logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

spazio bianco

Dia-tige ("ombra recisa"). Strutture antropologiche della depressione

e metamorfosi del legame sociale in Africa

 

 

 

Roberto Beneduce (*)

(*) Questo testo Saggio - tratto, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, da: M.GALZIGNA (a cura di), "La sfida dell'altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale", Marsilio, Venezia 1999 - viene pubblicato in "POL.it" anche al fine di suscitare un dibattito e di ricevere on line critiche, consigli e suggerimenti da parte dei lettori. E' possibile comunicare direttamente con l'autore tramite e-mail [ sbbm858p@cisi.unito.it ].

 

"L'angolo retto". Etnologia, psicanalisi e psichiatria.

I discorsi sulla depressione in Africa: epistemologia di una controversia ancora irrisolta.

Black depression.

Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.

Legame sociale, disincanto e depressione.

Bibliografia

 

 

4. Ripensare il territorio, ricominciare dalla morte: l'approccio clinico-antropologico alla depressione in Africa.

 

A Dobolo, ai nostri giorni, si dividono le terre di colui

che le ha prese dal padre fra i figli

del defunto e i figli del successore del defunto.

A Sibi-Sibi, i figli del defunto vanno invece a chiedere

una parte della terra al loro zio materno.

Rondeau (1994)

- Il Nommo-Antenato è stato ucciso dagli uomini nella

sua forma di serpente, e la sua testa seppellita.

- E perché lui?

- Perché egli era il maestro della Parola

Griaule (1948)

Ogni vuoto lasciato da una morte all'interno del villaggio viene

colmato da un successore e provoca lo spostamento di una"casa"

(procedendo verso il centro del villaggio) per tutti i cadetti del defunto.

In teoria ogni Karambé compie nella propria vita un percorso

di andata e ritorno tra il villaggio e la periferia"

Bouju (1984).

È preliminare una sottolineatura: nel dominio dell'etnopsichiatria le generalizzazioni, pur necessarie, devono essere utilizzate con cautela. La parola chiave qui è meno il termine"struttura"quanto piuttosto quello di"contesto". Quando si dimentica questo si incorre inevitabilmente dentro inestricabili aporie. Il rischio è quello di mescolare differenze, dinamiche particolari, fatti sociali e comportamenti individuali all'interno di rappresentazioni semplificate che si rivelano essere in buona parte frutto delle nostre proiezioni. Nel caso dell'Africa, come ripeterò anche dopo, il sottolineare unicamente il ruolo della famiglia estesa, la valorizzazione del gruppo in luogo di quella dell'individuo, la natura informale (primitiva?) delle economie tradizionali o delle forme locali del potere dimenticando altre variabili, altre trasformazioni, ha finito spesso col replicare anche in psichiatria culturale quello che è stato definito"paradigma arcadico"(Lucas e Barrett, 1995), ossia l'immagine di un mondo tradizionale con pochi conflitti, di un gruppo coeso dove l'armonia sociale dominava i desideri individuali contribuendo a prevenire forme di sofferenza e di disagio quali quelle proprie delle società occidentali. Non siamo molto lontani da quella che Augé ha definito in una lunga intervista recentemente pubblicata come"zuppa storica"(Augé e Torrenzano, 1997): uno sguardo sommario alle tante, altre Afriche degli ultimi anni svelerebbe per intero l'artificiosità di taluni modelli psicologici e sociologici costruiti nel passato.

In questo paragrafo vorremmo mettere in rapporto la questione della depressione con due variabili particolari: qualle dello spazio (del territorio, in altri termini) e quella della morte. Entrambe si configurano infatti come determinanti nella costituzione del legame sociale e dell'individuo.

La terra, gli animali, gli elementi dell'ambiente naturale sono tutti in continua transazione con l'individuo, con il suo"sé", se si vuole utilizzare questa espressione: anzi ne rappresentano dimensioni costituitive. O meglio: l'essere umano, il senso delle sue esperienze e delle sue appartenenze, partecipano di queste più ampie dimensioni sopraindividuali. Danneggiare o sottrarre la terra, obbligare le persone ad abbandonare i propri luoghi d'origine attraverso ricollocazioni forzate o restringerne la mobilità (come accade all'interno di tanti campi profughi in Africa), rappresentano dunque attacchi ambientali e, insieme, assalti diretti al sé, concrete minacce psicologiche, i cui effetti in termini di sicurezza, identità, status sociale, reti simboliche, possono essere devastanti. Per meglio comprendere questo è necessario riferire se pur rapidamente qualche esempio che testimoni come la percezione e l'organizzazione del rapporto uomo/territorio fondi psichicamente e socialmente l'individuo.

La dicotomia fra boscaglia, savana da un lato e spazio abitato del villaggio è stata costantemente sottolineata da diversi autori. La pericolosità della brousse (savana, boscaglia) sarebbe connessa alla sua asocialità e alla difficile controllabilità delle forze che la animano e la percorrono. Simbolo del caos, in essa non non possono aver luogo quegli eventi per i quali ci si deve sforzare invece di armonizzare ed equilibrare le forze (nascita, morte, rapporti sessuali: un'unione sulla nuda terra della boscaglia rappresenta una grave trasgressione). La brousse è il mondo del nyama, una forza impersonale che nutre e pervade uomini e cose, oggetti, luoghi, pietre, alberi, anime: la sua ambivalenza costitutiva ed irriducibile va governata dalle forze del gruppo e della società (Huet, 1994). La boscaglia (in dogon donno so olu) è però anche sorgente di forza, di saggezza, il luogo dove viene cacciata la selvaggina, o dove vengono svolti alcuni rituali, e dunque essa partecipa dello scambio di energia con il villaggio.

Bisilliat (1981-1982) da parte sua ha proposto una possibile dicotomia nell'organizzazione concettuale delle malattie fra i Songhay: quelle della brousse sono causate per lo più dai geni, quelle"di villaggio"mettono in scena i modelli fisiopatologici (la nozione di cammino del sangue, il va-e-vieni di una particolare malattia nell'intestino fino alla sua estremità per poi rimontare al ventre e dare la morte. Per i Peul Djegobé del Burkina Faso, la brousse (laddé), opposta al villaggio (waru), è piuttosto sinonimo di quell'aspetto del mondo sul quale l'uomo non ha presa. La savana rappresenta qui anche e soprattutto lo spazio ignoto, sconosciuto e indomato, che si impone all'uomo senza che questi sia mai in grado di dominarla per intero. Ma proprio in virtù di questo suo potere e di questa dimensione dell'ignoto, la"libertà nella società si fonda sulla possibilità per ogni individuo di entrare in rapporto diretto con la savana, cioè con la natura", senza tuttavia soccombervi (Riesmann, 1970). La libertà sarebbe dunque in questo caso caratterizzata come la capacità di essere aperti, di resistere alle pressioni e ai richiami dell'ambiente (naturale o sociale che sia) senza d'altra parte essere ad essi insensibili.

Lo spazio privato della casa e quello esterno del villaggio, il primo dominato dalla donna, il secondo dall'uomo, avrebbero invece nei villaggi del Sudan meridionale rapporti diretti con il mantenimento di una rigida differenziazione di genere e, secondo Janice Boddy (1982), persino con le rappresentazioni del corpo, della purezza e della contaminazione, e con una pratica come l'infibulazione. La casa nei villaggi del'Africa sub-sahariana, la disposizione geometrica delle abitazioni - mai casuale, mai improvvisata, ma sempre sottoposta ad un ordine preciso ed intelligibile fatto di livelli di potere occupati nella fratria e nel clan, struttura familiare (patrilineare, uxorilocale, ecc.), differenze di genere, classi di età, e così via - si trova sottratta a questa ragnatela di significati che, lo ripetiamo sono costitutivi dell'esperienza di sé, del senso di integrazione dell'individuo. Non è un caso che nel canto iniziatico rivolto al dio Katonda, più sopra già menzionato, così si chieda da parte dei nuovi adepti:"O dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline", quasi che l'essere, l'abitare, l'inscrivere il proprio destino in un luogo e in un lignaggio facciano un corpo solo con la costruzione dell'essere sociale e culturale. La logica antropomorfa che organizzerebbe secondo molte interpretazioni non pochi dei tipici villaggi africani aggiungerebbe elementi quanto mai pertinenti per queste riflessioni: l'individuo intesse la sua esistenza dentro una spazio socializzato e gerarchizzato; le abitazioni, i campi, la divisione delle terre, le distanze fra le case e fra queste e i pozzi d'acqua, tutto avviene secondo una logica, un disegno che danno spessore concreto a rapporti di potere, affettivi, generazionali, di alleanza. Non sono giustapposti dunque solo a fini retorici i frequenti riferimenti ai luoghi, i nomi dei villaggi o dei quartieri che, associati ai patronimi, scandiscono la recitazione dei cige, dei"discorsi della notte"nell'altopiano dogon: essi contribuiscono infatti a rimemorare e ritessere la memoria collettiva, e così facendo il discorso della tradizione diventa discorso del far credere (mito) e arte del vivere, insieme tracciando i limiti del gruppo (Gache, 1993). Discorsi impalpabili che, in altri termini, partecipano alla costruzione dell'identità con i loro rinvii metaforici alle strutture della casa e alle strade del quartiere, alla polisemia dei nomi di un villaggio, a tutto quanto evoca la storia della loro fondazione e, insieme, il senso dell'essere infividuale fissato in un preciso territorio: discorsi che la nosografia psichiatrica non riesce nemmeno in parte a catturare fra le sue maglie così larghe e indifferenti.

Ma perché parlare di individuo e territorio in uno scritto che si interroga sul nesso fra sofferenza, depressione, legame sociale e sue metamorfosi? Perché se da un lato l'urbanizzazione, l'abbandono dei villaggi in ragione dei processi migratori, l'indebolirsi dei legami sociali sono ragionevolmente rilevanti nel determinismo dei processi che chiamiamo individualizzazione e autonomizzazione, come nella faticosa libertà che li accompagna, dall'altro è la forma stessa con la quale noi ci poniamo rispetto allo spazio, ai luoghi, che rende possibile stringere con essi un rapporto di un tipo (riconoscervi segni, retaggi, logiche, senso, appartenenze, vincoli) o di un altro (effimero, transitorio, come accade nei non-luoghi di cui parla Augé). Possiamoa questo punto interrogarci sul significato di messaggi pubblicitari come il seguente, utilizzato a Dakar da una società immobiliare e di Capo Verde:"Con degli appartamenti all'europea potrete rifiutare di ospitare i vostri genitori"(lo ricordano Massiah e Tribillon, autori citati da Latouche, 1992). Qui il significato diventa chiaro (e agghiacciante): l'autonomia tanto auspicata non è l'esercizio di una libertà contro l'ingerenza parentale o gli obblighi verso gli anziani, non è l'espressione di una resistenza a pressioni e vincoli intollerabili, è solo il frutto di una fuga in uno spazio chiuso ed anonimo dove non valgono altre leggi che quelle della separatezza e del privato, dove gli altri semplicemente non possono entrare, e dove i legami di parentela non possono mantenersi e nutrirsi. Non sembra tutto questo proprio l'opposto di quanto della nozione di persona, dei suoi scambi e delle sue dinamiche, aveva scritto Sow in uno dei passaggi prima citati? E che cosa comporta questo restringersi del mondo, questo cancellare vincoli, per la coscienza individuale?

Ripetiamo ancora una volta alcuni elementi del nostro procedere. Dopo aver mostrato che 1) c'è una disponibilità lessicale ed espressiva in grado di formulare concetti e narrazioni che abbiano per tema la sofferenza psichica e l'esperienza depressiva, dopo aver ricordato che 2) non è difficile rintracciare anche in una cultura in apparenza caratterizzata da un'aperta armonia ombre fortemente allusive di una vergogna e di un senso di colpa originari (la cui presenza taluni miti rilevano con forza), e dopo aver sottolineato 3) che la dimensione territoriale entra in misura determinante nella costituzione del soggetto e 4) che la sua de-simbolizzazione possa avere - almeno in linea di principio - effetti considerevoli sul mondo psichico e relazionale dei membri di quelle società che in modo accelerato hanno conosciuto questo processo, vogliamo ora evocare il significato protettivo che vincoli familiari e rappresentazioni della morte hanno riguardo al rischio di emergenza della depressione.

"Alla morte del padre non cambia nulla, perché la riattribuzione delle terre e dei beni non avrà corso se non dopo la cerimonia della fine del lutto, che si tiene uno o due inverni dopo i funerali. Se il figlio maggiore del defunto è un uomo ana, egli va a coltivare con i suoi fratelli minori la terra del defunto, accumulando il grano, riempiendo i granai sino alla festa della fine del lutto che ha luogo agli inizi della stagione calda (Nambana). Il grano così accumulato e proveniente dalle terre del defunto, servirà a preparare la birra di miglio o di sorgo destinata ad essere bevuta da tutto il quartiere, dagli alleati e dai visitatori durante la festa. Qualche settimana più tardi, in occasione della festa della semina (Ao Tun), il figlio anziano procede al rito del bundo danya, per mezzo del quale l'anima del padre defunto raggiunge gli antenati del lignaggio (tiliango). Soltanto allora viene attribuita (ka ba galu) al figlio maggiore la parte di patrimonio terriero che gli spetta: dopo di che egli va a ridistribuire (djominê kulo) questa parte, più o meno equamente, tra se stesso e i suoi fratelli più giovani"(Bouju, 1984).

Questa sequenza mostra eloquentemente la logica che sottende la complessa organizzazione dei tempi del dolore e della festa, del commiato e del passaggio dell'eredità, sino all'antenatizzazione del defunto. Una volta di più, la morte viene celebrata in tutti i suoi aspetti come una separazione che non spezza soltanto ma anche riannoda, ad altri livelli, le relazioni familiari e quelle con il mondo degli antenati: continuità e cesura non sembrano qui l'una l'opposto dell'altra ma dimensioni dialettiche ricomposte grazie alla consapevole inscrizione del singolo e sempre tragico evento (la morte di qualc uno) all'interno di un ben più ramificato processo familiare e sociale. Il dolore non viene sdrammatizzato ma incanalato,"arrangiato"su un altro codice. Sapere che si diventerà antenati consente persino a colui che sta per morire, possiamo ipotizzare, di non sentirsi per sempre strappato dal mondo della vita e della comunità ma di pensarsi, all'interno di quest'ultima, come ancora nutrito dal comune ricordo e da quelle lodi che, nella notte, di tanto in tanto, saranno cantate nel corso delle cerimonie. Questo denso lavoro simbolico sta dunque a provare che la morte rappresenta un evento doloroso, una minaccia incombente, che però non viene rimossa o negata quanto piuttosto riassorbita, segmentata e ricomposta all'interno di una rete di significati che ne attenuano il peso individuale e familiare (Beneduce e Collignon, 1995).

Dal momento che rappresentazioni pure non esistono ed esse si incarnano sempre in comportamenti concreti, in scelte e dilemmi materiali, voglio sottolineare da subito come tali rappresentazioni si presentano al nostro sguardo come dispositivi in grado di costruire e gestire legami di natura e livello logico differenti:

- della famiglia e della comunità con il defunto,

- del gruppo intero con l'anima di quest'ultimo,

- di coloro che sono in rapporto di discendenza diretta o indiretta con il futuro antenato (soprattutto in riferimento ad alleanze matrimoniali, eredità, distribuzione della terra, ecc.)

- della comunità con la propria memoria comune,

- del gruppo nel suo insieme con i sospetti, le tensioni e i conflitti che lo attraversano,

- di alcune figure particolari ("uomini impuri", terapeuti ed indovini, ecc.) con il territorio della morte e dell'invisibile.

A quest'ultimo riguardo può essere ricordato come molti miti raccontano il sopraggiungere della morte fra gli esseri umani. Originariamente sconosciuta, essa vi viene descritta infatti come la conseguenza di una colpa (più o meno innocente, più o meno inconsapevole: tuttavia ancora una volta presente), di un'infrazione all'origine di una rottura e della successiva sanzione, ciò che prelude al definitivo allontanamento dal Dio supremo (Wuro) e alla fine del periodo cosmogonico. Ora bisogna aver presente che quella rottura, ovunque raccontata nei miti, non è solo trasgressione di interdetti ma anche e soprattutto breccia, imprevista continuità fra spazi prima rigorosamente separati: quello della savana, dell'incolto (della natura, in altri termini) e quello dello spazio abitato e sottoposto alle leggi umane, del villaggio (la cultura). Così un mito fogola, secondo il quale una donna golosa avrebbe rubato nella savana la carne della Morte, resa qui personaggio, e avendola portata con sé nel villaggio per mangiarla avrebbe introdotto poi la morte fra i suoi abitanti. Sebbene i paralleli con miti più familiari alla nostra tradizione religiosa non mancano, si tratterebbe meno di una punizione quanto piuttosto dell'ingresso nel mondo umano di qualcosa che da allora fa parte della vita di tutti. E' questo il modello che Thomas ha definito giobbiano, per contrapporlo a quello edipico del messaggio mancato o dimenticato, ed analizzato nei miti amerindiani da Lévi-Strauss.

Si potrebbe continuare a lungo. Un esempio eloquente della molteplicità di livelli operanti in questi miti e rappresentazioni si ritrovano fra i Bijago della Guinea Bissau (Henry, 1989, 1995-1996), dove il morto viene sottoposto ad un vero e proprio interrogatorio, non diversamente da quanto accade in Casamance (in Senegal) fra i Diola (Palmeri, 1990). Nel corso di questa operazione al cadavere, sostenuto da alcuni membri della famiglia e del villaggio, si chiede di rispondere sì o no ad una serie di domande sulle circostanze della morte, sui possibili colpevoli, e così via; sarà il movimento della lettiga, i suoi arretramenti o suoi spostamenti in direzione di una persona o di una casa, a dare nome e visibilità ai sospetti. L'esito di una malattia può essere dunque la morte di un individuo, ma una morte non può restare senza significato, e questo significato risulta in qualche caso la definizione di una responsabilità nel lignaggio del defunto o nel villaggio vicino, di un desiderio inconfessato. Fra i Bobo del Burkina Faso (Le Moal, 1986), i rituali funerari della fine del lutto (che hanno luogo, come quasi dappertutto, dopo un lungo intervallo di tempo, da alcuni mesi sino ad un anno, dal momento del seppellimento) sembrano partecipare così intimamente della vita del villaggio da coincidere temporalmente sempre con una delle fasi della luna nascente: tant'è che si definiscono letteralmente"luna delle lamentazioni", ye kwa, o"luna dei funerali", con riferimento alla fase lunare che individua il punto di partenza per il computo annuale del tempo.

spazio bianco

RED CRAB DESIGN

spazio bianco

Priory lodge LTD