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Michel Foucault

Theatrum Philosophicum

 

[Riportiamo la traduzione di questo folgorante testo di Michel Foucault: traduzione comparsa come introduzione alla prima edizione italiana di Differenza e ripetizione, di Gilles Deleuze (Il Mulino, Bologna 1971). Crediamo di fare cosa utile: l’edizione del Mulino è infatti esaurita e la nuova edizione italiana del testo di Deleuze (Cortina, Milano 2004) non include la suddetta introduzione. Essa fu ripubblicata nel n. 277-278 della rivista "aut-aut" (gennaio-aprile 1997) e non è perciò facilmente accessibile al lettore. L’articolo Theatrum Philosophicum uscì nella rivista "Critique" (n. 282, novembre 1970, pp. 885-908) ed è stata riportata in: M. Foucault, Dits et écrits (Gallimard, Paris 1994, vol. II, pp. 75-99). La traduzione italiana del 1971, che qui riportiamo, è incompleta. Ci ripromettiamo, entro breve tempo, di presentare ai lettori di POL.it una traduzione integrale dell’articolo]

Non c'è filosofia, si può dire, che non abbia tentato di rovesciare il platonismo. E se, al limite, si definisse filosofia ogni e qualsiasi tentativo di rovesciarlo? Allora la filosofia comincerebbe da Aristotele, anzi da Platone, da quel finale del Sofista dove non è più possibile distinguere Socrate dall'astuto imitatore, dai sofisti stessi che facevano gran rumore attorno al platonismo nascente, e a forza di giochi di parole irridevano alla sua grandezza futura.

Viene da chiedersi se tutte le filosofie non appartengano al genere delle "antiplatonacee", non comincino se non articolando il gran rifiuto e tutte non si dispongano attorno a questo centro di odio e di desiderio. Diciamo piuttosto che la filosofia di un discorso è il suo differenziale platonico. Allora, un elemento assente in Platone ma presente nel discorso filosofico? No, non ci siamo ancora: un elemento il cui effetto di assenza è indotto nella serie platonica dall'esistenza di questa nuova serie divergente (ed esso svolge allora, nel discorso platonico, la funzione di un significante a un tempo in eccesso e in difetto); un elemento anche di cui la serie platonica produce la circolazione libera, fluttuante, in eccedenza in quest'altro discorso. Platone, padre eccessivo e difettivo. Non si cercherà dunque di specificare una filosofia attraverso il carattere del suo antiplatonismo (come una pianta attraverso i suoi organi di riproduzione), ma si renderà una filosofia distinta un po' come si distingue un fantasma tramite l'effetto di mancanza quale si distribuisce nelle due serie che lo formano, "l'arcaico" e "l'attuale", e si sognerà di una storia generale della filosofia che sarebbe una fantasmatica platonica, non certo un'architettura dei sistemi.

Comunque sia, ecco Deleuze. Il suo "platonismo rovesciato" consiste nello spostarsi nella serie platonica e nel farvi comparire un punto notevole: la divisione. Platone non divide imperfettamente – come dicono gli aristotelici – il genere "cacciatore", "cuoco" o "politico"; egli non vuole sapere ciò che caratterizza in proprio la specie "pescatore" o "cacciatore col laccio"; vuole sapere chi è il vero cacciatore. Chi è? non che cos'è} Occorre cercare l'autentico, l'oro puro. Anziché suddividere, selezionare e seguire il filone buono, occorre cercare fra i pretendenti senza distribuirli secondo le loro proprietà catastali; sottoporli alla prova dell'arco che li eliminerà tutti, salvo uno (e precisamente, il senza nome, il nomade). Ora, come distinguere fra tutti questi falsi (simulatori, sedicenti) e il vero (il non mescolato, il puro)? Non scoprendo una legge del vero e del falso (qui la verità non si oppone all'errore, ma alla falsa apparenza), ma guardando al di sopra di tutti questi il modello: talmente puro che la purezza del puro gli somiglia, l'avvicina e può misurarsi con esso; e esistendo a tal punto che la vanità simulatrice del falso si troverà, di colpo, decaduta come nonessere. All'apparire di Ulisse, eterno marito, i pretendenti si dileguano. Exeunt i simulacri.

Platone avrebbe opposto, si dice, essenza e apparenza, mondo e sovramondo, sole della verità e ombre della caverna (e sta a noi di ricondurre le essenze sulla terra, di glorificare il nostro mondo e di porre nell'uomo il sole della verità...). Ma Deleuze, per parte sua, individua la singolarità di Platone in questa minuta cernita, in questa sottile operazione, anteriore alla scoperta dell'essenza poiché per l'appunto essa lo chiama, e comincia a separare, dalla moltitudine dell'apparenza, i cattivi simulacri. Per rovesciare il platonismo, è inutile dunque restituire i diritti dell'apparenza, conferirle solidità e senso, avvicinarla alle forme essenziali dandole il concetto come scheletro (non la si incoraggi a raddrizzarsi). Non si cerchi neppure di ritrovare il gran gesto solenne che ha stabilito una volta per tutte l'Idea inaccessibile. Apriamo piuttosto a tutte quelle astuzie che simulano e spettegolano alla porta. E ciò che entrerà allora, sommergendo l'apparenza, rompendo la sua promessa con l'essenza, è l'avvenimento; cacciando la pesantezza della materia, l'incorporeo; rompendo il cerchio che imita l'eternità, l'insistenza intemporale; purificandosi di tutte le commistioni con la purezza, la singolarità impenetrabile; soccorrendo la falsità della falsa sembianza, la somiglianza stessa del simulacro. Il sofista salta di gioia quando sfida Socrate a dimostrare che egli è un pretendente usurpatore.

Rovesciare, con Deleuze, il platonismo, significa spostarsi insidiosamente in esso, discendere d'un gradino, giungere sino a quel piccolo gesto – discreto, ma morale – che esclude il simulacro; significa anche abbassarsi leggermente rispetto ad esso, aprire la porta, spalancandola, alla chiacchiera di lato; significa instaurare un'altra serie staccata e divergente; costituire, con questo piccolo salto laterale, un para-platonismo scoronato. Convertire il platonismo (opera di seria filosofia), significa indurlo a maggior pietà per il reale, per il mondo e per il tempo. Sovvertire il platonismo, significa prenderlo dall'alto (distanza verticale dell'ironia) e ricuperarlo nella sua propria origine. Pervertire il platonismo, significa sfilarlo sin nei minimi particolari, discendere (secondo la gravitazione propria dell'humour) sino al capello, al sudiciume sotto l'unghia che non meritano per niente l'onore di un'idea; scoprire in tal modo il discentramento che ha operato per ricentrarsi attorno al Modello, all'Identico e allo Stesso; significa de-centrarsi rispetto ad esso per mettere in moto (come in ogni perversione) delle superfici laterali. L'ironia si eleva e sovverte; l'humour si lascia cadere e perverte.

Piuttosto che denunciare il grande oblio che avrebbe inaugurato l'occidente, Deleuze, con una pazienza da genealogista nietzschiano, mette a nudo tutta una moltitudine di piccole impurità, di meschine compromissioni. Bracca le minuscole, le ripetitive viltà, tutti quei tratti di stupidità, di vanità, di compiacenza che non cessano di nutrire, giorno dopo giorno, il fungo filosofico. "Ridicole radicelle", come direbbe Leiris. Siamo tutti gente di buon senso; ognuno può ingannarsi, ma nessuno è sciocco (nessuno di noi, s'intende); senza buona volontà, niente pensiero; ogni vero problema deve avere una soluzione, poiché siamo alla scuola di un maestro che non interroga se non a partire dalle risposte bell'e scritte del suo quaderno; il mondo, è la nostra classe. Infime credenze... E allora? La tirannia di una volontà buona, l'obbligo di pensare "in comune" con gli altri, il dominio del modello pedagogico, e soprattutto l'esclusione della bestialità, ecco tutta una spregevole morale del pensiero, di cui sarebbe facile senza dubbio decifrare il gioco nella nostra società. Occorre liberarsene. Ma se si sovverte questa morale, tutta la filosofia finisce con lo spostarsi.

Prendiamo la differenza. Solitamente, la si analizza come la differenza di qualcosa o in qualcosa; dietro, al di là di essa, ma per sostenerla, darle un luogo, delimitarla, e dunque assoggettarla, si pone, con il concetto, l'unità di un genere che essa è tenuta a frazionare in specie (dominazione organica del concetto aristotelico); la differenza diviene allora ciò che deve essere specificato all'interno del concetto, senza uscire da esso. E tuttavia, al di sopra delle specie, c'è tutto il brulichio degli individui: questa smisurata diversità che sfugge ad ogni specificazione, e cade al di fuori del concetto, altro non è se non la ripresa della ripetizione. Al di sotto delle specie ovine, non resta che contare i montoni. Ecco dunque la prima figura dell'assoggettamento: la differenza come specificazione (nel concetto), la ripetizione come indifferenza degli individui (fuori del concetto). Ma assoggettamento a che cosa? Al senso comune, che, distogliendosi dal divenire folle e dall'anarchica differenza, sa, ovunque e nello stesso modo, riconoscere ciò che è identico; il senso comune ritaglia la generalità nell'oggetto, nel momento stesso in cui, per un patto di buona volontà, istituisce l'universalità del soggetto conoscente. Ma se, per l'appunto, si lasciasse muovere la volontà cattiva? Se il pensiero si liberasse dal senso comune e non volesse più pensare se non alla punta estrema della propria singolarità? Se, anziché ammettere benevolmente la propria cittadinanza nella doxa, praticasse malvagiamente la scappatoia del paradosso? Se, anziché ricercare il comune sotto la differenza, pensasse differenzialmente la differenza? Il pensiero allora non sarebbe più un carattere relativamente più generale che manipola la generalità del concetto, ma sarebbe – pensiero differente e pensiero della differenza – un puro avvenimento; quanto alla ripetizione, essa non sarebbe più il triste avvicendarsi dell'identico, ma differenza spostata. Sfuggito alla buona volontà e all'amministrazione di un senso comune che divide e caratterizza, il pensiero non costruisce più il concetto, produce un senza-avvenimento ripetendo un fantasma. La volontà moralmente buona di pensare nel senso comune aveva in fondo la funzione di proteggere il pensiero dalla sua singolare "genitalità".

Ma torniamo al funzionamento del concetto. Perché esso possa sottomettere la differenza, occorre che la percezione, entro ciò che si dice il diverso, colga delle somiglianze globali (che saranno scomposte poi in differenze e identità parziali); che ogni rappresentazione nuova si accompagni a rappresentazioni che esibiscano tutte le somiglianze; allora in questo spazio della rappresentazione (sensazione-immagine-ricordo), si porrà il somigliante alla prova del livellamento quantitativo e all'esame delle quantità graduate; si costituirà il grande quadro delle differenze misurabili. E nell'angolo del quadro, là dove, in ascisse, il minimo scarto delle quantità raggiunge la minima variazione qualitativa, al punto zero, si ha la somiglianza perfetta, la ripetizione esatta. La ripetizione che, nel concetto, non era se non la vibrazione impertinente dell'identico, diviene nella rappresentazione il principio di programmazione del simile. Ma chi riconosce il simile, l'esattamente simile, quindi il meno simile – il più grande e il più piccolo, il più chiaro, il più scuro?
Il buon senso. Il buon senso che riconosce, che istituisce le equivalenze, che valuta gli scarti, che misura le distanze, che assimila e ripartisce, è la cosa che meglio al mondo divide. Esso regna sulla filosofia della rappresentazione. Pervertiamo il buon senso, e facciamo scorrere il pensiero fuori dal quadro ordinato delle somiglianze; esso appare allora come una verticalità di varie intensità; infatti l'intensità, molto prima d'essere graduata dalla rappresentazione, è in se stessa una pura differenza: differenza che si sposta e si ripete, differenza che si contrae o si espande, punto singolare che rinserra e disserra, nel suo avvenimento acuto, indefinite ripetizioni. Il pensiero va pensato come irregolarità intensiva. Dissoluzione dell'io.

Lasciamo valere ancora per un istante il quadro della rappresentazione. All'origine delle assi, la somiglianza perfetta; quindi scagliandosi, le differenze, come tante somiglianze minime, tante identità marcate; la differenza si i-stituisce allorché la rappresentazione non presenta più ciò che era stato presente, e la prova del riconoscimento viene tenuta in scacco. Per essere differente, occorre innanzi tutto non essere lo stesso, ed è su questo fondo negativo, al di sopra di questa parte d'ombra che delimita lo stesso, che sono poi articolati i predicati opposti. Nella filosofia della rappresentazione, il gioco dei due predicati come rosso/verde non è se non il livello più alto di una costruzione complessa: nel più profondo regna la contraddizione tra rosso-non rosso (sul modo essere-non essere); al di sopra, la non identità del rosso e del verde (a partire dalla prova negativa del riconoscimento); infine la posizione esclusiva del rosso e del verde (nel quadro in cui si specifica il genere colore). Cosi, per la terza volta, ma in modo ancora più radicale, la differenza si trova assoggettata in un sistema opposizionale, negativo e contraddittorio. Perché la differenza avesse luogo, c'è voluto che lo stesso fosse diviso dalla contraddizione; che la sua identità infinita fosse limitata dal non-essere; che la sua positività senza determinazione fosse manipolata dal negativo. Al primato dello stesso, la differenza non è giunta se non attraverso queste mediazioni.

Quanto al ripetitivo, esso si produce per l'appunto là dove la mediazione appena ab- bozzata ricade su se stessa; quando anziché dire no, essa pronuncia due volte lo stesso si, e anziché ripartire le opposizioni in un sistema di finizioni, essa ritorna indefinitamente sulla stessa posizione. La ripetizione tradisce la debolezza dello stesso nel momento in cui esso non è più capace di negarsi nell'altro e di ritrovarvisi. La ripetizione che era stata pura esteriorità, pura figura di origine, diviene cosi debolezza interna, difetto della finitudine, sor-a di balbettamento del negativo: la nevrosi della dialettica. Proprio alla dialettica conduceva la filosofia della rappresentazione.

 

E tuttavia, come noi riconoscere in Hegel il filosofo Ielle massime differenzi, di fronte a Leibniz, pensatore Ielle minime? A dire il fero, la dialettica non libera il differente; anzi garantisce che sarà sempre ripreso. La sovranità dialettica dello stesso consiste nel lasciarlo essere, soggetto però alla legge del negativo, come il momento del non-essere. Si crede di veder risplendere la sovversione dell'Altro, ma in segreto la contraddizione lavora per la salvezza dell'identico. Non occorre rammentare l'origine perennemente istitutrice della dialettica. Ciò che di contorno la rilancia, facendo sorgere indefinitamente l'aporia dell'essere e del non-essere, è l'umile interrogazione scolastica, il dialogo fittizio dell'allievo: "Questo è rosso; quello non è rosso. In questo momento è giorno. No, in questo momento è notte". Nel crepuscolo della notte d'ottobre, l'uccello di Minerva non vola molto alto: "Scrivete, scrivete", gracchia, "domani mattina, non sarà più notte".

Per liberare la differenza, occorre un pensiero senza contraddizione, senza dialettica, senza negazione: un pensiero che dica si alla divergenza; un pensiero affermativo i1 cui strumento è la disgiunzione; un pensiero del molteplice – della molteplicità dispersa e nomade che non limiti né raggruppi nessuna delle costrizioni dello stesso; in pensiero che non obbedisca al modello scolastico (che a risposta bell'e pronta falsifica), ma che si rivolga a problemi insolubili; vale a dire a una molteplicità di punti notevoli che si sposta via via che se ne distinguano le condizioni e che insiste, sussiste in un gioco di ripetizioni. Lungi dall'essere l'immagine ancora incompleta e confusa di un'Idea che dall'alto, in ogni tempo, disponesse della risposta, il problema è l'idea stessa, o meglio l'Idea non ha altro modo se non problematico: pluralità distinta la cui oscurità sempre più insiste, e nella quale la domanda non cessa di muoversi. Qual è la risposta alla domanda? Il problema. Come risolvere il problema? Spostando la domanda. Il problema sfugge alla logica del terzo escluso, in quanto è una molteplicità dispersa: non si risolverà mediante la chiarezza di distinzione dell'idea cartesiana, poiché è un'idea distinta-oscura; disobbedisce alla seriosità del negativo hegeliano, in quanto è un'affermazione multipla; non è sottoposto alla contraddizione essere-non essere, in quanto è essere. Bisogna pensare problematicamente anziché interrogare e rispondere dialetticamente.

Le condizioni per pensare differenza e ripetizione, come si vede, assumono sempre maggiore ampiezza. Era necessario abbandonare, con Aristotele, l'identità del concetto; rinunciare alla somiglianza nella percezione, liberandosi, di colpo, di ogni filosofia della rappresentazione; ed ecco che ora occorre distaccarsi da Hegel, dall'opposizione dei predicati, dalla contraddizione, dalla negazione, da tutta la dialettica. Ma già si profila la quarta condizione, una condizione ancor più temibile. L'assoggettamento più tenace della differenza, è senza dubbio quello delle categorie; in quanto esse consentono, mostrando in quali modi diversi l'essere può dirsi, specificando in anticipo le forme di attribuzione dell'essere, imponendo in qualche modo il suo schema di distribuzione agli essenti, di preservare, al più alto grado, la propria quiete senza differenza. Le categorie dominano il gioco delle affermazioni e delle negazioni, fondano in linea di diritto le somiglianze della rappresentazione, garantiscono l'oggettività del concetto e del suo lavoro; reprimono l'anarchica differenza, la ripartiscono in regioni, delimitano i suoi diritti e le prescrivono il compito di specificazione che esse devono compiere tra gli esseri. Le categorie si possono leggere da un lato come le forme a priori della conoscenza; ma dall'altro, esse appaiono come la morale arcaica, come il vecchio decalogo che l'identico impose alla differenza. Per liberare quest'ultima, bisogna inventare un pensiero a-categorico. Inventare tuttavia non è la parola giusta, poiché, almeno due volte nella storia della filosofia, si trova già una formulazione radicale dell'univocità dell'essere: in Duns Scoto e in Spinoza. Senonché, Duns Scoto pensava che l'essere fosse neutro, e Spinoza, sostanza; per l'uno come per l'altro, l'evizione delle categorie, l'affermazione che l'essere si dice nello stesso modo di tutte le cose non aveva altro scopo, indubbiamente, se non di mantenere, in ogni istanza, l'unità dell'essere. Immaginiamo invece un'ontologia in cui l'essere si dica, nello stesso modo, di tutte le differenze, e solo delle differenze; allora le cose non sarebbero tutte ricoperte, come in Duns Scoto, dalla grande astrazione monocolore dell'essere, e i modi spinoziani non girerebbero attorno all'unità sostanziale; le differenze girerebbero a loro volta, l'essere dicendosi, nello stesso modo, di tutte, in quanto l'essere non è affatto l'unità che le guida e le distribuisce, ma la loro ripetizione come differenze. In Deleuze, l'univocità non categoriale dell'essere non collega direttamente il multiplo all'unità stessa (neutralità universale dell'essere o forza espressiva della sostanza); essa fa giocare l'essere come ciò che si dice ripetitivamente della differenza; l'essere è il rivenire della differenza, senza che ci sia differenza nel modo di dire l'essere. Il quale poi non si distribuisce affatto in regioni: il reale non si subordina al possibile; il contingente non si oppone al necessario. In ogni caso, che la battaglia di Azio e la morte di Antonio siano state o no necessarie, di questi puri avvenimenti – combattere e morire – l'essere si dice nello stesso modo; come pure si dice di quella castrazione fantasmatica che ha avuto e non ha avuto luogo. La soppressione delle categorie, l'affermazione dell'univocità dell'essere, la rivoluzione ripetitiva dell'essere attorno alla differenza, ecco qual era alla fine la condizione per pensare il fantasma e l’avvenimento.

Alla fine? Nient’affatto. Torniamo su quel "rivenire". Ma, prima, una parentesi.

Di Bouvard e Pécuchet si può dire che si sbagliano, che commettono degli errori non appena si presenta loro la più piccola occasione? Se si sbagliassero, vorrebbe dire che c’è una legge del loro fallimento e che, a certe condizioni definibili, essi avrebbero potuto anche riuscire.

Ora, il fallimento li segue sempre, qualsiasi cosa facciano, che l’abbiano saputo o meno, che abbiano o no applicato le regole, buono o cattivo che sia stato il libro consultato. La loro impresa, qualsiasi cosa capiti, l'errore di certo, quindi l'incendio, il gelo, la stupidità e la cattiveria degli uomini, la rabbia di un cane, non era falsa, era mancata. Essere nel falso, vuol dire prendere una causa per un'altra; significa non prevedere gli accidenti; vuol dire conoscere malamente le sostanze, confondere l'eventuale con il necessario; ci si sbaglia quando, distratti nell'uso delle categorie, si applicano fuori tempo. Fallire, mandar tutto in rovina, è ben altro; vuol dire lasciar sfuggire tutta l'armatura delle categorie (non soltanto il loro punto di applicazione). Se Bouvard e Pécuchet prendono per certo ciò che è poco probabile, ciò non dipende dal fatto che s'ingannano nell'uso distintivo del possibile, ma che confondono tutto il reale con tutto il possibile (è questa la ragione per cui il più improbabile capita persino al più naturale dei loro intenti); essi mescolano, o meglio si mescolano, il necessario del loro sapere e la contingenza delle stagioni, l'esistenza delle cose e tutte le ombre che popolano i libri: in loro l'accidente ha la pertinacia di una sostanza e le sostanze gli schizzano in faccia negli accidenti d'alambicco. È questa la loro grande bestialità patetica, incomparabile con la povera stupidità di coloro che stanno loro intorno, che si sbagliano e che essi hanno proprio ragione di disprezzare. Entro le categorie, si sbaglia; al di fuori, al di sotto, al di qua di esse, si è bestie. Bouvard e Pécuchet sono degli esseri a-categorici.

Ciò consente di scoprire un uso poco apparente delle categorie; facendo sorgere uno spazio del vero e del falso, dando posto al libero supplemento dell'errore, esse respingono silenziosamente la bestialità. A voce alta, le categorie ci dicono come conoscere, e ci avvertono solennemente sulle possibilità d'ingannarsi; ma a bassa voce, esse vi garantiscono che siete intelligenti, e costituiscono l’a priori della bestialità esclusa.

È dunque pericoloso liberarsi dalle categorie; non appena si sfugge loro si affronta il magma della bestialità e si rischia una volta aboliti questi princìpi di distribuzione di veder salire tutt'intorno a sé, non la meravigliosa molteplicità delle differenze, ma l'equivalente, il confuso, il "tutto torna allo stesso", il livellamento uniforme e il termodinamismo di tutti gli sforzi falliti.

Pensare nella forma delle categorie, vuol dire conoscere il vero per distinguerlo dal falso; pensare con un pensiero a-categorico, far fronte alla nera bestialità, è, per il tempo di un lampo, distinguersene. La bestialità si contempla: vi si immerge lo sguardo, ci si lascia affascinare, essa vi trasporta con dolcezza, la si imita abbandonando-visi; sulla sua fluidità senza forma, cui ci si appoggia; si spia il primo soprassalto dell'impercettibile differenza, e, con lo sguardo vuoto, si spia, senza febbre, il ritorno della luce. All'errore si dice no, e si cancella; si dice sì alla bestialità, la si vede, la si ripete e, pian piano, s'invoca l'immersione totale.

Warhol è grande con le sue scatole di conserva, i suoi stupidi casi e le sue serie di sorrisi pubblicitari: equivalenza orale e nutritiva di labbra dischiuse, di denti, di salse di pomodoro, di igiene da epidermide; equivalenza di una morte nel fondo di una vettura sventrata, al termine di un filo telefonico sull'alto di un palo, tra le braccia scintillanti e bluastre della sedia elettrica. "Una cosa vale l'altra", dice la bestialità, sprofondando in se stessa, e prolungando all'infinito ciò che essa è attraverso ciò che essa dice di sé; "Qui o in un altro posto, sempre la stessa cosa; che importa che variino alcuni colori e che le luci siano più o meno grandi; come è bestia la vita, la donna, la morte! Come è bestia la bestialità!". Ma a contemplare bene in faccia questa monotonia senza limiti, ciò che d'improvviso si illumina, è la molteplicità stessa – senza niente al centro, né in cima, né al di là –, crepitio luminoso che corre ancor più rapido dello sguardo e volta a volta illumina queste etichette mobili, queste istantanee imprigionate che ormai, per sempre, senza nulla formulare, si fanno segno: d'un tratto, sul fondo della vecchia inerzia equivalente, la zebratura dell'avvenimento squarcia l'oscurità, e il fantasma eterno si dice di questa scatola, di questo volto singolare, senza spessore.

L'intelligenza non risponde alla bestialità: è la bestialità già vinta, l'arte categoriale di evitare l'errore. Lo studioso è intelligente. Ma è il pensiero che s'affronta alla bestialità, ed è la filosofia che la guarda. A lungo, sono faccia a faccia, col suo sguardo immerso in questo cranio senza candela. È la sua propria testa di morto, la sua tentazione, il suo desiderio forse, il suo teatro catatonico. Al limite, pensare sarebbe contemplare intensamente, da molto vicino, e quasi fino a perdervisi, la bestialità; e la stanchezza, l'immobilità, una grande fatica, un certo cocciuto mutismo, l'inerzia formano l'altra faccia del pensiero – o meglio il suo accompagnamento, l'esercizio quotidiano e ingrato che lo prepara e che subito esso dissolve. Il filosofo deve possedere una buona dose di cattiva volontà per non giocare correttamente il gioco della verità e dell’errore: questo mal volere, che si attua nel paradosso, gli consente di sfuggire alle categorie. Ma egli deve essere inoltre di "umore cattivo" tanto quanto basta per restare di fronte alla bestialità, per contemplarla senza un gesto, sino alla stupefazione, per avvicinarsi ben bene ad essa e mimarla, per lasciarla montare lentamente in sé (è forse questo che si traduce eufemisticamente: essere assorbito nei propri pensieri), e attendere, al termine mai fissato di questa preparazione accurata, lo choc della differenza: la catatonia muove il teatro del pensiero, una volta che il paradosso abbia rovesciato il quadro dalla rappresentazione.

Si vede facilmente come l’LSD rovescia i rapporti del cattivo umore, della bestialità e del pensiero: ha appena messo fuori circuito la sovranità delle categorie che strappa il fondo alla sua indifferenza e riduce a niente la triste mimica della bestialità; e tutta questa massa univoca e a-categorica, la dà non soltanto a vedere come variegata, mobile, asimmetrica, discentrata, spiraloide, risuonante, ma la fa brulicare ad ogni istante di avvenimenti-fantasmi; scivolando su questa superficie a un tempo puntuale e immensamente vibratoria, il pensiero, libero della sua crisalide catatonica, contempla dall'eterno l'equivalenza indefinita divenuta avvenimento bruciante e ripetizione sontuosamente agghindata. L'oppio induce altri effetti: per esso, il pensiero raccoglie nel suo punto più alto l'unica differenza, rigettando il fondo lontanissimo, e togliendo all'immobilità il compito di contemplare, e di chiamare a sé, mimandola, la bestialità; l'oppio assicura un'immobilità senza peso, uno stupore di farfalla fuori della rigidità catatonica; e lontanissimo, al di sotto di essa, dispiega il fondo, un fondo che non assorbe più bestialmente tutte le differenze, ma le lascia sorgere e scintillare come tanti avvenimenti infimi, distanziati, ridenti ed eterni.

La droga – se del resto è possibile usare ragionevolmente questa parola al singolare – non concerne in alcun modo il vero e il falso; non apre se non alle cartomanti un mondo "più vero del reale".

Essa sposta, l’una in rapporto all'altro, la bestialità e il pensiero, abolendo la vecchia necessità del teatro dell'immobile. Ma forse, se il pensiero deve guardare la bestialità in faccia, la droga, che la mette in moto, la colora, l'agita, la solca, la dissolve, la popola di differenze e sostituisce al raro lampo la fosforescenza continua, forse la droga non dà luogo se non a un quasi-pensiero. Può essere. Perlomeno in stato di svezzamento, il pensiero ha due corni: l'uno, detto cattiva volontà (per sventare le categorie), l'altro, cattivo umore (per puntare verso la bestialità e conficcarvisi). Siamo lontani dal vecchio saggio che pone tanta buona volontà nell'attingere il vero, che accoglie con uguale umore la diversità indifferente delle fortune e delle cose; lontani dal cattivo carattere di Schopenhauer che si irrita delle cose che rientrano da sole nella loro indifferenza; ma lontani anche dalla "melanconia" che si fa indifferente al mondo, e la cui immobilità segnala, accanto ai libri e alla sfera, la profondità dei pensieri e la diversità del sapere. Servendosi della sua cattiva volontà, e fingendo il cattivo umore, da questo esercizio perverso e da questo teatro, il pensiero attende l'uscita: la brusca differenza del caleidoscopio, i segni che si illuminano per un istante, la faccia dei dadi gettati, la sorte di un altro gioco. Pensare non consola né rende felici. Pensare si trascina languidamente come una perversione; pensare si ripete con applicazione su un teatro; pensare si getta di colpo fuori dal bussolotto dei dadi. E quando il caso, il teatro e la perversione entrano in risonanza, allora il pensiero è un "trance", e vale la pena di pensare.

Che l'essere sia univoco, che non possa dirsi se non in un solo e stesso modo, è paradossalmente la condizione massima perché l'identità non governi la differenza, e la legge dello Stesso non la fissi come semplice opposizione nell'elemento del concetto; l'essere può dirsi nello stesso modo in quanto le differenze non sono ridotte in anticipo dalle categorie, in quanto non si ripartiscono in un diverso sempre riconoscibile attraverso la percezione, in quanto non si organizzano secondo la gerarchia concettuale delle specie e dei generi. L'essere è ciò che si dice sempre della differenza, è il Rivenire della differenza.

Il termine rivenire evita sia divenire che ritorno. Infatti le differenze non sono gli elementi, sia pure frammentari, mescolati, sia pure mostruosamente confusi, di un grande Divenire che li trascinerebbe nella sua corsa, facendoli talvolta riapparire nudi o mascherati. Per quanto possa esser larga, la sintesi del Divenire conserva tuttavia l'unità; non soltanto, non tanto quella di un continuo infinito, quanto quella del frammento, dell'istante che passa e ripassa, e quella della coscienza fluttuante che lo riconosce. Diffidiamo dunque di Dioniso e delle sue Baccanti, anche quando sono in stato di ebbrezza. Quanto al Ritorno, deve essere il cerchio perfetto, la mola ben lubrificata che gira sul proprio asse e riconduce a ora fissa le cose, le figure e gli uomini? Occorre che ci sia un centro e che sulla periferia gli avvenimenti si riproducano?

Persino Zarathustra non poteva sopportarne l'idea: "Ogni verità è curva, il tempo stesso è un cerchio, mormorò il nano con tono sprezzante. Spirito di pesantezza, dico crucciato, non prendere tutto cosi alla leggera"; e convalescente, esclamerà: "Ahimé! l'uomo tornerà eternamente, l'uomo meschino tornerà eternamente". Forse ciò che annuncia Zarathustra non è il cerchio; o forse l'immagine insopportabile del cerchio è l'ultimo segno di un pensiero più alto; forse bisogna rompere quest'astuzia circolare come il giovane pastore, come lo stesso Zarathustra che stacca per risputarla subito la testa del serpente. Chronos è il tempo del divenire e del ricominciamento. Chronos divora brano a brano ciò che ha fatto nascere e lo fa rinascere nel proprio tempo. Il divenire mostruoso e senza legge, la grande lacerazione di ogni istante, la ruminazione di ogni vita, la dispersione delle sue parti, sono legate all'esattezza del ricominciamento: il Divenire fa entrare in questo grande labirinto interiore che non è affatto differente nella sua natura dal mostro che lo abita; ma dal fondo stesso di questa architettura tutta contornata e ritornata su se stessa un solido filo consente di ritrovare la traccia dei suoi passi anteriori e di rivedere lo stesso giorno. E Dioniso può dire ad Arianna: tu sei il mio labirinto. Ma Aion è il rivenire stesso, la linea retta del tempo, questa incrinatura più rapida del pensiero, più sottile di ogni istante, che, da ambo le parti della sua freccia indefinitamente aguzza, fa sorgere questo stesso presente come se fosse già stato indefinitamente presente e indefinitamente a venire. È importante capir bene che non si tratta qui di una successione di presenti, offerti da un flusso continuo e che nella loro pienezza lascerebbero trasparire lo spessore di un passato e profilarsi l'orizzonte di un avvenire di cui saranno a loro volta il passato.

Persino Zarathustra non poteva sopportarne l'idea: "Ogni verità è curva, il tempo stesso è un cerchio, mormorò il nano con tono sprezzante. Spirito di pesantezza, dico crucciato, non prendere tutto cosi alla leggera"; e convalescente, esclamerà: "Ahimé! l'uomo tornerà eternamente, l'uomo meschino tornerà eternamente". Forse ciò che annuncia Zarathustra non è il cerchio; o forse l'immagine insopportabile del cerchio è l'ultimo segno di un pensiero più alto; forse bisogna rompere quest'astuzia circolare come il giovane pastore, come lo stesso Zarathustra che stacca per risputarla subito la testa del serpente. Chronos è il tempo del divenire e del ricominciamento. Chronos divora brano a brano ciò che ha fatto nascere e lo fa rinascere nel proprio tempo. Il divenire mostruoso e senza legge, la grande lacerazione di ogni istante, la ruminazione di ogni vita, la dispersione delle sue parti, sono legate all'esattezza del ricominciamento: il Divenire fa entrare in questo grande labirinto interiore che non è affatto differente nella sua natura dal mostro che lo abita; ma dal fondo stesso di questa architettura tutta contornata e ritornata su se stessa un solido filo consente di ritrovare la traccia dei suoi passi anteriori e di rivedere lo stesso giorno. E Dioniso può dire ad Arianna: tu sei il mio labirinto. Ma Aion è il rivenire stesso, la linea retta del tempo, questa incrinatura più rapida del pensiero, più sottile di ogni istante, che, da ambo le parti della sua freccia indefinitamente aguzza, fa sorgere questo stesso presente come se fosse già stato indefinitamente presente e indefinitamente a venire.

È importante capir bene che non si tratta qui di una successione di presenti, offerti da un flusso continuo e che nella loro pienezza lascerebbero trasparire lo spessore di un passato e profilarsi l'orizzonte di un avvenire di cui saranno a loro volta il passato. Si tratta della linea retta dell'avvenire che taglia continuamente il minimo spessore di presente, lo ritaglia indefinitamente a partire da sé: lontano che si vada per seguire questa cesura, mai si incontra l'atomo indivisibile che si potrebbe infine pensare come la micro-unità presente del tempo (il tempo è sempre più sciolto del pensiero); si trova sempre sui due lembi della ferita che ciò è già capitato (e che era già capitato, e che era già capitato che era capitato), e che questo capiterà ancora (e che capiterà ancora che questo capiti ancora): meno frattura che indefinita fibrillazione; il tempo è ciò che si ripete; e il presente – trafitto da questa freccia dell'avvenire che lo porta deportandolo di continuo da parte a parte – il presente non cessa di ritornare. Ma di ritornare come singolare differenza; ciò che non torna è l'analogo, il simile, l'identico. La differenza torna; e l'essere, che si dice nello stesso modo della differenza, non è il flusso universale del Divenire, non è neppure il ciclo ben centrato dell'Identico; l'essere è il Ritorno sciolto dalla curva del cerchio, è il Rivenire. La morte investe così il Divenire, Padre divoratore, madre in doglie; il cerchio, da cui il dono di vivere ad ogni primavera è passato nei fiori; il rivenire: fibrillazione ripetitiva del presente, eterna e rischiosa incrinatura data tutta in una volta, e d'un sol colpo affermata una volta per tutte.

Nella sua frattura, nella sua ripetizione, il presente è un lancio di dadi. Non che esso formi la parte di un gioco all'interno del quale scivolerebbe un po' di contingenza, un grano d'incertezza. Esso è a un tempo il caso nel gioco, e il gioco stesso come caso; d'un tratto sono gettati i dadi e le regole. Talché il caso non è affatto spezzettato e ripartito qua e là; ma tutto intero affermato d'un sol colpo. Il presente come rivenire della differenza, come ripetizione che si dice della differenza, afferma in una volta il tutto del caso. In Duns Scoto l'univocità dell'essere rimandava all'immobilità di un'astrazione; in Spinoza, alla necessità della sostanza e alla sua eternità; qui, invece, rimanda al solo colpo del caso nell'incrinatura del presente. Se l'essere si dice sempre nello stesso modo, ciò accade non perché l'essere sia uno, ma perché nel solo lancio di dadi del presente, si afferma il tutto del caso. Si può dire allora che nella storia l'univocità dell'essere è stata pensata via via tre volte: da Duns Scoto, da Spinoza, e infine da Nietzsche, che per primo l'avrebbe posta non come astrazione, non come sostanza ma come ritorno? Diciamo piuttosto che Nietzsche è giunto fino a pensare l'eterno Ritorno; più specificamente, egli l'ha indicato come l'insopportabile da pensare. Insopportabile poiché, appena intravisto attraverso i suoi primi segni, esso si fissa in questa immagine del cerchio che porta con sé la minaccia fatale del ritorno di ogni cosa – reiterazione della ragnatela; ma bisogna pensare questo insopportabile poiché non è ancora se non un segno vuoto, una postierla da superare, questa voce senza forma dell'abisso, il cui approccio, indissolubilmente, è gioia e disgusto, disgusto. In rapporto al Ritorno, Zarathustra è il "Fùrsprecher", colui che parla per..., al posto di..., che indica il luogo dove esso fa difetto. Zarathustra non è l'immagine, ma il segno di Nietzsche. Il segno (cosa diversa dal sintomo) della rottura: il segno più prossimo all'insopportabilità del pensiero del ritorno, Nietzsche ha lasciato da pensare l'eterno ritorno. Da un secolo ormai, la più alta impresa della filosofia è stata proprio di pensare questo ritorno. Ma chi sarebbe stato tanto temerario da dire di averlo pensato? Doveva il Ritorno essere, come la fine della Storia nel XIX secolo, ciò che non avrebbe potuto vagare attorno a noi se non come una fantasmagoria dell'ultimo giorno? A questo segno vuoto e imposto da Nietzsche come in eccesso, bisognava volta a volta attribuire contenuti mitici che lo disarmano e lo riducono? Occorreva invece cercare di smussarlo perché potesse prender posto e figurare bellamente nel filo di un discorso? Oppure bisognava rialzare questo segno eccedente, sempre spostato, mancante indefinitamente al suo posto, e anziché trovargli il significato arbitrario che gli corrisponde, anziché farne una parola, farlo entrare in risonanza col grande significato che il pensiero odierno travolge come una fluttuazione incerta e sommessa; far risuonare il rivenire con la differenza? Non bisogna intendere che il ritorno è la forma di un contenuto che sarebbe la differenza; ma che da una differenza sempre nomade, sempre anarchica, dal segno sempre in eccesso, sempre spostato del rivenire, si è prodotta una folgorazione che porterà il nome di Deleuze: ora, un nuovo pensiero è possibile; il pensiero, di nuovo, è possibile.

Un pensiero non a venire, promesso dal punto più lontano dei ricominciamenti. È qui, nelle pagine di Deleuze, e salta, danza al nostro cospetto, fra noi; pensiero genitale, intensivo, affermativo, a-categorico – aspetti tutti che non conosciamo, maschere che non avevamo mai visto; differenza ohe nulla lasciava prevedere e che tuttavia fa ritornare come maschere delle proprie maschere, Platone, Duns Scoto, Spinoza, Leibniz, Kant, tutti i filosofi. È la filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno: teatro in cui, sotto la maschera di Socrate, sfolgora improvviso il riso del sofista; dove i modi di Spinoza intrecciano una gagliarda discentrata mentre la sostanza gira attorno ad essi come un folle pianeta; in cui un Fichte storpio annuncia "io incrinato Io dissolto", e Leibniz, giunto al sommo della piramide, intravede nell'oscurità che la musica celeste è il Pierrot lunare. Nella garitta del Lussemburgo, Duns Scoto infila la testa nella lunetta circolare; i suoi mustacchi imponenti sono quelli di Nietzsche travestito da Klossowski.

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