualche indicazione (divorzia, cambia casa, cerca un altro lavoro, tieni duro, ecc.); quando cerco di aumentare o di diminuire il coinvolgimento dei familiari d'un malato; quando spingo a continuare una cura oppure ad interromperla; ecc. Ma mi sento veramente fenomenologo quando mi siedo accanto al malato come a colui che è vittima d'un più o meno crudele, ma mai innocuo, esperimento della natura e cerco di farglielo rivivere come esercizio fenomenologico. Il malato conosce per esperienza diretta l'illuminazione e la rivelazione fenomenica, il discorso delle cose e l'erompere del senso. Egli soffre d'una visionarietà incontrollata, di modo che la sovrabbondanza dei vissuti carica la sua esistenza d'un peso insostenibile. È come se al malato fosse imposto di sopportare una duplice realtà: quella empirica della vita quotidiana e dei suoi rimandi funzionali e quella trascendentale del senso e dei suoi nessi non sempre e non facilmente estricabili. Il mio sforzo è di fargli capire che nella sfera della visionarietà egli non è solo.

I due atteggiamenti, quello del fare e quello dello stare insieme, mi sembrano efficacemente

coniugati in una pagina di Landolfi: "G. aveva in casa sua una grande stanza vuota dove si esercitava a lanciare uno di quei missilini con chiodo alla punta contro un bersaglio... Giungendo, lo lanciai e feci centro alla prima; e G. imbestialito pretendeva che io rifacessi centro, per dimostrare che non si era trattato di un mero caso. Mi credeva una scienza, mentre io non avevo da offrirgli che un'arte... se la scienza, infatti, trova modo di far centro, può poi farlo sempre, mentre l'arte, tapina, non può ripetere il miracolo (inutile soggiungere che... ritentai cento volte la prova e la fallii). Nondimeno, a chi o a che cosa può giovare la ripetizione a volontà di checchessia? Agli uomini, alla loro società, ai loro bisogni: a nessuno e a niente. E finalmente: non è l'irripetibile la nostra ultima meta e la nostra unica salvezza dai, contro, i fatti?" (11).

Oltre che a mostrare quanto sia casuale e raro "far centro" con un'indicazione "mirata", questa parabola rivendica il diritto della persona alla sua singolarità, che designa esplicitamente come "unica salvezza" contro la fattualità della vita quotidiana. Sebbene la singolarità del malato non sia l'espressione d'una sua libera scelta, bisogna riflettere sull'opportunità e sull'eticità di cancellarla, soprattutto quando, cioè quasi sempre, il malato non avrebbe altro modo per manifestarsi come persona.

Parlando di terapia è ovvio che si pensi ad una terapia efficace e quindi alla guarigione e alla salute, ma non si può trascurare di vedere se la salute e la salvezza della dispersione mondana vanno o non vanno nella stessa direzione. Una cura efficace toglie ad una persona ciò che la mette, sì, "fuori di sè", ma anche "al di sopra di sè", al di sopra della sua ovvietà, della sua banalità, della sua sostanziale miseria. Il problema si pone oggi in modo stringente, come mai prima d'ora, da quando le cure farmacologiche stanno andando sempre più vicino allo scopo di eliminare la malinconia, di disfare il delirio, di spegnere l'ansia. S'impone come minimo un attento bilancio tra la sofferenza del malato ed il dolore del suo impegno nella quotidianità, altrimenti l'intervento terapeutico rischia di tradursi in accanimento terapeutico. Bisognerebbe cercare ogni volta di capire quanto il malato ci guadagna in salute e quanto ci perde in salvezza. Se lo psichiatra che prescrive il farmaco avvicina il malato da fenomenologo, il malato prende la medicina come un'estensione del suo corpo, fatto leggero dai suoi movimenti intenzionali. Mediante il farmaco si stabilisce tra medico e malato una comunione corporale, un ponte idoneo a far passare il sollievo.

NOTE

1) Calvi L.: "Sulla costituzione dell'oggetto fobico come esercizio fenomenologico". Psichiatria Gen. Età Evol., 1, 1963.

2) Barison E: "Principi di psicoterapia fenomenologica. Trattamento di insufficienti mentali gravissimi". Psichiatria Gen. Età Evol., 149, 25, 1987.

3) Calvi L.: "Prospettive antropofenomenologiche". Trattato Italiano di Psichiatria (diretto da Cassano G. B. e coll.), Masson, Milano, 1, 106,1993.

4) Calvi L.: "La fenomenologia del diabolico e la psichiatria antropologica". Arch. psicol. Neur: Psich., XXX, 390, 1969.

5) De Monticelli R.: "L'ascesi filosofica". Feltrinelli, Milano, 1995, p. 140.

6) Cfr. Stanghellini G.: "La persona: opzione etica o vincolo epistemologico?". Rivista Di. Sci. Pro. Co., Genova, III, 3, 253, 1995.

7) Calvi L.: "Prospettive ecc.". Ibidem, p. 107.

8) Barison E: "L. C. Prospettive antropofenomenologiche". Riv. Sper. Fren., 886, 1993.

9) Barison E: "Principi ecc.", p. 152.

10) Barison E: "Principi ecc.", p. 155.

11) Landolfi T.: "Des Mois". Rizzoli, Milano, 1991, p. 21.

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