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Il manifesto pag.12, domenica 28-10-01

FRANCO BASAGLIA UN PENSIERO OLTRE LE SBARRE

Di Maria Grazia Giannichedda

Da qualche settimana in libreria, è già arrivato alla seconda edizione questo primo lavoro monografico su Franco Basaglia pubblicato da Bruno Mondatori ( Franco Basaglia Milano, pagg.328, L.26.000 ) Gli autori, Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, sono due giovani pugliesi che si sono formati a Trieste, dove Colucci continua a lavorare come psichiatra nel Dipartimento di salute mentale e dove pure il filosofo Di Vittorio ha lavorato, nell’area della riabilitazione. I due hanno in comune anche l’appartenenza al gruppo che da diversi anni Pier Aldo Rovatti anima, attraverso la rivista “Aut-aut” e i corsi di filosofia all’università di Trieste, dove già nel 1995 il Laboratorio di filosofia contemporanea aveva promosso, con il Centro Studi dei servizi di salute mentale, un ciclo di seminari sul pensiero di Franco Basaglia (“Follia e paradosso” edizioni E, Trieste 1995) che sono un po’ all’origine di questo libro, voluto dalla Bruno Mondatori per una collana di monografie su figure chiave del nostro tempo.

Colucci e Di Vittorio non hanno conosciuto Basaglia perché hanno meno di quarant’anni. Hanno però condiviso e contribuito a far vivere uno dei luoghi dove sono più espliciti il riferimento a Basaglia e il tentativo di tradurre in pratica la sua cultura. Perciò hanno potuto inseguire Basaglia attraverso i suoi scritti, provando a ricostruire la sua storia e in parte il suo atteggiamento, da un lato con la sincerità e la puntualità di chi vuole sapere cose che non sa ma dall’altro con una consapevolezza speciale, che viene loro dal fatto di misurarsi in pratica con le questioni che Basaglia pone e che lascia in gran parte aperte. L’insolita consonanza culturale tra Basaglia e questi giovani, che viene dalle comuni frequentazioni fenomenologiche, contribuisce poi a rendere ulteriormente comunicanti i loro mondi, pure separati da un tempo in cui le cose sono profondamente cambiate. Il risultato è una bella occasione, oggi tra l’altro particolarmente opportuna, per riflettere sulla modernizzazione recente della società italiana attraverso uno dei suoi protagonisti più originali e incisivi, uno dei pochi rimasti in gioco come riferimento imprescindibile, anche se imbarazzante, per le politiche pubbliche.


La riflessione su Franco Basaglia è molto povera nel nostro paese, è confinata nell’ambito di coloro che gli sono stati o si sentono omogenei, è ignorata nelle università e soprattutto nelle facoltà di medicina. Solo di recente alcune università e scuole di specializzazione hanno promosso seminari sull’ultima raccolta di scritti di Basaglia ( Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina editore, 2000 ), mentre la Società Italiana di Psichiatria ha organizzato lo scorso anno un piccolo seminario a Venezia. Eppure Basaglia è ancora notissimo in Italia: la riforma psichiatrica è comunemente chiamata “legge Basaglia”, tutti sanno che ha chiuso i manicomi e molti hanno un’opinione su questo tema, anche se magari credono che Basaglia fosse un ministro o un deputato. Anche fuori dall’Italia si parla della “riforma Basaglia”, e lo scorso aprile il ministro francese della sanità Bernard Kouchner ha detto di volerla importare. Eppure Basaglia è scomparso ventun anni fa, due anni dopo l’approvazione di una riforma che dunque non certo ha contribuito a governare.

Ma neppure i governi che dovevano farlo hanno governato la “180”, affidata sempre a ministri avversi o indifferenti, se si eccettua la breve stagione della seconda metà degli anni ’90 quando, per la prima e unica volta, il parlamento e la ministro, Rosy Bindi, hanno tentato di governare una sanità ormai comunque largamente in mano ai poteri regionali. Così in questi vent’anni, la riforma psichiatrica è stata gestita soprattutto “dal basso”, se così si può dire, cioè a livello di unità sanitaria locale, di città, di province, a partire da esperienze di esplicita identificazione con le radici basagliane della riforma, con una cultura che per molto tempo è stata di “movimento”, anche quando coinvolgeva livelli dirigenziali amministrativi e tecnici, costretti per così dire all’atteggiamento pionieristico dall’assenza di politiche che aiutassero e legittimassero la transizione.

Negli anni ’90 le cose hanno cominciato a cambiare: c’è stata la famosa finanziaria del ’94 ( primo governo Berlusconi ) che ha imposto la chiusura definitiva dei manicomi, è cessata la guerra di governo e parlamento contro la legge, anzi c’è stato l’impegno già citato del ministero Bindi, e ha cominciato a farsi strada un ceto di tecnici, amministratori, familiari che accettano di muoversi nel quadro della riforma, pur non riconoscendosi necessariamente in culture di stampo basagliano. La prima conferenza nazionale salute mentale che si è tenuta all’inizio di quest’anno non è però riuscita a dare a tutti costoro, e a chi in questi vent’anni la riforma l’ha messa in praticata davvero, dei segnali convincenti di assunzione di impegni verso la salute mentale. Il ministro Veronesi, come forse si ricorderà, ha lanciato il discutibile allarme sui dieci milioni di malati di mente nel nostro paese, riuscendo a far parlare di sé ma a scontentare alla fine tutti.

La riforma psichiatrica è rimasta così “legge Basaglia”, ed oggi si assiste di nuovo, come vent’anni fa, all’uso denigratorio di quest’espressione, con l’obiettivo di squalificare la cultura alle spalle della riforma attribuendo ad essa tutti i mali del presente. A questo atteggiamento sono molti quelli che oggi tendono a reagire con comprensibile fastidio, sottolineando che prima che “padre della 180”, Basaglia è una guida preziosa e attuale per chi vuole continuare ad aprire strade nuove, a far avanzare la ricerca e la trasformazione della cultura, per chi non vuole dimenticare quali siano le poste in gioco - sul piano esistenziale, scientifico, politico e finanche economico - quando si parla di follia e di psichiatria.

Questo è certamente vero, e il libro di Colucci e Di Vittorio è una conferma colta e documentata dell’attualità, della ricchezza e dell’originalità del pensiero e del lavoro di B. Ma questo libro è anche una ricostruzione attenta di come siano stati profondamente integrati, nel pensiero politico e nell’azione di Basaglia, da un lato la ricerca di una pratica fortemente innovativa, che potesse essere “testimonianza che l’impossibile diventa possibile”, e dall’altro la tensione ad allargare l’ambito degli i interlocutori, degli alleati, dei coinvolti nel problema, per produrre cambiamenti di struttura nel rapporto tra istituzioni e persone.
Basaglia non si accontentò di essere un bravo medico che nel proprio micro spazio poteva applicare tecniche nuove e più efficaci. Neppure era interessato a una “modernizzazione senza qualità” : in tutto l’arco della sua produzione, dai primi anni ’60 agli ultimi testi del 1980, Basaglia scompone le diverse esperienze e politiche riformiste che avevano modernizzato la psichiatria inglese, quella francese e in piccola parte quella nordamericana. Dimostra che il manicomio e il dispositivo giuridico dell’internamento, cioè il malato senza diritti nelle mani dello psichiatra, anche se rimpiccioliti, anche se messi alla periferia del sistema, continueranno a colonizzarlo, ad invaderlo, ad essere un buco nero di risorse e di persone, a produrre seppure aggiornati nelle forme, stigma, oppressione, esclusione.
Arriva così a pensare ( per la prima volta esplicitamente nel 1964 ) che si deve realizzare una modernizzazione che distrugga il manicomio e che lo escluda dal sistema delle risposte alla persona che sta male.

Su questa impresa Franco Basaglia si gioca interamente, accettando di compromettersi anche con la sfida del governo, prima come direttore di grandi istituzioni pubbliche a Gorizia, Parma e Trieste poi, nell’ultimo anno della sua vita, come responsabile per la salute mentale di una regione dura ed emblematica come il Lazio, che aveva il più grosso manicomio metropolitano e la metà dei letti psichiatrici privati del paese.
E’ molto istruttivo ripercorrere oggi, attraverso il testo di Colucci e Di Vittorio e poi magari anche direttamente sulle parole di Basaglia, questo suo coerente e ostinato percorso, che già venti trent’anni fa lo rendeva così diverso nel panorama degli intellettuali che affascinavano i giovani e i movimenti. Serve innanzi tutto a riconoscere e a giudicare le diverse forme di modernizzazione che convivono nel nostro paese, relativamente ingovernate anche se spesso già consolidate a livello di regioni, e serve a riflettere su come affrontarle.

Da una di queste modernizzazioni arriva il disegno di legge della deputata di Forza Italia Burani-Procaccini che da un mese ha iniziato il suo percorso alla commissione affari sociali della camera. Non si tratta affatto di un ritorno a prima della riforma, al regime medico-liberale di inizio secolo, siamo semmai alla fase precedente, quella dei grandi recinti assistenziali, che qui diventano una rete di “strutture residenziali con assistenza continuata”, cinquanta posti letto ciascuna, per giovani dai 14 ai 25 anni, per adulti e per anziani, “almeno 80 letti ogni 100 mila abitanti” tra pubblici e privati. La logica di questa rete non è l’intervento di cura ma l’“assistenza terapeutica”, che verrebbe erogata, “in regime volontario od obbligatorio”, ai malati “gravi e pericolosi per sé e per gli altri” e a quelli “destinati all'ospedale psichiatrico giudiziario”. Anche sul piano delle garanzie formali il malato è meno tutelato in questo progetto che nella legge del 1904 : si guardi ad esempio il “trattamento obbligatorio d’urgenza”, dove uno psichiatra, da solo, su richiesta di “chiunque abbia interesse”, ha il potere di sottoporre a cure obbligatorie per 72 ore una persona che presenta “alterazioni psichiche tali da arrecare danno a sé stessa o a terzi” o anche che sia “affetta da patologie fisiche che rifiuta di curare”.

Quale spazio può avere nella società di oggi una modernizzazione come questa? Apparentemente non molto, se si guarda alle reazioni che sono state messe in moto e che provengono anche da quei settori riformisti non necessariamente basagliani di cui parlavo prima. La Società italiana di psichiatria ha fatto un documento netto e chiaro di dissenso dall’ipotesi di rimettere mano alla legge, le più importanti ed attive associazioni di familiari, Unasam e Diapsigra hanno subito preso le distanze, come hanno fatto del resto nella seduta della scorsa settimana alcuni deputati di Alleanza Nazionale della Commissione affari sociali. Il ministro della salute Sirchia e il sottosegretario Guidi tacciono, sebbene sollecitati dalla deputata Procaccini, che continua a essere la sola firmataria del disegno di legge, come resta solo il deputato Cè della Lega Nord autore di un progetto analogo.

Non mancano però gli interessi ai quali una modernizzazione come questa può far comodo. Sono ad esempio quelli dei proprietari dei tristi cronicari psichiatrici che la regione Sicilia sta già finanziando, travestiti da clinica privata, novecento letti solo nella provincia di Catania, sessanta miliardi all’anno. Per non parlare del privato sedicente sociale che abbonda nel Sud ma non manca in Lombardia, Piemonte, Emilia, Veneto, dove gestisce strutture intermedie che sono già piccoli manicomi, per malati di mente, per anziani, per ragazzini con problemi.
Rileggere Basaglia oggi aiuta ci aiuta a ricordare che non è mai finita, e forse a ritrovare quel “gusto delle contraddizioni”, che, come dicono Colucci e Di Vittorio, era un tratto della personalità di Basaglia oltre che una sua scelta.

Rubrica realizzata in collaborazione con

Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA
http://www.psichiatriabrescia.it

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