logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

E' convocato il 16 e 17 dicembre a Lido di Camaiore (Lucca) il II° Forum Nazionale per la Salute mentale. Riportiamo il documento programmatico di convocazione del congresso.



DOCUMENTO PROGRAMMATICO
del
FORUM SALUTE MENTALE

Roma, 16 ottobre 2003

 

Ridurre la dissociazione che molti da tempo avvertono tra enunciati e pratiche nel campo delle politiche della salute mentale è il motivo fondante l’incontro di oggi e la proposta di lavoro del Forum per la Salute Mentale di cui abbiamo voluto la nascita e proponiamo qui lo sviluppo.

 

Un grande cambiamento si è prodotto in Italia in questi 25 anni di vita della riforma psichiatrica che ha chiuso i manicomi pubblici; ha riconosciuto il diritto di cittadinanza alle persone con disturbo mentale; ha mutato il vecchio rapporto tra psichiatria e giustizia;  ha dato avvio alla formazione di un sistema di servizi di salute mentale ormai diffusi in tutto il territorio nazionale; ha mutato il destino di migliaia di uomini e donne con sofferenza (e dei loro familiari);  ha avviato un cambiamento di atteggiamento culturale nei confronti di ogni forma di diversità evidenziando l’illibertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale troppe volte a questa connessa.

La legislazione di riferimento è ben nota e a nostro parere in nulla da modificare. Se poi sia da integrare, anche questo il Forum è chiamato eventualmente a dire. Si pone invece con forza ed urgenza, ed appare ormai improrogabile, la questione della qualità dei servizi, che appaiono troppo spesso segnati da una ambigua dissociazione tra le pratiche e le enunciazioni teoriche, tra i principi e i modelli organizzativi, tra le risorse in campo e i percorsi reali di cura, quali modifica concreta delle condizioni di vita  e di ben-essere dell’individuo/a e del suo contesto.

E’ su questo, su una necessaria inversione di tendenza, che il Forum vuole porre l’attenzione  e, con grande enfasi in ogni caso, sulle pratiche; partendo da questo ci pare possibile contribuire a ri-vitalizzare -riportando l’analisi e il confronto alle radici della lotta per il cambiamento- impegni di operatori ed operatrici, di forze politiche, sociali, delle istituzioni, dei movimenti e della gente.

La nostra difesa della legge (atto quant’altri mai doveroso) non può essere ulteriormente negoziata con una riduzione dello sguardo critico su ciò che in concreto accade e su tutte le distorte, carenti, ridotte o travisate applicazioni concrete.

Riteniamo che oggi la legge si debba difendere riaprendo il dibattito sulla qualità dei servizi, sugli stili operativi, sui modelli organizzativi, sulle risorse in campo, sull’uso delle risorse umane e materiali, sull’avvenuto restringimento delle pratiche per la salute mentale alla sola psichiatria, pena l’azzeramento della  forza innovativa dell’esperienza italiana di deistituzionalizzazione, l’oscuramento dei soggetti, la negazione dei diritti, l’abbandono degli utenti con più basso potere contrattuale.

L’elenco che configura la distanza tra enunciati e pratiche è lunghissimo, in buona misura noto e in buona misura, riteniamo, largamente condivisibile. Quel che  tuttavia ci aspettiamo è che negli interventi di queste giornate a più voci, da più parti, e immaginiamo, con diverse enfasi, questo elenco venga riempito di luoghi, fatti, specifiche denunce, circostanze, fotografie ……

Riteniamo però importante definire la posizione di questo Forum, porre delle discriminanti, riprendere  anche “vecchie” questioni su cui con l’esperienza dei 25 anni  di riforma possiamo ri-aprire la discussione con maggiori certezze, porre le prospettive e soprattutto affrontare le separazioni che nelle pratiche e nelle culture in questi anni si sono determinate. Riunire ciò che in questi anni è stato diviso, ci pare oggi centrale: la clinica, il sociale, il biologico, lo psichico, le istituzioni e i soggetti, l’assistenza e il lavoro e tante altre. E’ come se una forza spingesse proprio tutti verso un destino separato, passivo, assegnato. Riunire perché si sviluppi il conflitto sulle esperienze concrete e non sugli artefatti delle cose separate. Oggi sappiamo che la continuità della pratica, quando si fa destino di un’altra persona designata in cura, dipende dalla capacità di suscitare, costruire, inventare altre occasioni che non siano quelle inscritte solo nelle nostre professioni. Le professioni devono rimanere strumenti inclusi nella realtà concreta delle persone, capaci di riaprire ad esse il re-incontro con la vita.

Oggetti veri come la casa, un reddito, il possesso delle cose utili, il corpo stesso, non sono riprodotti dalle cure di per sé. Sono loro al contrario che permettono alle cure di avere il senso, la direzione, la bellezza. Si dice “integrazione socio-sanitaria”, ma è questo che con essa noi intendiamo.

Potremmo poi dire e parlare dell’efficacia, ma è parola astratta che evoca un prodotto sanitario certamente utile ed importante, previsto dalla correttezza delle procedure e sostantivo dell’evidenza clinica. Prodotto rigido che non evoca mai quello che succederà dopo, il destino, la prognosi, il futuro. La generica speranza è l’unica parola che viene usata per designare il dopo dell’evidenza clinica e il prima dell’efficacia dei trattamenti. Ma la speranza concreta, quando diviene una pratica e un’esperienza, pretende di invadere campi non frequentati dalla clinica, variabili in continuum che riguardano la qualità dell’habitat, il possesso di strumenti emancipativi, abilità sociali condivise.

1.  I servizi di salute mentale

Quando parliamo di servizi ci riferiamo in generale alle istituzioni, è a queste che rivolgiamo il nostro sguardo.

Le istituzioni cambiano se cambia la relazione tra cittadini e istituzioni, e se le istituzioni sono in grado di indurre e aiutare questa riqualificazione dei rapporti. Cambiano se i saperi socialmente disponibili sono chiamati a dare una mano in modo meno occasionale e sporadico, e se nessun sapere presume di essere esclusivo e dominante.

Mettendo ora attenzione alla attuale situazione dei servizi di salute mentale in Italia, possiamo dire che se questa appare accettabile per quanto riguarda la quantità, in relazione agli standard previsti dal Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute Mentale e dagli stessi Livelli Essenziali di Assistenza (anche se si tratta di una media nazionale dove a fronte di situazione soddisfacenti sussistono aree del paese dove i servizi sono ancora numericamente del tutto insufficienti), la questione critica riguarda  però la qualità del servizio offerto ed è questo il punto cruciale.

I Centri di Salute Mentale (CSM), pressocchè adeguati dal punto di vista quantitativo, pur tuttavia si presentano per lo più organizzati come semplici ambulatori specialistici, con lunghe liste di attesa, aperti solo nei giorni feriali, a volte neanche sulle 12 ore, separati dalla comunità locale. Costruiti e modulati su logiche privatistiche, caratterizzati da spazi ed arredi asettici, a volte degradati, troppo spesso vuoti, sembrano adatti all’evitamento della  presa in carico, ad una attenzione superficiale verso i “quasi normali” e alla rimozione dei “pazienti gravi” che faticano ad accedere alle cure, che infatti rapidamente vengono rimossi verso le strutture private convenzionate.

Lo psichiatra riceve su appuntamento per dispensare psicofarmaci, lo psicologo riceve su appuntamento per dispensare psicoterapia, l’infermiere prende gli appuntamenti e somministra la terapia farmacologica, l’assistente sociale riempie i moduli per le domande di invalidità e l’immissione  nel circuito della cronicità.

E’ assente o rara la pratica della presa in carico della persona, della famiglia e del contesto. La visita domiciliare, in particolare quella infermieristica, è finalizzata per lo più alla somministrazione dei long-acting.

I promotori del Forum ritengono invece che il CSM, luogo complesso, aperto, accogliente, mercato, luogo di relazione e di mediazione di oggetti, è il motore e regista dei percorsi di cura e integrazione sociale dei cittadini/e nel territorio, percorsi unici, individuali, complessi, per una ricostruzione di senso, legami e potere contrattuale, quindi ben-essere. Parliamo di “case”, luoghi aperti sulle 24 ore, 7 giorni su 7, da cui parte il lavoro verso un territorio dato, con una popolazione definita (non superiore a 80mila persone), in cui la città e i suoi gruppi formali ed informali entrano, li attraversano, li trasformano, dove soprattutto, le persone in crisi devono trovare risposte e, se necessario,  accoglienza anche prolungata, anche notturna.

 Solo in presenza di CSM così organizzati, servizi “forti” per essere permeabili al territorio, sembra essere stata possibile in Italia l’applicazione piena della riforma. Non abbiamo in questi 25 anni trovato strutturazioni organizzative dotate di una analoga efficacia.

Va sottolineato che il CSM sulle 24 ore richiede una programmazione regionale, aziendale e dipartimentale lucida, consapevole della necessità di investire risorse plurime nella salute mentale. La Prima Conferenza Nazionale del 2001 ha posto l’istituzione dei CSM 24 ore come un fattore discriminante e costituivo di “buone pratiche”.

L’esistenza di servizi forti, ben lungi da essere condizione sufficiente, la riteniamo comunque condizione necessaria nel senso scolastico della parola: necessario come “essere così e non poter essere diversamente”.

In assenza di servizi forti, caratterizzati dall’accoglienza sulle 24 ore, si assiste ad un indiscriminato ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) o al ricovero in strutture private convenzionate,  dove si esaurisce la responsabilità  del pubblico e da cui spesso, una volta dimessi, le persone ritornano a carico dei familiari senza un percorso di cura e un progetto di vita. In assenza di servizi forti le problematiche più cocenti vengono depositate, a volte senza progetto e/o riferimento con i servizi territoriali, negli SPDC o sono destinate all’abbandono.

I Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) in troppi Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) sono collocati in luoghi  degradati, situati nei sottoscala o nei piani alti dell’ospedale, privi di spazi aperti, muniti spesso di grate o di telecamere a circuito chiuso. Con le porte chiuse verso l’interno e verso l’esterno, fino all’estremo caricaturale e insopportabile della definizione del tutto extralegale di “reparti per TSO”.

Puramente medicalizzati, separati nella sostanza dal circuito degli altri servizi territoriali, come dal resto dell’ospedale generale, forniscono solo risposte contenitive e dequalificate, cristallizzando e stigmatizzando la sofferenza della persona come non curabile nel suo abituale contesto.

Nella maggior parte degli SPDC (8 su 10) è frequente, se non routinario, l’uso della contenzione fisica (a volte, ci si giustifica, “solo per poco tempo per fare la terapia farmacologica”), ritenuta perfino in alcuni casi strumento “terapeutico” e non violazione dei diritti umani, evento per noi sentinella sul quale interrogarsi ed attrezzarsi affinché venga definitivamente abolito.  Negli SPDC si può assistere contemporaneamente al paradosso che mentre si dimettono impropriamente persone ancora bisognose di cure, affermando che la legge non permette di trattenere più di 7 giorni (periodo invece costantemente rinnovabile sulla base della necessità), vengono impropriamente/illegalmente trattenuti, non si sa in quale regime,  per molti anni persone (quante di queste situazioni esistono?) senza ormai alcun riferimento territoriale, senza alcun progetto.

Siffatti SPDC, manicomi senza spazio, sono il prodotto diretto ed inevitabile  di una organizzazione che non prevede una risposta alla crisi fuori dall’ospedale, che non prevede l’accoglienza, anche delle persone in crisi, in  CSM sulle 24 ore. La compresenza di 16 persone in crisi acuta, in spazi tali, come già descritti, non può non generare violenza, illegalità.

Il Forum ritiene che l’SPDC, superata la mera funzione di contenimento e reclusione, costituisca “uno” dei luoghi del DSM deputati al ricovero, in accordo con il CSM che detiene il progetto terapeutico, utilizzato soprattutto per persone che necessitano anche di cure ospedaliere.

Collocato come struttura semplice sempre all’interno del Dipartimento di Salute Mentale, deve condividere e seguire i progetti elaborati dalla struttura complessa CSM competente territorialmente, a salvaguardia della continuità terapeutica e dell’espletamento del progetto terapeutico integrato individuale.

Gli SPDC possono (lo abbiamo sperimentato) essere organizzati come spazi amichevoli, aperti, attraversabili onde sviluppare le condizioni atte a coniugare la cura con il rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Ciò è possibile; ma  diventa certamente impossibile se i servizi territoriali non funzionano adeguatamente. In assenza di CSM sulle 24 ore.

I Centri Diurni spesso si limitano a raccogliere le persone rifiutate o espulse dai CSM, diventando luoghi di stazionamento e di intrattenimento che producono oggetti inutili e dequalificati.

Invece possono e devono rispondere ad una importante funzione formativa ed abilitativa, essere luogo di costruzione di un progetto, di una azione comune in un scambio pratico, intellettuale, affettivo.

Si deve sempre evitare che divengano luoghi separati, ma punti di partenza per integrare le persone in vere attività anche se per un tempo limitato.

Le Strutture Residenziali  hanno avuto in questi ultimi anni, in particolare dopo il ’98 a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici, una notevole crescita numerica: dalla ricerca Progres i posti-residenza dei DSM risultano essere circa 17.000. Peraltro alcune strutture appaiono sovradimensionate nel numero, 40 e oltre utenti, lontane dalla quotidianità dei paesi e dei quartieri, anonime, prive di oggetti, regolate ancora da logiche manicomiali. Spesso separate operazionalmente dal CSM, a volte con  equipe del tutto distinte e con profili professionali inadeguati, si presentano come totalmente autoreferenziali. Sono per lo più luoghi da cui non si esce verso forme di habitat/convivenza più autonome e più integrate nella comunità.

Ci preoccupa l’eccessiva enfasi che negli ultimi tempi viene posta sulle strutture residenziali, quasi come se gli psichiatri, gli amministratori e i politici avessero continuamente bisogno di luoghi, spazi definiti in cui esercitare la cura, il controllo, il potere in cui racchiudere, alla fine.

Il Forum ritiene, e questa appare una esperienza già presente e possibile, che vadano sempre più organizzate convivenze di pochi utenti (5-6) in case di civile abitazione all’interno dei paesi o dei quartieri cittadini, dove si viva una quotidianità vitale, da dove si possa uscire, dove nella normalità dell’agire quotidiano si possa acquisire storia, fiducia, capacità di scelta, possesso di oggetti, ri-appropriarsi di un tempo e di uno spazio, moltiplicare le opportunità.

Infine vanno riconsiderate alla radice forme consociative di patti regressivi tra pubblico, privato e privato sociale che costituiscono ormai la cornice gestionale di tante situazioni residenziali. Questi patti regressivi non sono accettabili, si fondano su una complicità deresponsabilizzata, si coniugano con interessi non validabili, si originano da coincidenze di poteri non finalizzati all’emancipazione dei soggetti; sono l’accettazione di uno status quo, la regola che ne garantisce la sopravvivenza non il superamento. Ma popolano ormai l’ovunque istituzionale rendendoli impermeabili alla critica e alle pratiche trasformative, proprio perché legittimati da interessi convergenti estranei al cambiamento.

Occorre riprendere alla radice, spirito e lettera, della L.328, sull’integrazione socio-sanitaria, e riformulare radicalmente i patti tra servizi sanitari pubblici/privato e privato sociale secondo dispositivi innovativi e finalizzati direttamente non alle strutture ma ai soggetti destinatari, finalmente re-individualizzati come vuole la legge e come noi vogliamo che sia.

A conclusione e per sintetizzare possiamo dire che il Forum vuole più Centri di Salute Mentale degni di questo nome, sulle 24 ore, più laboratori connessi e financo confusi con i luoghi della produzione, luoghi di formazione e di inserimento al lavoro, più case, e, contemporaneamente, meno posti letto in SPDC, nelle comunità terapeutiche e nelle case di cura, quindi nessun abbandono, ma una presa in carico della persona sofferente verso sempre maggiore abilitazione alla vita.

In sostanza si dovrebbe dunque passare da una psichiatria ancora contenitiva e sempre più elementaristica centrata sull’asse ambulatori-SPDC-case di cura-strutture residenziali ad una salute mentale integrata nel tessuto sociale e basata sull’asse CSM-habitat assistiti-forte sostegno sociale/sanitaria-assistenza materiale-percorsi di integrazione sociale e di emancipazione-comunità locale.

Le risorse umane

Non possiamo chiudere il capitolo dei servizi non accennando alla questione degli operatori, medici, psicologi, animatori, tecnici della riabilitazione, educatori, assistenti sociali, socii/e di cooperative…

Questione non marginale è quella dei programmi formativi universitari avulsi dalla realtà dei servizi, dalle indicazioni legislative nazionali e regionali, culturalmente lontani dalla vita concreta delle persone, del tutto irresponsabili rispetto alla funzione di tutela della salute pubblica in nome della quale fanno parte del SSN.

Una questione irrisolta per quanto concerne la formazione è la difficoltà da un lato di rendere applicative conoscenze note e dall’altro di suscitarne di nuove rispetto a problemi irrisolti. L’assunto che sostiene le linee di intervento formativo deve essere il progetto individuale  che afferma operativamente la centralità delle persone e il valore di legame nelle comunità e quindi il primato di queste nel dispiegare la possibilità di conoscenze nuove per antichi e nuovi bisogni. Riaffermare il valore delle persone anche quando disabili, anche quando dementi, anche quando totalmente improduttive. Riaffermarne il valore vuol dire formarsi per far di tutto pur di non consegnarle alle istituzioni assistenziali. Riaffermarne il valore vuol dire formarsi per ricostruire strumenti di aiuto che permettano di riscoprire che le persone deboli sono  una risorsa e non un peso.

Riteniamo che in presenza di un’episteme “debole” come è quello della psichiatria, in assenza di certezze, etiologiche e non, la formazione debba essere fatta (come è stato per il superamento del manicomio) “sul campo”, come incontro, riflessione, scambio a più voci, a partire dalla specificità di quel soggetto, la sua storia, il suo contesto, le determinanti in gioco, le risorse, quelle in campo e quelle da attivare, le opportunità,,,,. Come interrogarsi, ricercare, sperimentare modelli organizzativi, risposte in divenire, ricercare altri attori, mettere in gioco altri saperi, favorire la partecipazione e la fantasia.

Ancora, non è ammissibile continuare a tollerare che nei Dipartimenti di Salute Mentale vi siano circa ottomila operatori in meno rispetto ai Livelli Essenziali di Assistenza ed al progetto Obiettivo e che manchino in primo luogo almeno cinquemila operatori professionali non medici, condizione essenziale per una psichiatria territoriale.

Oltre la carenza di infermieri territoriali, sono quasi del tutto assenti  animatori, educatori, tecnici della riabilitazione… necessari  per moltiplicare risposte complesse e differenziate. Riteniamo che la professionalità dell’infermiere territoriale vada rivalutata e valorizzata  anche dal punto di vista contrattuale. Se opportunamente formati –al di fuori di ogni identificazione nel medico, quindi nel modello medico-clinico- questi  potrebbero  utilizzare le conoscenze per ampliare la capacità di comprensione dei  bisogni delle persone e dei contesti.

La presenza nei servizi di socii/e di cooperative sociali, quando avviene in sostituzione e non integrazione  con gli operatori/trici del pubblico, può rappresentare un’ulteriore criticità anche perché si tratta spesso di operatori sottopagati, spesso utilizzati solo per le funzioni materiali, non immessi in una progettualità di emancipazione co-gestita con il pubblico.

Non da ultimo va ribadita la straordinaria qualità di risorse che può ai servizi provenire dalla protagonizzazione degli/lle utenti, dei familiari e della comunità civile. Nella realtà, nonostante gli enunciati, mal si sopporta la presenza dei familiari nel servizio, si attivano tutti i meccanismi espliciti ed impliciti per destituire di ogni valore il punto di vista, la parola degli utenti, né si è attenti alle possibili risorse della comunità e delle municipalità per lo sviluppo dei percorsi emancipativi.

L’analisi delle criticità fin qui fatta non può, né vuole oscurare tutto quello che negli ultimi 40 anni il processo di deistituzionalizzazione nella psichiatria e la chiusura dei manicomi hanno prodotto in Italia e nel mondo.

Nè l’analisi vuole negare le buone pratiche dei molti operatori e dei servizi, ormai  disseminati in tutte le aree del nostro paese, non riconoscere l’impegno di quelle Regioni (poche) che hanno assegnato il 5% del fondo sanitario regionale per la salute mentale e non si siano a ciò limitate, l’impegno di quei Direttori Generali (pochi) che stanno impiegando le risorse ottenute dall’alienazione dei beni degli ospedali psichiatrici per l’implementazione dei Dipartimenti di Salute Mentale, i percorsi di ripresa fatti  dalle persone con grave sofferenza, l’impegno delle cooperative di produzione lavoro, delle associazioni di cittadini, familiari, dei professionisti, scrittori, poeti, imprenditori che accompagnano pezzi di percorso dei servizi e delle persone.

Tanto più, citando Franca Ongaro Basaglia, poichè “è stato ed è ancora possibile rispondere in modo diverso alla sofferenza mentale,  è stata completamente smentita la necessità scientifica e politico-sociale dell’internamento,  è stato possibile radere al suolo il manicomio e la manicomialità attraverso la creazione di risposte vere, vicine alla sofferenza della popolazione, coinvolgendo la popolazione stessa in questa operazione questo significa che sono state infrante le certezze di una scienza e di una politica che continuano a tutelare discriminazione e disuguaglianza”.

2. Le questioni da riprendere

Soffermiamoci su tre punti particolarmente critici: OPG, psicofarmaci, contenzione,

 Ospedali Psichiatrici Giudiziari e salute mentale in carcere

Riteniamo inutile ribadire in questa sede l’assurdità e la violenza dell’OPG.  Non è possibile un OPG “migliore”, l’OPG va definitivamente superato.

Permane da alcuni anni pressoché stabile il numero di internati/e nei 6 OPG, circa 200 per ogni istituto, con una lieve flessione verso l’alto, in particolare per le donne; da anni i disegni di legge per il superamento degli attuali OPG rimangono senza alcun riscontro legislativo. Permane, pur a fronte di piccoli e stabili numeri una cultura pronta a re-invadere la convivenza civile, che pretende di continuare ad assimilare pericolosità e diversità.

Di contro ai dibattiti, alle ricerche e alle prese di posizioni sugli articoli 88 e 89 del C.P. (capacità di intendere e di volere), appare carente un impegno operativo per il superamento degli OPG, e questo oggi vogliamo sottolineare.

Esiste un grande margine di azione da parte degli operatori/trici dei Dipartimenti di Salute Mentale sia per una presa in carico dell’utente che ha commesso reato per evitare l’invio in OPG, sia per la dimissione degli attuali internati/e negli OPG attraverso specifici  progetti individuali di deistituzionalizzazione.

A questo proposito va ricordato l’impegno di gruppi regionali che in Campania e in Sicilia da 2 anni stanno lavorando per la dimissione dei ricoverati dagli OPG di Aversa, Napoli e Barcellona.

Riteniamo oggi di poter dire che gli OPG permangono anche per responsabilità dei DSM. La questione dell’OPG necessita di essere significativamente affrontata da parte dei DSM attraverso la presa in carico dei loro pazienti internati, da primo affrontando le situazioni più immediate e possibili (già il Ministero di Giustizia afferma che il 20% dei ricoverati siano  internati per reati affatto minori e con indice di pericolosità del tutto “evanescente”) e insieme impedendo nuove ammissioni e bloccando il flusso di invio dal carcere.

Una azione importante di erosione dell’OPG, di significativa diminuzione del numero degli/lle internati potrà forse mettere l’attenzione sulla necessità della chiusura dello stesso (come già è avvenuto per l’ospedale psichiatrico) attraverso misure “speciali”, in quanto fortemente individualizzate, per chi rimane.

Un impegno particolare investe quelle ASL nel cui territorio insistono gli OPG, cadendo su di loro la residenza anagrafica dei lungo-degenti; pertanto vanno immaginati progetti finalizzati regionali che impieghino fondi aggiuntivi per affrontare questi programmi di deistituzionalizzazione.

La questione della salute mentale in carcere, ad eccezione di poche situazioni italiane, risente a tutto campo della non applicazione del decreto n.230 del 1999 per il riordino della medicina penitenziaria, anche nelle 6 regioni individuate per la sperimentazione.

Il Forum vuole ribadire il proprio dissenso contro ogni forma di doppio binario, ed affermare la necessità di un rapido trasferimento delle competenze dalla medicina penitenziaria a quella ordinaria, contro tutte le resistenze di ordine preminentemente economico-corporativo.

I servizi territoriali di salute mentale devono assicurare la continuità assistenziale per gli/le utenti che finiscono nel carcere, anche per contrastare il ricorso da parte del carcere all’OPG, per affrontare e rispondere alla sofferenza aggiunta prodotta dall’internamento e assicurare strumenti di reintegrazione sociale dentro e fuori dal carcere.

Ma come si può immaginare che possano fare questo DSM che nella maggior parte del paese sono funzionali e non strutturali, quindi con nessuna capacità di governo delle risorse e incapaci di coordinare alcunché, perché privi di una responsabilità effettiva?

Gli psicofarmaci

Riteniamo che la “questione degli psicofarmaci”, sottovalutata nella sua complessità anche nelle pratiche più avanzate vada riproposta all’attenzione, proprio perché intorno agli psicofarmaci le multinazionali del farmaco in perverso intreccio con le università hanno ricostruito, dopo la riforma, l’artefatto della divisione tra psichiatria biologico istituzionale e psichiatria sociale. Assegnando alla prima il compito di fornire e legittimare l’idea di avere le chiavi e la conoscenza dell’organo, e il modo con cui aggiustarlo, e alla seconda il compito di sostenere l’uso indifferenziato ed esteso degli psicofarmaci nella popolazione, integrandosi con i medici di medicina generale. Alla produzione partecipa la psichiatria biologica universitaria. La vendita è promossa dalla psichiatria dei servizi e dai medici di base. La verità è che da 50 anni non sono stati fatti significativi passi avanti nella ricerca di nuovi prodotti ed assistiamo ad un continuo riciclo, a prezzi superiori e a volte esorbitanti, di molecole note, anche se ripulite e meglio conosciute.

Nella prassi dei servizi di salute mentale, l’uso di farmaci da ausilio alla cura si trasforma nell’intervento principale, che declassa tutto il resto a puro intervento satellite,  a mera pratica di supporto alle terapie farmacologiche stesse. La ricaduta sui servizi è  notevole. Si  crea un circolo vizioso in cui la necessità (vera o presunta) di somministrare farmaci  giustifica perfino pratiche repressive come la contenzione.

Di fronte alla “efficacia” del farmaco, cioè alla sua capacità di dare risposte rapide, gli operatori non medici della psichiatria hanno spesso accettato un ruolo di “contorno”. Alcuni medici, dal canto loro, hanno rinunciato ad essere promotori di processi di cura articolati, in cambio di un indiscusso primato all’interno dei servizi  e di una nuova immagine “professionale” da camice bianco ed esperto del cervello. Si aggiunga inoltre che le multinazionali del farmaco, finanziando ricerche universitarie, intervengono pesantemente anche sui manuali statistico-diagnostici.

La miopia, se non una vera e propria cecità, di fronte al preteso primato della terapia farmacologica è grave e travalica gli stretti limiti della psichiatria abbattendosi su altre istituzioni. Sul carcere, dove gli psicofarmaci vengono usati a sproposito per mille ragioni fra cui alcune strettamente connesse alle pratiche detentive e punitive; sulle case di riposo, dove servono ad adattare comportamenti disturbanti e noiosi da sindrome istituzionale degli anziani; sul sistema scolastico, sui centri di permanenza temporanea ( per gli/le immigrati extracomunitari) e infine sulla società in generale.

La contenzione

La buona pratica non parte da un gesto generoso del medico verso la persona sofferente, gesto che può essere tradito mille volte al giorno da un dolore più o meno nascosto, da una aggressività con o senza giustificazione, da una violenza che ferisce. La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che spesso proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento.

La contenzione blocca questo sviluppo nell’atto stesso che parte dal massimo dell’umiliazione e della mortificazione della persona e ripropone la copertura della nostra incapacità ad affrontare diversamente la sofferenza e la violenza, con una risposta irresponsabile di violenza e di difesa di sé, di violenza da parte del più forte, di chi è in condizione di porre una distanza fra sé e l’altro: il ruolo, le regole, l’istituzione, il potere.

Contro tutto questo si è lottato per anni e si è dimostrato possibile perseguire altre strade con il supporto di operatori/trici formati e motivati che reggano l’impatto senza ferire, senza umiliare, con la costruzione di un ambiente e di un clima non violento, libero nel suo complesso, che fa capire come altri passi siano possibili e  della stessa natura.

La contenzione blocca ogni passo successivo. Contamina e rafforza il sopravvivere di vecchie tradizioni nelle case di riposo e nei servizi per anziani, negli istituti per handicappati, nei reparti di geriatria, di medicina …. per facilitare l’immobilità, per preservare dal danno… alla fine  per semplificare il lavoro di medici e infermieri.


3. Nuovi soggetti/ Nuove questioni

Nuovi soggetti e nuove questioni sono emersi sulla scena con forza negli ultimi anni; soltanto di alcuni scegliamo a parlare: le famiglie e le associazioni, il rapporto tra pubblico/privato/privato sociale, gli/le immigrati.

Delle persone con l’esperienza del disturbo mentale e delle loro associazioni, dei percorsi di ripresa e del protagonismo, decidiamo di non parlarne ora. Consapevoli di quanto ci determinano e di quanto segnano  i momenti più alti dei processi di cambiamento. Intorno  a questo dobbiamo ulteriormente operare per promuovere insieme percorsi, spazi, confronto.

Le famiglie e le associazioni

Il cambiamento della scena della cura dal manicomio al contesto ha determinato l’emergere di nuovi soggetti: le persone con disturbo mentale e i loro familiari. La famiglia, nella psichiatria manicomiale, fatte salve alcune eccezioni, era il luogo delle tare ereditarie, che sarebbero state all'origine del disturbo mentale. Di qui stigma e pregiudizi che hanno costretto per secoli alla disperazione, al ritiro,al silenzio, alla vergogna.

Con fatica la famiglia sta abbandonando questa dolorosa posizione anche se nuovi  modelli teorici e conseguenti scelte terapeutiche danno alla presenza delle famiglie diversa rilevanza e spesso le strategie d’intervento escludono  rigidamente i familiari, non considerano i loro bisogni, assumono atteggiamenti colpevolizzanti. Molti operatori vivono come fastidiosa e ingombrante la presenza dei familiari e alimentano conflitti e comportamenti di difesa.

I servizi che veramente lavorano nella comunità al contrario hanno bisogno di riconoscere i familiari per trovare con loro obiettivi comuni e valorizzare nuove risorse.

Bisogna prima di tutto riconoscere che essi sono soggetti che interagiscono col servizio e con la persona con disturbo mentale sullo stesso piano. Questo è il senso del dialogo a tre voci che deve essere avviato, sostenuto e valorizzato. I familiari sono portatori di domande e bisogni propri. E’ dando credito a queste domande e cercando faticosamente riposte a questi bisogni che può avviarsi un confronto reale che alimenti consapevolezza e responsabilità di tutti gli attori presenti sulla scena. In questa cornice sono possibili alleanze e percorsi comuni al riparo dal rischio di manipolazioni, ricatti, inutili conflitti.

Le associazioni sono nate ed   agiscono per affermare e garantire prima di tutto il diritto alla cura, a volte sono partite da punti di vista diversi, ma sono saldamente unite dallo sforzo di contribuire a migliorare la qualità delle cure riducendo il disagio e tutte sottolineano gli stessi problemi:

Il carico assistenziale della persona con disagio mentale in rapporto alle insufficienze dei servizi di salute mentale.

La colpevolizzazione che le famiglie vivono in quanto vengono ritenute responsabili del disturbo mentale. Questo modo di vedere  viene alimentato  anche dagli stessi operatori dei servizi.

Il problema della  lontananza dei servizi e della loro discontinuità nei programmi di lungo periodo. I familiari la  giudicano un ostacolo insormontabile ai percorsi della guarigione.

I diritti e le libertà della persona affetta da disturbo mentale, che, quando trascurato, determina l'abbandono e contribuisce all’emarginazione.

Le associazioni richiedono leggi rispettose della dignità delle persone e la disponibilità di risorse e percorsi adeguati per garantire una vita sociale, una casa, la formazione, il lavoro.

Su questi obiettivi tutte le associazioni sono concordi.

 

Le differenze si riscontrano sulla concezione della persona con disturbo mentale.

Per alcune associazioni, una persona "irresponsabile ed incapace", che necessita di tutela, di maggiori automatismi nei trattamenti obbligatori, di tempi di ricovero più lunghi, di riconoscimento per legge di uno statuto di handicap.

Per altre associazioni invece, una persona che deve avere diritto ad una crescita personale, alla sua autonomia, ad una collocazione nella società  attraverso percorsi di normalità. Queste associazioni chiedono anche una maggiore disponibilità del servizio a farsi carico o a condividere le situazioni di crisi, un minore ricorso ai ricoveri obbligatori e l’abbandono di tutte quelle situazioni di costrizione che aumentano la drammaticità dei trattamenti e ne riducono l’efficacia.

Se il forum non può condividere talune soluzioni, proposte caratterizzate da visioni arcaiche e non utili per le persone con disturbo mentale, ritiene in ogni caso di dover operare per affrontare i problemi che le associazioni pongono. Problemi che sono nati sempre e comunque dallo scollamento tra le aspettative di emancipazione e la miseria spesso colpevole  delle risposte.

Anche quando si colloca in modo ostinato in uno scenario conflittuale e di rivendicazione fuori dai servizi o addirittura in lotta con questi, quando rischia di rimanere estraneo alle dinamiche politiche e sociali della comunità l'associazionismo deve essere visto come una spinta alla realizzazione dei servizi territoriali, delle opportunità di cura e più in generale delle politiche relative alla salute mentale.

 Il rapporto tra pubblico, privato e privato sociale

Il 60% dei letti per acuti e post acuti e l’80 % dei letti per cronici sono oggi gestiti in Italia dai privati: cliniche convenzionate le prime, strutture protette del privato sociale le seconde. A questo si aggiunga il 90% degli psicogeriatrici e dei minori gestiti in strutture private del terzo settore. Le convenzioni sono gestite direttamente dalle regioni e dalle ASL in trasmissione diretta burocratico amministrativa. I DSM, troppo spesso voluti inesistenti come responsabili ed organizzatori dei fattori produttivi, sono stati posti al margine di questa enorme area business, che si gonfia sempre di più spinta avanti da amministratori e politici che pensano di guadagnare e gestire consenso facendo leva sul desiderio di sicurezza, di buone cure, di efficienza dei servizi, di concreta solidarietà, aumentando il potere delle istituzioni direttamente scelte dai cittadini e quindi private.

Rimane quindi sostanzialmente critica l’annosa questione del rapporto pubblico/privato/privato sociale. Questo rapporto è sempre difficile e ambiguo, quando si sostanzia come delega o come affidamento di sofferenza non “gestibile” da parte di un servizio pubblico spogliato di ogni potere ad affrontare questa sofferenza nel suo diverso esprimersi, e in particolare nelle cosiddette forme di “cronicità vecchia e nuova”  prodotto di fatto della inadeguatezza della cura e presa in carico da parte dei servizi stessi, più intenti alle funzioni residuali di regolatori del traffico verso i privati che all’esercizio di una funzione cui hanno rinunciato.

Il rapporto con il privato e, particolarmente con il privato sociale, potrebbe invece trovare senso e reciproca utilità quando vincolato fortemente a strategie terapeutiche uniche e sempre governate dal servizio pubblico e soprattutto alla costruzione di un prodotto di concreti diritti. Quando il pubblico smetta di appaltare “strutture” e pagare per rette, ma si confronti con il privato costruendo co-gestione su progetti terapeutico-riabilitativi individuali, che prevedano la corresponsabilità anche della municipalità, come pure tendano a rendere partecipe il soggetto e la sua famiglia.

Ma riteniamo che lo stesso privato sociale deve necessariamente rilanciare una sua sfida, rivisitare regole ed organizzazione, espellere quelle parti di sé disponibili solo a patti regressivi con il pubblico, speculativi e non emancipativi. Riunificare ciò che è stato diviso (cooperative A e B), abbandonare la stagione degli appalti e dell’economia di guerra. Garantire l’applicazione del contratto di lavoro per i/le socii/e, garantire a questi/e formazione e partecipazione democratica alla vita della cooperativa. Ri-organizzarsi su dimensioni di piccola scala e territoriali contro le mega-cooperative. Vincolarsi  a pratiche di sviluppo locale sostenibile. Cimentarsi con la ri-costruzione dei diritti veri (casa, lavoro, affettività) delle persone escluse, delle loro famiglie e della comunità.

Compito improrogabile è quello di rivedere le legislazioni regionali costruendo forti sistemi incentivanti per le cooperative sociali che inseriscono nella loro compagine almeno il 30% delle persone svantaggiate, indipendentemente dalla tipologia dell’oggetto sociale, e disincentivando quelle che non lo fanno. Eliminando così un paradosso che vede nelle cooperative A le uniche organizzazioni del lavoro senza obbligo di inserimento delle persone con disabilità sociale.

Vanno in molte regioni ancora risolte le ambiguità di certe proposte di accreditamento -tese a favorire precipuamente il privato speculativo- che nascondono una delega omissiva da parte del servizio pubblico a quello privato che a sua volta usa la scarsa contrattualità di scelta dei soggetti come vantaggio obbligato alla propria organizzazione.

 

Gli/Le immigrati/e

Ammesso, e non concesso che si possa promuovere la salute mentale con le immigrate e gli immigrati in presenza di una legge come la Bossi Fini che ha nei suoi principi la sottrazione e la negazione di diritti fondamentali, va precisato che il coinvolgimento delle municipalità nella promozione di azioni volte all’integrazione sociale di queste persone è condizione indispensabile.

Le frammentarie conoscenze della psichiatria denominatasi  transculturale non devono servire a trasformare in teoriche osservazioni i prioritari bisogni di integrazione sociale di queste persone.

Oggi appare necessario nella logica dell’”etica dell’accesso” (Saraceno) porre attenzione ai problemi  messi in campo dalle molteplici diversità etniche, religiose, linguistiche, culturali, genetiche… che costituiscono le nostre comunità territoriali. Ciò non significa costruire servizi separati, ma organizzare sempre più servizi accessibili a tutti, che garantiscano accesso alle cure ma anche ascolto, sostegno, scambi, opportunità materiali ed affettive, evitando la medicalizzazione di diverse espressività che non sempre corrispondono a segni di malattia.

4. Il campo sanitario

Le questioni proprie dei servizi di salute mentale si ripropongono con particolare drammaticità in riferimento ai minori, agli anziani, alle persone disabili, ai tossico dipendenti…. Attraversano in sostanza le “aree ad alta integrazione socio-sanitaria” e si ripropongono sull’intero campo del servizio sanitario in Italia.

Nell’area dei bambini e degli adolescenti, così come di nuove patologie delle libertà non si creano servizi interdisciplinari capaci di mettere a frutto quel che una buona organizzazione dei distretti socio-sanitari potrebbe offrire.

Atti legislativi fondamentali hanno definito i livelli essenziali di assistenza attribuendo ai Distretti la titolarità dello stato di salute della popolazione. Lo sviluppo però dei servizi e delle pratiche connesse è stato deficitario: solo in poche Aziende Sanitarie i Distretti si sono strutturati  come servizi “forti”. Servizi cioè in grado di farsi carico della salute complessiva dei cittadini di un’area territoriale, o meglio di una comunità; forti perchè dotati di autonomia tecnico-gestionale, economico-finanziaria e di tutte le risorse necessarie.

Anche laddove i Distretti si sono sviluppati a volte non si sono radicate “buone pratiche” territoriali: i servizi piuttosto che sostenere la persona nel proprio habitat, garantendole livelli di benessere adeguati, hanno  prodotto abbandono e malessere.

Questo malessere ha contribuito a determinare cambiamenti poco significativi nella domanda di salute dei cittadini che continuano a rivolgersi prevalentemente all’ospedale, delegando a questo la responsabilità del percorso di cura.

I dirigenti e gli operatori del Distretto, formati prevalentemente sul modello medico-igenistico e medico-legale, non vedono o trascurano gli elementi di contesto fondamentali nella scelta terapeutica; non attivano quelle reti formali ed informali che, se presenti, possono garantire il raggiungimento di un risultato complessivo; non ipotizzano gli eventuali sviluppi derivanti dal coinvolgimento e dalla partecipazione di altri soggetti nei percorsi di salute; alla fine non immaginando nuove possibilità sono i primi a sentirsi rassicurati dal ricorso all’ospedale.

In questi due giorni di discussione ci aspettiamo molti interventi su questo tema che diano la possibilità di modulare e di articolare proposte per mettere le basi per la costituzione di un Forum per la Salute più ampio ed articolato.


5. Proposte

Non sappiamo come procedere per quanto riguarda le forme organizzative da darci, percependone in qualche misura il bisogno ma contemporaneamente volendo rifuggire da formule già note, avendo insieme l’esigenza di incidere, di differenziare, di non confonderci, di non venire confusi e nello stesso tempo di non escludere dal dibattito.  Consapevoli che il contributo a più intelligenti e adeguate politiche di salute mentale può e deve venire dagli attori più svariati, da pensabili organismi e da impensabili esperienze.

Movimenti molto ricchi sono comparsi sulla scena negli ultimi anni: con essi e ad essi guardiamo con grande attenzione confidando di poterci connettere con il lavoro di una grande intelligenza collettiva.

Una sola preghiera rivolgiamo a tutti: che tanti aderiscano a questo Forum, ma solo se veramente convinti di quanto qui affermiamo, e disposti a praticarlo. Ci impegniamo  comunque a creare occasioni e modi di confronto con chi la pensa diversamente.

Quel che veniamo dicendo costituisce l’identità di questo Forum, che speriamo venga arricchito da mille pratiche, mille idee e mille esperienze, ma che già esiste e in modo imprescindibile richiede, non per arroganza ma per chiarezza, l’adesione convinta a questo documento e l’impegno, per quanto uno può, a portarne avanti i contenuti.


6. Per concludere.

Abbiamo da sempre riconosciuto il grande valore teorico dell’ossessivo richiamo di Franco Basaglia al privilegio delle pratiche e lì ci vogliamo collocare. Vogliamo ribadire il primato della pratica non solo come mero “fare”, ma come produttrice di altra realtà e di altra cultura quando agiamo contemporaneamente sulla struttura materiale delle istituzioni, sul pregiudizio scientifico, sui rapporti di potere, sui legami sociali, quando operiamo per una universalizzazione dei diritti e delle libertà individuali.

A partire da una pratica di deistituzionalizzazione vogliamo affermare che cittadinanza e salute sono inscindibili e un deficit dell’una comporta un deficit dell’altra.

L’elaborazione del mandato sociale come controllo non può che partire dalla tutela e difesa dei diritti delle persone a più bassa contrattualità sociale. A fronte delle universali dichiarazioni a favore dell’inclusione e dell’integrazione sociale, in generale smentite da altrettanto universali e generali politiche, ci permettiamo di voler lavorare per delle pratiche concrete quand’anche singolari che inverino tali principi.

Sappiamo da tempo che nel nostro agire vanno contemporaneamente affrontati i problemi posti dai servizi deputati (loro architettura, risorse destinate, codici di comportamento, proceduralità amministrative, strumentazioni professionali, tipologie, accrediti  ecc. ) unitamente ai problemi posti dai sistemi istituzionali in cui i servizi sono inseriti ( il campo sanitario generale, l’applicazione della legge 328, la più vasta realtà delle istituzioni escludenti, in primis l’immenso bacino degli istituti per anziani e insieme ancora la qualità delle politiche complessive di welfare, le non qualità di uno sviluppo insostenibile, le integrazioni negate).

 Qualità dei servizi, qualità sociale, capitale sociale, sviluppo umano sostenibile, welfare dei cittadini sono questioni non disgiungibili ma che non ci autorizzano mai a scivolare da un problema all’altro, obbligandoci invece a saperle articolare dentro i ruoli specifici, i quotidiani compiti e ancora una volta pratiche coerenti e trasparenti.

In un welfare dei cittadini la persona riprende  una parte di diritti e di potere che gli erano stati tolti o che aveva dato in delega alle istituzioni-mercato. La persona è bene pubblico e fondamento delle istituzioni pubbliche e comincia ad affrancarsi dalla schiavitù dei consumi e richiede indietro il proprio destino, reso mercato  e venduto come prestazione o tecnica.

In un welfare dei cittadini si determina una sorta di “globalizzazione”: la messa in rete del valore della persona, della comunità locale, dell’ambiente, dei prodotti, delle esperienze e dei risultati ottenuti  nell’esercitare il diritto ad occuparsi degli altri. Su questo fronte si deve ritrovare il legame tra servizi e comunità. 

Leggendo la prima lista degli aderenti al Forum, abbiamo trovato il nome di Lorenzo Bignamini, psichiatra ucciso da un altro psichiatra.

Ci siamo impegnati a trovare un modo per ricordarlo, ma finora almeno poter dire che l’esposizione di un operatore, la sua assunzione di responsabilità, il rischio ineluttabile a ciò connesso, resta un valore, il valore connesso al rischio della scelta. Rischio ed esposizione che non vorremmo facessero “un passo indietro” come molti fanno e propongono, ma un passo avanti divenendo rischio e  protezione di un gruppo, di una équipe, di un servizio intero, stile di lavoro collettivo che si fa protezione degli uni e degli altri (operatori ed utenti), sostegno e ragione più forte, contesto di senso, inveramento di motivazioni all’aggregazione.

In realtà null’altro che l’elevazione della soglia di responsabilità collettivamente intesa, congiuntamente agita è ciò che questo Forum a tutti vorrebbe proporre, da tanti ottenere.



La rubrica realizzata in collaborazione con
Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA

http://www.psichiatriabrescia.it


COLLABORAZIONI

Poche sezioni della rivista più del NOTIZIARIO possono trarre vantaggio dalla collaborazione attiva dei lettori di POL.it.  Vi invitiamo caldamente a farci pervenire notizie ed informazioni che riteneste utile diffondereo farconoscere agli altri lettori. Carlo Gozio che cura questa rubrica sarà lieto di inserire le notizie che gli farete pervenire via email.

     
  Scrivi a Carlo Gozio

Carlo Gozio, psichiatra e psicoterapeuta, lavora a Brescia ed è responsabile del Centro Residenziale Terapeutico e del Centro Diurno degli Spedali Civili di Brescia.
Cura per conto dell'Associazione Laura Saiani Consolati il sito www.psichiatriabrescia.it. e le News Territorio di Pol.it

spazio bianco
RED CRAB DESIGN

Priory lodge LTD
spazio bianco

Priory lodge LTD

NOTIZIARIO TERRITORIO"