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LUIGI ANTONELLO ARMANDO, La ripetizione e la nascita, Liguori Editore, Napoli 2004, pp. 302, Euro 18

LUIGI ANTONELLO ARMANDO, Principi senza padri. Una lettura de "Il principe" di Machiavelli, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2004, pp. 189, Euro 14

[ Il prof. Antonello Armando fu membro “eretico” della SPI (dalla quale venne espulso nel 1976). E’ stato vicino all’esperienza di Massimo Fagioli ed è già stato docente di Psicologia generale e di Psicologia della comunicazione presso l’Università di Lecce. Per far conoscere ai lettori di POL.it questi due libri, pubblichiamo un’intervista all’autore curata dalla dottoressa Irma Tomassi, psicologa ]

 

Irma Tomassi. Lei ha recentemente pubblicato due libri: un’interpretazione de Il principe di Machiavelli e una raccolta di scritti (1961 — 2004) di storia della filosofia e della psicoterapia. Tra i due volumi si intuisce un possibile collegamento, che le chiederei di esplicitare; un collegamento suggerito dagli stessi due titoli, Principi senza padri e La ripetizione e la nascita
[
http://www.antonelloarmando.it/libri/13.php e http://www.antonelloarmando.it/libri/14.php ].

Luigi Antonello Armando [ http://www.antonelloarmando.it/biografia.php ]. Machiavelli è presente in più saggi di La ripetizione e la nascita, a partire da quello del 1962 sulla melanconia degli umanisti medicei, fino alla mia introduzione agli atti di un convegno tenutosi a Napoli nel 1996. In quest’ultima, e più ancora in Ritorno a Firenze del 1994, vi sono tutti i termini per rispondere a questa domanda. Posso tentare di riassumere. Il collegamento è questo: Machiavelli ha posto l’esigenza di una conoscenza del nuovo; ciò facendo ha provocato una crisi nel modo di pensare della tradizione; questa crisi si è espressa in reazioni di opposizione al nuovo che hanno assunto più forme e si sono succedute in una storia nel corso della quale l’impossibilità di sopprimere quell’esigenza è emersa più forte e si sono venuti anche realizzando condizioni e strumenti atti a soddisfarla; i saggi raccolti nel mio secondo libro si soffermano su alcuni momenti di questa storia.

In quanto al titolo, ha ragione: la metafora del principe senza padri con cui Machiavelli rappresenta il soggetto di questa conoscenza condensa in sé tanto il rifiuto della ripetizione quanto la tendenza verso il nuovo rappresentata elettivamente nell’immagine della nascita.

DOMANDA. La ripetizione e la nascita implica quindi un suo particolare modo di vedere la storia: può dirci qualcosa in proposito e su perché in esso Machiavelli è così presente?

RISPOSTA. In estrema sintesi, Platone afferma che lo Stato è il makrantropos, l’uomo visto in grande, nella totalità delle sue espressioni e a grandi dimensioni. Possiamo invece dire che il makrantropos è la storia. Ebbene, nel considerare la storia come amplificazione dell’uomo alla sua totalità, dobbiamo pensare che essa inizi, in senso se non altro mitico, con l’esigenza di una conoscenza capace di intendere quanto posto oltre la capacità dei cinque sensi senza cadere nel visionarismo. E’ un’esigenza emersa già in tempi lontani, ben prima di Machiavelli. Il saggio su De Martino riguarda il suo manifestarsi nel cosiddetto mondo magico e l’ultimo saggio, rievocando l’immagine dell’Aristotele perduto, ne indica la presenza

nella filosofia classica. Avrei voluto parlare anche di Eraclito, ma all’ultimo momento, per ragioni di spazio ho tolto, insieme ad altre, le pagine su di lui.

D. Sì, ma Machiavelli?

R. Appunto, a guardare la storia come immagine amplificata dell’uomo, a cogliervi questo fattore primario dell’esigenza di una conoscenza capace di accedere alla realtà umana non materiale, Machiavelli costituisce un momento di estrema importanza, l’inizio della fase moderna della ricerca di quella conoscenza e di una correlata antropologia. La sua importanza è pari solo a quella di Cartesio, ma Cartesio costituisce, insieme alla religione della Controriforma e agli sviluppi della Riforma, uno dei due poli principali dell’opposizione a Machiavelli e a quella ricerca, quello del determinismo razionalistico, rappresenta ciò che nel libro chiamo "psicoterapia negativa".

D. Perché individua questo movimento di ricerca in Machiavelli e non in altre espressioni del pensiero naturalistico del cinque-seicento come Bruno o Paracelso?

R. Machiavelli è il primo nella storia moderna a proporre il problema della conoscenza nei termini che ho detto. Contemporaneo dei grandi scopritori di continenti, nel momento in cui si aprono nuovi mondi dice che vuole procedere verso "terre incognite", esplorare nuovi orizzonti della conoscenza, un po’ come nella scena finale di Cuore di vetro (film di Herzog, ndr). Questo è il punto: lui formula un’idea di conoscenza che non corrisponde né a quella del razionalismo classico, né a quella religiosa, né a quella dell’umanesimo, né a quella cartesiana: un principe senza padri, ossia una realtà umana che non si definisce attraverso una paternità certa, non è un’idea chiara e distinta. Egli ha formulato quell’idea con una forza che ha avuto un impatto unico nella storia e che ha fatto sì che fosse il pensatore più demonizzato.

Inoltre c’è il discorso della politica che è assente negli altri due autori richiamati. Il discorso sull’uguaglianza e sul proletariato, che si può riconoscere implicito nella metafora dei principi senza padri, è stato fatto da Machiavelli prima e più profondamente di Marx. Marx ha pensato l’uguaglianza degli uomini nei termini di uguaglianza di beni, economica, mentre Machiavelli parla di un’uguaglianza più profonda che si radica nella nascita e nella imprescindibile necessità per gli uomini di riconoscersi reciprocamente come uguali. E’ lui a introdurre l’idea del "vita mea, vita tua".

D. Cosa pensa del Machiavelli visto da Gramsci? Ritiene che Gramsci, scrivendo su di lui, abbia inteso indicare al movimento comunista un cammino più rispettoso dell’interesse per l’uomo?

R. Non so in che misura si possa dire che Gramsci abbia cercato e trovato in Machiavelli, e attraverso di lui proposto, un correttivo all’orientamento marxista e del partito, nel senso di invitarlo ad ampliare l’interesse per l’uomo. No, non lo penso proprio. Se anche c’era una vaga intenzione del genere, resta del tutto irrealizzata. Ben al contrario, a parte l’esiguità e la frammentarietà delle sue note su Machiavelli, e a parte il velo che poté costituire per lui nel leggerlo il filtro dell’opera di Sorel, ritengo che piuttosto si servì dell’idea bolscevica del partito per interpretare Machiavelli, svuotandolo così del suo significato storico e filosofico.

Gramsci coglie il discorso di Machiavelli sull’esigenza che una mentalità nuova venga a orientare la politica, ma lo trasforma in un discorso intellettuale, l’intellettuale collettivo. Il "principe al tutto nuovo" protagonista de Il principe, invece, e Machiavelli stesso, erano tutt’altro che intellettuali. Per capirlo basta leggere la sua corrispondenza con l’intellettuale Vettori o con quell’altro intellettuale che fu Guicciardini. L’intellettuale collettivo è, dal punto di vista di Machiavelli, una contraddizione in termini.

D. Lei propone un Machiavelli sostenitore dell’uguaglianza e del rispetto dell’uomo per l’uomo, ma come spiegarlo a chi è tuttora vittima di quello stravolgimento e volgarizzazione del suo pensiero che ne identificano l’opera con la sciagurata frase del "fine che giustifica i mezzi"? E ancora: c’è nella politica di oggi qualcosa che corrisponde a questo stravolgimento?

R. Comprendere e valorizzare il significato storico di Machiavelli non significa trascurare aspetti problematici del suo pensiero, e dico problematici, non già contraddittori. Rispetto a quella specifica frase, posso dire due cose. La prima, ovvia, è richiamare al contesto; quella frase figura nel contesto di un discorso sul bene comune e va letta insieme all’altra che dice che un principe che faccia ciò che vuole è pazzo. Dice proprio così: è pazzo. Quella prima frase è stata letta e riproposta fuori contesto e per di più nell’ambito di un’interpretazione de Il principe per la quale questo sarebbe una serie di consigli rivolti a ogni tipo di principe sul come conquistare e mantenere il potere, interpretazione che, prima di essere completamente falsa, è stupida, ed è stata quella di Mussolini, Stalin e … Berlusconi.

Poi c’è un altro fatto. Il bene comune, la "qualche bontà" che sta all’inizio della storia, il riconoscersi come uguali, ciò che è fin dall’inizio e deve svilupparsi, viene sviluppandosi nella storia attraverso un processo che comprende una dialettica. L’uguaglianza si realizza attraverso l’affermazione dell’eccellenza. La realizzazione del fine dell’uguaglianza può comprendere un momento dialettico nell’affermazione dell’eccellenza, ma questo movimento esclude la pazzia. Come dire rispetto alla politica di oggi, cosa che può piacere agli psichiatri, che prima bisogna risolvere la pazzia, poi ci si può confrontare con il problema dei mezzi. Quello del fine che giustifica i mezzi è un pensiero potente, forse ancora da esplicitare e chiarire nel suo nesso con un ideale di sanità, ma non certo sufficiente a fare di Machiavelli, come fa ad esempio Leo Strauss, il "teorico del male".

In relazione a ciò, così, a latere, vorrei ricordare a chi ha tracciato una storia della non violenza in occasione di un certo avvenimento romano (il riferimento è all’incontro tra l’Analisi Collettiva e Fausto Bertinotti, tenutosi a Villa Piccolomini il 5 novembre 2004, ndr), che è stato Machiavelli, tra l’altro con quella frase, ad avere posto il problema di che cosa in politica è violenza e di cosa non lo è.

D. Perché i nostri lettori, psichiatri e operatori nel campo della salute mentale, dovrebbero interessarsi a queste cose?

R. Una certa capacità di cogliere in modo corretto quanto sta oltre i cinque sensi e di rapportarsi al nuovo e di accoglierlo è il fattore essenziale della salute mentale. In questo senso credo che una conoscenza di quanto è avvenuto in passato rispetto a tale capacità sia indispensabile a chi opera in questo campo, sia tutt’altro che un corredo di erudizione.

D. Quando lei parla di capacità di conoscere il nuovo, di nascita, sembra evidente che ha presente la teoria di Fagioli cui fa spesso riferimento nel suo secondo libro. Può essere più esplicito sul collegamento tra la sua lettura di Machiavelli e quella teoria?

R. Grosso modo l’idea di fondo è che l’esigenza di conoscenza posta da Machiavelli incontri un momento di soddisfazione in quella teoria, che quest’ultima formuli scientificamente quanto era stato solo accennato da Machiavelli.

D. Ma lei guarda alla storia per trovare un precedente alla "teoria della nascita", nel senso che questa sarebbe stata già formulata in passato- da Machiavelli in questo caso — o guarda alla storia "dal vertice" della scoperta di Fagioli?

R. Premesso che "vertice" non può qui significare "fine", punto di arrivo definitivo, non avrei potuto cogliere quello che chiamo il "segreto" di Machiavelli se non avessi conosciuto la teoria della nascita. D’altro canto, il fatto di comprendere che questa teoria viene come risposta a un’esigenza storica, ovvero a un’esigenza rappresentata nella storia da Machiavelli con inedita forza e come rottura della tradizione, non è un esercizio ozioso, in quanto aggiunge credibilità a quella teoria, la mette al riparo dall’accusa di visionarismo solitario e fornisce il senso della sua portata e delle sue implicazioni.

D. Quindi il suo lavoro su Machiavelli non è altro che un esempio di applicazione di una teoria, quello che un tempo si sarebbe chiamata "psicoanalisi applicata"?

R. Deve considerare un fatto che ha un significato non solo personale. Prima ho detto che non avrei potuto intendere Machiavelli se non avessi incontrato la teoria della nascita; è così, ma non è meno vero il contrario. Voglio dire, precisando, che se non avessi incontrato Machiavelli forse non avrei potuto riconoscere nel 1970 la teoria della nascita per quello che era. Forse il segreto di quella che F. Corrao definì la mia "difesa a oltranza" di Fagioli sta qui: a differenza dei colleghi di allora, che per lo più erano medici, io avevo letto Machiavelli e lo avevo letto soprattutto dopo essermi distanziato dall’ontologia esistenzialista del nulla di cui tratta il primo saggio della raccolta, come se avessi intuito che la strada da percorrere, una volta smesso l’incantamento di quella ontologia, doveva ripartire da lui. Questo è molto interessante, perché c’è oggi chi sostiene l’opposto e sono i neocons americani, a partire da Leo Strauss: lui disse esplicitamente che Machiavelli porta al nichilismo esistenzialista. Ma questo è un discorso complesso. Più limitatamente, restando al mio secondo libro, rispondendo così ho voluto anche spiegare perché esso si apre con due saggi, rispettivamente del 1961 e del 1962, dedicati l’uno all’esistenzialismo e l’altro, in modo che diventa esplicito alla fine, a Machiavelli.

D. A proposito di distanziamento dall’esistenzialismo e dello scritto che ha appena citato. In quello scritto ci sono frasi come "il nulla non ha realtà propria (…) è un non vedere piuttosto che vedere il nulla". Sta forse suggerendo che lei, fin dal 1961, aveva scoperto la "fantasia di sparizione"?

R. Lasci ad altri questi pensieri. Quelle frasi, a rileggerle oggi, sorprendono anche me, ma non v’è in esse alcuna nozione di pulsione e poi sono solo frasi. Io sto solo dicendo di un’idea che ho avuta così come l’ho avuta, al fine di spiegare perché ho potuto già nel 1970 riconoscere la novità di quanto allora proposto da Fagioli, che altri a quel tempo percepivano come "urlo" e "magma incoato".

D. A questo punto però si impone una domanda. Attualmente, sembra che lei abbia abbandonato la posizione di difensore a oltranza di Fagioli. Alcuni articoli di La ripetizione e la nascita, in particolare Storia, religione, scoperta — il capitolo quindici —

[ http://www.antonelloarmando.it/articoli/2.php ] e Considerazioni di un esegeta pigro [ http://www.antonelloarmando.it/articoli/4.php ], esprimono critiche e segnano una presa di distanza rispetto all’esperienza portata avanti con Massimo Fagioli. Cosa ha provocato questo cambiamento? Come lo spiega?

R Il mio rapporto con Fagioli dura dal 1967, e quella che è stata definita difesa ad oltranza c’è effettivamente stata e la rifarei. Essa era fondata su un dato fondamentale che era la comprensione. Ho sempre accettato quello che lui proponeva per averlo compreso. A un certo punto, che daterei dal 1989, e con un crescendo che ha raggiunto l’apice dieci anni dopo, sono cominciate ad apparire cose che non riuscivo più a comprendere; forse mi sono trovato di fronte a un mio invalicabile difetto di comprensione, ma io questo non posso né dirlo né assumerlo come una verità che mi trascende. Mi devo fondare sul fatto che ho dovuto cominciare a confrontarmi con cose che non capivo, e qui il discorso sarebbe lungo e in parte è stato fatto proprio in quei due articoli.

D. Quali cose?

R. Alcune riguardano problemi teorici, o meglio di interpretazione della teoria, altre aspetti marginali della prassi.

Quanto alle prime c’è anzitutto, fin dal 1989, il problema della percezione delirante, o più esattamente della mia lettura dello scritto di Fagioli del 1962 su di essa. Tale lettura mi è stata contestata, ma non è questo il problema: il problema è che lo è stata in modo contraddittorio e parziale, perfino scorretto, in modo, appunto, che non capisco. Ma altro su questo non vorrei dire, comporterebbe un discorso troppo lungo e complesso; sono comunque certo che, se e quando la teoria di Fagioli verrà seriamente studiata da un pubblico più vasto di quello afferente ai seminari, si dovrà riparlare sia di quel suo scritto che della lettura che io ne ho data nel 1989 e nel 1999.

Poi c’è il problema dello storicismo. Quando negli anni settanta e ottanta sono stato da più parti additato come il "povero scemo" che si era fatto plagiare dal visionarismo di Fagioli, ho combattuto contro ciò con il metodo di dimostrare che non si trattava di visionarismo, ma di una proposizione teorica strutturata che giungeva a soddisfare un’esigenza radicata nella storia. Proprio quest’idea è svolta anche nell’altro mio libro del 1989, Storia della psicoanalisi in Italia. Questo è il mio storicismo. Bene, debbo dire che mi sono sentito togliere il terreno sotto i piedi dalla critica allo storicismo che appare nel 1999 da parte dello stesso Fagioli e che era già sottesa e implicita nella discussione del 1989 sulla percezione delirante. Posso anche ammettere che questa critica apre tutto un altro modo da quello che è stato il mio di rapportarsi alla teoria della nascita, ma è un modo che non mi appartiene, e che in qualche misura provoca in me una reazione di rigetto.

D. Non crede in tal modo di riproporre la concezione di "scoperta" come mera conseguenza dell’accumulazione di contributi scientifici che è già stata demolita da Khun nel 1962?

R. C’è questo rischio, ed è corrispettivo all’altro di pensare le scoperte come fatto esterno alla storia, come fatto religioso. Bisogna evitare ambedue le derive. Per ora sembra che il solo modo di farlo sia la dialettica, cioè il contenere l’un rischio correndo l’altro.

D. E i fatti marginali?

R. Sono legati alla prassi, ma nel dire questo tengo a fare una precisazione essenziale. Non mi riferisco ai seminari di Analisi Collettiva, il cui inizio in uno degli articoli de La ripetizione ho datato a partire dall’esperienza del 1974 a Siena, e che da allora si sono evoluti, passando tra l’altro nell’’80 dalla sede universitaria di via di Villa Massimo, messa a disposizione da Nicola Lalli, alla sede privata di via di Roma Libera, dove continuano a tutt’oggi. Essi costituiscono un’esperienza terapeutica storica e culturale unica, irripetibile ed enorme. Grazie a essi tante vite hanno potuto e possono riscattarsi. Io stesso vi ho partecipato a lungo e non ho remore a riconoscere quanto mi hanno dato in termini di formazione intellettuale e affettiva.

Ciò premesso, esistono e non possono essere trascurati altri aspetti dell’insieme denominato Analisi Collettiva. Non voglio entrare in dettagli perché non è mia intenzione fare denunce, ma segnalare problemi ineludibili che richiedono un’attenta elaborazione.

Faccio quindi un solo esempio, traendolo, come è buon metodo, dal mio caso: è accaduto che i due miei articoli che ha citato siano stati proposti alla rivista (Il sogno della farfalla ndr) dopo che io mi ero dimesso dalla sua direzione e siano stati rifiutati sulla base di una qualche diagnosi, come anche la mia insistenza sui problemi connessi all’interpretazione dell’articolo di Fagioli del 1962 sulla percezione delirante tende a essere liquidata come espressione di una mia fissazione. Ecco, qui ci sono due cose che non capisco. La prima è lo sconfinamento del giudizio diagnostico dai campi in cui è pertinente che, quando agito da tizio e da caio e non solo nell’esempio fatto, segnala e comprende il configurarsi di una sorta di psicocrazia. La seconda, visto che lei ha citato Khun, può essere detta con la sua terminologia: l’accantonamento, sulla base di una diagnosi o di altro, di quanto risulta anomalo rispetto a un paradigma rivoluzionario o alla prassi a esso connessa per concentrarsi esclusivamente su problemi la cui soluzione è già in esso scontata, e che lui chiama rompicapi, è indice di un cambiamento di rotta e di riflusso verso la scienza normale. Incontriamo qui il paradosso per cui nella storia di una teoria che fonda la scienza del nuovo compare il fatto che ogni segnalazione di quanto le abbia sapore di anomalia venga avvertita come pericolo e prestamente compresa come malattia, senza soppesare il rischio che ciò vanifichi la differenza posta tra "malattia" e "male".

Ma qui ancora una volta il discorso diventerebbe troppo lungo. In sintesi le dico, a proposito delle cose marginali che non condivido, che episodi come quelli che ho citato mi ricordano troppo acutamente quanto avveniva nella Società di Psicoanalisi negli anni ’60 e fu contestato in Il potere della psicoanalisi, mi sanno troppo di ripetizione.

D. Pensa che queste sue critiche possano inficiare la validità della teoria e della proposta di Fagioli?

R. No, in nessun modo. O meglio, può essere, forse, ma non è una cosa che io abbia pensato o oggi pensi. La teoria è una realtà con cui sono entrato in contatto dal 1970, sostanzialmente consegnata, fatti salvi importanti approfondimenti successivi, in testi pubblicati tra il ’72 e l’80, e per me rimane una fonte di chiarimenti essenziali e imprescindibili nella vita personale, nella lettura della cultura e della storia, nella pratica della psicoterapia.

Dirò di più, un pensiero che forse lei giudicherà eccessivo, ma tant’è, non voglio nascondermi. E’ un pensiero che ho espresso già nella seconda edizione della Storia della psicoanalisi, ma che mi si è confermato e precisato in questi giorni di fronte ai fenomeni che hanno accompagnato la morte dell’ultimo pontefice. Si è visto qualcosa di più del ritorno vincente della religione dopo il crollo delle ideologie dell’otto-novecento, qualcosa che va ben oltre il 1989. Si è visto da un lato lo scempio, operato sui mass media senza pressoché alcuna opposizione da parte di intellettuali e politici laici, di cinquecento anni di riflessione filosofica sul problema della conoscenza e dell’esistenza con lo stupefacente riconferimento di credito a discorsi di dogmi e miracoli; dall’altra, cosa ancor più rilevante, si è vista la Chiesa riproporre con forza al centro delle esistenze quella meditatio mortis di seicentesca memoria che costituisce il cardine del suo potere e, per come ci hanno insegnato Sombart e Grethuytsen, della sua oggettiva alleanza con il capitalismo. Ebbene io ritengo che rispetto a ciò, rispetto a questo dilagare del disturbo del pensiero e a questo riaffermarsi di valori che crescono sul putrido terreno della meditatio mortis, la teoria della nascita costituisca uno strumento unico di resistenza. Più specificamente, se mi guardo attorno, e da un punto di vista anzitutto filosofico, vedo ben poco in grado di opporsi al ritorno dell’ideale eroico dell’essere per la morte, offerto anzitutto ai giovani, più di quanto abbia fatto la teoria della nascita sciogliendo la confusione tra il discorso sulla morte biologica e il discorso sulla capacità umana di fare il nulla, tra paura della morte e paura della pazzia.

Come vede, più nettamente di così non potrei risponderle. Quello che sono portato a pensare è piuttosto che il tempo passa, le situazioni mutano, e che sono intervenute problematiche che non erano presenti fino circa agli anni novanta, a motivo delle quali, voglio capovolgere così il senso della domanda, sono emerse posizioni e atteggiamenti non conciliabili con la teoria.

D. Può fare un accenno alle problematiche che sarebbero intervenute?

R. Nei due saggi citati mi soffermo a lungo su questo. Qui è difficile riassumere e tanto più aggiungere. Molto in generale posso accennare a due cose: una sono le inattese difficoltà e forse delusioni introdotte da una mutata situazione storica; l’altra è che lo stesso sviluppo dell’Analisi Collettiva ha introdotto problemi che ovviamente prima non c’erano. Uno certamente: l’inevitabile anche se taciuta istituzionalizzazione, problema cruciale, sia per gestire lo sviluppo attuale dell’articolazione tra cura formazione e ricerca, sia nella connessa prospettiva della trasmissione e conservazione. A me sembra che rispetto a ciò non vi sia stata una risposta adeguata. Forse si sono sottovalutate le conseguenze, anche in termini di immagine, di certe scelte.

Quindi, per completare la risposta alla sua domanda, sì, certo, una separazione, una distanza, un non riuscire a dire che capisco quello che non capisco; ma proprio così, proponendo alla riflessione le cose che non condivido e che corrispondono a problemi che tendono a essere trascurati, penso di essere ancora presente a un’avventura iniziata più di trent’anni fa.

D. E Freud? Lei hai fatto tutto il training della Società di psicoanalisi e poi ne è stato espulso nel 1976 insieme a Fagioli. Nel suo libro ci sono due scritti dedicati a Freud e molti riferimenti. Qual è la sua posizione al riguardo oggi? Condivide ancora le critiche di Fagioli come quando foste espulsi? Inoltre, che c’entra Freud con Machiavelli? A dire il vero sembrano cose assai lontane…

R. Non lo sono, nel senso che prima ho detto dell’opposizione tra Machiavelli e Cartesio; Freud costituisce il punto estremo dell’opposizione razionalista al tipo di conoscenza la cui esigenza è stata posta come sfida sostanziale al pensiero moderno da Machiavelli. In tre saggi de La ripetizione e la nascita ho sviluppato il discorso su questo significato storico del freudismo confutando le critiche che mi sono state rivolte al riguardo, per cui non sto qui a ripetermi. Questo però mi porta a dire anche che condivido in pieno la critica, o meglio il rifiuto netto, che Fagioli fa del pensiero freudiano e ciò ancor oggi e con più consapevolezza che negli anni settanta. Voglio aggiungere senza mezzi termini che quel rifiuto ha aperto gli occhi di molti, ha sottratto molti, me compreso, a uno stato di confusione indotto dal freudismo. Tuttavia non riesco a condividere quando viene detto che Freud non è mai esistito. Non capisco come può non essere esistito qualcuno da cui si sono attinti per gran parte, pur usandoli ben diversamente, i termini del proprio vocabolario, e che si continua a criticare. Il punto però è che qui c’è implicito il problema dello storicismo di cui ho detto prima; e quello che sostanzialmente non comprendo è il nessun conto in cui si tiene il pericolo che la liquidazione dello storicismo, fatta per esaltare la novità e la forza terapeutica della teoria della nascita, infici tale novità rendendola suscettibile di un’interpretazione religiosa.

D. Lei insiste nel presentare il freudismo come sviluppo del razionalismo cartesiano. Però, a parte il fatto che Freud è stato sempre presentato come colui che ha riportato l’attenzione sull’irrazionale, le è stato contestato, in un convegno promosso da Fagioli (Napoli, 1999), che Freud non è razionalista, ma religioso.

R. Il razionalismo cartesiano si è sempre portato dietro come un corpo morto la dipendenza dalla religione, contratta per ovvi motivi storici. Cartesio confessa nel Discorso sul metodo che il suo interesse per quanto è chiaro e distinto è subordinato alla necessità di non pestare i piedi alla religione, il che a quel tempo significava finire arrostiti. Nel Discorso sul metodo viene anche detto non già che la ragione risolve la religione, ma che lascia a essa la gestione delle idee che non sono chiare e distinte e il dominio su di esse, pensiero questo poi radicalizzato da Kant con la cosiddetta "teoria del doppio governo" messa a punto in rapporto a Leibniz. Se si tiene presente questa realtà globale del razionalismo, come, ripeto, il movimento che ha attuato un percorso attraverso le idee chiare e distinte, fecondo di fondamentali acquisizioni scientifiche, ma anche il movimento che ha potuto farlo sostenendo che del resto deve occuparsi la religione, non v’è alcuna contraddizione nel dire che Freud era razionalista e che era religioso. La critica che lei ricorda è fondata su un trucco: si sa bene che il razionalismo nasconde in sé un nucleo religioso, ma per comodità polemica si fa finta di non saperlo.

D. Pensa che accentuando la componente razionalistica del pensiero di Freud ne vengano sottovalutati gli aspetti religiosi, come ad esempio la demonologia, la credenza nel peccato originale, le idee innate, eccetera?

R. Assolutamente no. Ho del resto già risposto a questa domanda: dicendo che il razionalismo include in sé una dipendenza dalla religione, dico ovviamente che include questi aspetti.

Però, pur comprendendo la sua insistenza su Fagioli, vorrei ricordale e sottolineare che La ripetizione e la nascita non è un libro su di lui. Vuole essere il documento di un percorso di ricerca nel cui ambito la sua teoria è un riferimento importante, ma non è tutto, è importante perché non è tutto.

D. Oltre agli scritti ai quali abbiamo accennato ce ne sono altri su Marx, su Kant, su Le Bon, su Boring, sulla psicologia sperimentale. Non posso chiederle di tutti. Mi incuriosisce però quello su Dewey [http://www.antonelloarmando.it/articoli/1.php] : non è un autore di cui si parla molto. Perché si è interessato a lui?

R. Mi ci sono speso anche molto: il saggio che lei dice è una sintesi molto parziale del lavoro che gli ho dedicato nel 1984. Inizialmente ero stato incuriosito dalle parole che lui usa, come sperimentalismo, strumentalismo, democrazia, esperienza, che mi sembravano avere un senso assai diverso da quello apparente. In La ripetizione e la nascita c’è anche un saggio su Kant, a proposito del quale parlo di "psicoterapia negativa", con ciò intendendo uno sviluppo del determinismo cartesiano che persegue come proprio ideale e fine supremo l’eradicazione della nascita e di ogni interesse per la realtà non materiale. Il percorso di formazione del sistema deweyano è stato scientemente occultato: Dewey viene da Kant; egli esprime questo ideale di eradicazione nella formula della conoscenza come "riduzione dell’ignoto al noto", come pura ripetizione: l’opposto della passione di Machiavelli per le "terre incognite" e per la "vaghezza" che lo attirava nelle donne.

Più in particolare, Dewey ha una notevole importanza nella storia della psicologia sperimentale e della stessa psichiatria. Egli vedeva nella psicologia fisiologica il metodo e la dimostrazione empirica dell’idealismo. Il suo scritto sull’arco riflesso dice che il vero fondatore del comportamentismo fu lui e non Watson, e che è difficile comprendere a fondo il significato storico, ideologico e politico della psichiatria dei vari DSM prescindendo da lui.

Infine, legato a tutto ciò, c’è il fatto politico. Intorno a Dewey la sinistra italiana, soprattutto quella socialista, ha consumato negli anni del dopoguerra uno dei più grossi equivoci della sua storia intellettuale. Lo ha assunto, proposto, seguito come alternativa al fascismo e a Gentile senza tenere conto che ne era, e non poteva non esserne, un ammiratore dichiarato, e senza accorgersi che era un idealista sulla cui formazione aveva gravato l’ossessiva presenza del cristianesimo evangelico della madre; peggio ancora, usava parole nuove e belle per dire cose vecchie e brutte. Lui dice che la democrazia è l’incarnazione dell’universale nell’individuale, che l’universale è il verbo cristiano rivelato e che l’incarnazione di questo universale deve investire ogni individuo. Non le ricorda niente questo? Non lo ritrova, in altri termini, tanto per chiudere il cerchio, nell’ideologia dei neocons di ascendenza straussiana e in certe esternazioni dell’attuale dirigenza americana?

Dunque non solo c’entra con la storia della psicoterapia, sia pure negativa, ma da un punto di vista più generale il suo studio è attualissimo. Gli strali della critica e l’accetta del rifiuto si sono rivolti a Marx, a Heiddeger, a Freud, a Foucault, e va bene; ma la storia di questi giorni invita a riconsiderare la poca attenzione prestata a Dewey .

D. E adesso dopo questi due libri che ha intenzione di fare?

R. Il percorso che ho seguito, le scelte che ho compiuto, sono fecondi di tanti motivi di riflessione e di ricerca. Di idee ne ho tante. Ora sto preparando uno scritto sulla corrispondenza di Machiavelli e sul suo rapporto con le donne, ovvero sulla sua ricerca di una certa "vaghezza" nel rapporto con le donne, che c’entra molto con Il principe e in generale con il suo modo di intendere e praticare la conoscenza.

D. Questo mi sembra un po’ troppo. Come donna, le devo ricordare che Machiavelli diceva che le donne bisogna… batterle e urtarle!

R. Sì, certo, ma non voleva dire che bisogna picchiarle. La grande forza dei due verbi che lei correttamente riporta sta tutta nel dire della necessità di uno scontro durissimo e vitale per la conoscenza, da condursi sulla frontiera del nuovo.

D. Può dirmi qualcosa di più su questo, anche in riferimento al lavoro che sta progettando?

R. Posso cercare di farlo servendomi di un veloce raffronto tra Machiavelli e Dante. I due autori che più di ogni altro hanno saputo usare la lingua italiana in modo che parlasse a tutto il mondo, in modo universale, sono stati loro. E’ noto che Machiavelli ammirava Dante; anzi, Dante era l’unico autore della tradizione di cui accettava l’autorità, ma anche la contrastava. Il suo mondo senza padri comprendeva il rifiuto esplicito dell’adozione della lingua di Dante come modello. Il punto in comune più significativo tra i due è la stretta connessione tra immagine della donna e immagine della città, tra innamoramento e passione politica; ma è anche il punto in cui meglio si può cogliere la distanza. Per farlo basta raffrontare l’algido splendore di Beatrice con la vaghezza della Barbera, l’esistere di Beatrice solo nell’assenza fatta dalla morte e l’esistere, fugace e tutto terreno, della Barbera, il rivolgersi della prima a uno solo e a nessuno, e il desiderio della Barbera di piacere a tutti, cosa stigmatizzata da quel bacchettone di Guicciardini, teorico della ripetizione.

D. E l’Angelica dell’Orlando furioso?

R. Non è Angelica la donna della nuova storia. Angelica è la donna di un rapporto perduto con la storia, di un consumato smarrimento della frontiera del nuovo. Le donne della nuova storia sono le sconosciute donne di Machiavelli: la Riccia, la Barbera, la Marescotta o quell’innominata verso la quale subito dopo la stesura de Il principe si dirigeva la sera attraverso il buio e il bosco.

D. Qui possiamo anche fermarci, non pensa?

R. Certo, ma non prima di aver ringraziato lei e la direzione di POL.it per avermi aperto questa finestra.

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