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SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA - MILANO
GUARDIA SECONDA

CLINICA PSICODINAMICA NEL LAVORO ISTITUZIONALE

DISCUSSIONE SUL CASO

Dr. Viganò

Lasciamo subito a voi la parola, sia per porre delle domande di precisazione, sia per fare commenti. Rilancerei l'ultima affermazione fatta dal dr.Iraci sulla creatività per allargarla non solo alla equipe curante ma al soggetto stesso. Questo soggetto, infatti, in modo molto didattico, andrebbe messo su tutti i manuali per far capire come l'individuo, a certe condizioni, è creativo e, a certe altre, si destruttura in modo radicale fino ad intaccare il proprio corpo. Va interrogato che cosa può permettere al soggetto di costruirsi anche solo dei sintomi positivi e che cosa invece lo mette nella condizione di regressione totale.

Vorrei ora aprire un dibattito che è un po' particolare, non solo per il tipo di storia, ma anche per come il dr. Iraci l'ha posta. E' estremamente facile intervenire al livello clinico abituale, di diagnosi-terapia. Le osservazioni che io chiederei interrogano proprio la struttura del soggetto che parla, produce, disegna, fa qualcosa. Che cosa sono tutte queste cose che fa nel periodo di benessere? Non sono evidentemente delle stabilizzazioni perché è sensibile come al primo soffio di vento; se le condizioni ambientali mutano si verifica, infatti, questa ricaduta in una regressione che presenta certe sue caratteristiche ( l'iperattività, la tipsomania, ecc.)

Saccorelli

Questo racconto, io lo intendo così: ad una condizione patologica di questa paziente si sovrappone, in questo lungo percorso, una patologia iatrogena. Nel momento in cui le cure vengono sospese, interrotte, ecco che riaffiora, si manifesta questa creatività, sia nel gruppo dei curanti, sia nella paziente. Il dibattito sulla patologia della paziente è piuttosto problematico perché non si sa che dire; quello che sembra più interessante e del quale si hanno maggiori dati è infatti proprio la patologia dei curanti, dell'istituzione, non della paziente.

Anna Barracco

Vorrei ringraziare il collega per questo caso, secondo me, straordinario. Ne abbiamo visti tantissimi di questi pazienti che espongono più o meno chiaramente lo scacco, l'impasse, la cronicità. Quando abbiamo preparato il caso era venuto fuori più di quello che è stato detto oggi e cioè la sua prospettiva, il suo punto di vista del conflitto tra SPDC e CRT in un momento di grandi problematiche sovrastrutturali, cioè la riorganizzazione delle USSL. E' quello che succede spesso in questi casi; cioè, laddove il soggetto viene a mancare (mi colpiva il fatto che il collega abbia utilizzato moltissimo il significante "recuperare"), c'è il segno del voler recuperare questo soggetto, al di là di tutte le altre soggettività che poi si sovrappongono, come conflittualità, come decisione di chi deve farsi carico, di chi ha ragione. Un altro dato che è mancato è quello dove si diceva che il CRT alla fine si sovrapponeva alla famiglia, nel volerla proteggere (con le inferriate alle finestre, ad esempio). Noi l'anno scorso abbiamo redatto un volumetto per le scuole in cui si insegna che non si devono mai usare due farmaci dello stesso gruppo; oppure che l'SPDC deve essere un luogo dove anche la contenzione dovrebbe tendenzialmente scomparire. Qui ci troviamo di fronte a una persona che è stata contenuta per due anni. Quindi rovesciamo la questione: io credo che anche il collega, se si fosse trovato dall'altra parte, quando si è parlato del caso di quella paziente ricoverata 100 volte, con la madre con i sassi in tasca÷ Che cosa fa sì che ad un certo punto vacillino?

Si creano davvero dei buchi per cui alla fine essere veramente soggettivi, voler recuperare un filo, diventa una fatica e un impegno tali, che alla fine si collude con questa follia. Bisogna trovare quali sono i processi di questa psicotizzazione, di questa incapacità di comunicare anche tra di noi.

Dr. Iraci

Vorrei aggiungere due cose; per quanto riguarda l'aspetto farmacologico, l'escalation farmacologica fa sicuramente parte di un processo delirante terapeutico, tanto più quando la paziente, nonostante la terapia, chiede la flebo e la contenzione. Forse la domanda da porsi riguarda la possibilità di tentare altre strade terapeutiche.

Sul discorso degli aspetti di conflittualità, questo è un problema molto spesso presente fra le istituzioni (non a caso io dovevo muovermi a casa d'altri, al CRT, dovendo mediare i conflitti tra infermieri delle due istituzioni, ad esempio). Non ha senso porsi in modo simmetrico, è bene cercare sempre una mediazione.

Donatini

Vorrei tentare di spostare il discorso verso una interpretazione clinica rispetto a quello che sta succedendo a questa ragazza. Questa è una paziente che conosco; più volte è stato detto della richiesta di contenimento che ricordo molto bene, evidente anche nel fatto che Lorena si senta meglio in reparto che non in una struttura aperta come il CRT. Pensavo se per analogia fosse possibile associare questo alla funzione di contenimento che può avere una norma, mi viene in mente l'esempio del bambino che sta meglio quando qualcosa gli viene imposto senza avere la possibilità di scegliere. Questo bisogno di Lorena di essere contenuta fisicamente, in quanto è più difficile raggiungere il piano simbolico, può essere pensato come quel contenimento di cui necessitiamo tutti sotto forma di leggi, come funzione paterna. Si ritorna tangenzialmente al discorso che si faceva dell'SPDC e del CRT, della differenza tra questi due luoghi: i luoghi ad alta protezione sono in un certo senso più rassicuranti, i pazienti si tranquillizzano quando arriva la polizia o quando vengono portati in reparto.

Dr. Viganò

Ci sono due assi della discussione di questo caso:

  • quello fino ad ora più trattato e cioè quello iatrogeno o della patologia dell'istituzione;
  • l'altro è quello che stava evidenziando Donatini.

L'asse clinico è evidenziabile sicuramente nell'esordio. Vorrei provare ad insistere un po' sulla linea di Donatini, dando almeno un abbozzo di costruzione dell'asse clinico per vedere poi se l'istituzione viene ad embricarsi con la clinica

C'è modo e modo di intendere la contenzione: quella dell'infermiere che contiene o quella dell'ambulanza sono l'unica possibilità di una legge, di un Padre? o c'è qualcosa di più interiorizzabile da un soggetto, per quanto psicotico esso sia? L'inizio è stato ricostruito per iniziativa di Iraci qualche mese fa; per venti e più anni nessuno ha mai saputo, per esempio, del suo delirio di contaminazione. Se si parte da lì si vede che c'è una invasione di questo soggetto prima nella propria intimità sessuale, poi nella creatività artistica e lavorativa, che vengono contaminati da qualcosa, da un Altro cattivo e maligno, fino a che tutto diventa nemico. A questo si aggiunge un particolare di questo ambiente familiare, tutto sommato normale, che è dato da un tratto paterno; il padre, infatti, nel pieno della regressione della figlia, fonda una associazione di parenti che assume sul territorio molto potere, in senso violentemente anti-istituzionale (attraverso denunce alla USSl, per esempio).

In quel periodo il padre stesso chiede e ottiene di tenere chiusa e legata per quattro anni e mezzo la figlia nell'SPDC, nonostante la lotta condotta nel territorio. C'è quindi una manicomializzazione di una struttura non manicomiale attraverso l'aspetto contentivo e il livello di regressione raggiunto. Si tratta di un padre che militava un po' ambivalentemente contro il fatto che i manicomi fossero stati chiusi, senza che ci fossero le strutture adeguate, intendendo evidentemenete quelle che c'erano prima.

Il secondo aspetto non detto è sempre relativo al padre che da vent'anni tiene un diario in cui osserva dettagliatamente tutte le modificazioni quotidiane di sua figlia (ricorda il modo in cui Kraepelin studiava i casi per scoprirne la processualità specifica a partire da una serie di modificazioni di indici fenomenologici stabiliti). Non si conosce il motivo di questa osservazione minuziosa, né quale ne sia l'obiettivo. C'è stata una vera e propria manicomializzazione che ha azzerato certi aspetti della creatività del soggetto che si è risvegliato dalla fase manicomiale, nel CRT, con questo trattamento umanitario, proprio delle comunità attuali (socializzazione, amicizia con il personale, gite, ecc.), con una specularità tra la conflittualità all'interno del gruppo curante e quella che si risveglia a livello immaginario nel soggetto, che diventa una sorta di barometro del benessere della equipe. La riabilitazione attuale si è costruita sulla tabula rasa circa l'esordio, la persecutorietà, dando un prodotto che rimane così dipendente dalla equipe, oppure la riabilitazione può andare a riprendere qualcosa di più della struttura originaria del soggetto, della sua persecutorietà e quindi anche della creatività originaria, non come risposta speculare? Questa è una grossa questione.

Pilutti

Sono d'accordo innanzitutto con quanto si è detto circa la difficoltà di curare le persone all'interno dell'istituzione. Varie volte si è parlato di psicoterapia familiare (9 anni con tre sedute settimanali) in Svizzera. Presumo fosse una psicoterapia psicanalitica, viste le scadenze, non sistemica. Volevo chiedere se anche i due fratelli erano presenti a queste sedute o meno, che ruolo avevano, se hanno avuto in passato qualche ruolo all'esordio della patologia e, ultima cosa e più importante, cosa hanno compreso i due genitori della patologia e sofferenza della figlia, in nove anni di terapia.

Dr. Iraci

I fratelli sono presenti; uno, il fratello maggiore (che è il secondo, perché è lei la primogenita), viene considerato lo psicologo, quello che dà tutte le spiegazioni. Massimo, infatti, di tanto in tanto in alcune sedute di gruppo al CRT, si sedeva vicino alla psicologa e le spiegava quello che faceva Lorena e il motivo. Era estremamente interpretativo su tutto quello che accadeva. L'altro, nei confronti del quale Lorena ha da sempre avuto un atteggiamento molto materno, è l'unico che è riuscito ad uscire da quella casa, si è sposato, ha la sua famiglia; sembra quello meno coinvolto dalla questione. Sul discorso della terapia della famiglia, la mia formazione è di tipo sistemico e io non ho mai visto tre volte alla settimana una famiglia; che si tratti di una psicoterapia di tipo psicodinamico, di orientamento psicanalitico, faccio fatica a crederlo nel senso che se il risultato è questo, dando fiducia al tipo di intervento, allora chissà cosa dovevano essere prima questi genitori! Il padre molto spesso esordiva gli incontri che aveva con me domandando di spiegargli cosa avesse sua figlia. Il rapporto tra questi due genitori è molto particolare: lei è una donna portatrice di emozioni, sempre inquieta, insicura; lui è la parte complementare, razionale, preciso, ossessivo. Ha già avuto peraltro due o tre infarti, segno che da qualche parte paga questa sua estrema lucidità.

Intervento

Vorrei porre questa domanda così aperta, se cioè questa è una paziente simpatica o no. Mi interrogavo sul discorso del controtransfert negativo che ho la sensazione che questa paziente abbia abbondantemente passato, tanto da diventare una di quelle pazienti incurabili, croniche. Il mio interrogativo è spostato su che terribili cose ha dentro di sé Lorena, tanto da non poter ottenere uno spazio relazionale con qualcuno, con un operatore specialista. Il sogno raccontato è in fondo un sogno emblematico perché la paziente affermava di aver sognato uno psichiatra che le diceva di stare zitta, oltre alle altre persone presenti. La paziente porta qui il fatto che le hanno detto tutti di non parlare mai. "Di che cosa?", mi chiedo.

Dr. Viganò

Noi per la prima volta la facciamo parlare in questa occasione. Comunque, questo intervento è molto importante.

Intervento

Ascoltando questi ultimi interventi, penso che non sia esatto parlare di patologia dei curanti o iatrogena, perché mi sembra che tutti questi elementi suggeriscano un quadro diverso; si sta facendo un discorso clinico sulla paziente, non si sta parlando di un'altra patologia di altri soggetti. E' la storia di un tentativo di curare una paziente laddove il soggetto malato non è tanto lei, quanto il nucleo familiare intero, sulla base di un fraintendimento, e cioè che i curanti prendono per buone la diagnosi e le terapie che il padre propone. Questo è ciò che porta ad assistere poi a delle misure terapeutiche che fanno pensare ad una patologia dei curanti.

Dr.Viganò

Sono d'accordo con lei.

Intervento

Vorrei esprimere una mia perplessità senza criticare nessuno. Questo è un caso emblematico dove abbiamo una diagnosi correttissima del padre, di ambivalenza paterna. L'unica osservazione che non abbiamo è quella della paziente; allora io mi domando come mai siamo però capaci di diagnosticare il padre e le istituzioni. Qui il problema mi sembra che consista nel fatto che non parliamo la stessa lingua, noi psichiatri per primi. Chi ha avuto in carico questa paziente fin dall'inizio ha fatto tutto tranne che dare una osservazione di Lorena. Abbiamo una matrice teoretica comune sulla quale discutere, creare un progetto, concepire la riabilitazione. Non esiste un registro comune sulla base del quale fare un progetto; come possiamo pretendere che quelli del CRT siano d'accordo con noi se non siamo d'accordo sulla base? Noi siamo bravissimi a trovare il problema nella famiglia o nelle istituzioni o nei farmaci, senza considerare che si hanno tutta una serie di indicazioni e controindicazioni per i farmaci stessi, ma non sappiamo nulla di quello che provocano a lungo termine perché le uniche conoscenze che abbiamo provengono dalle industrie farmaceutiche. Sull'osservazione fenomenologica, almeno, bisognerebbe avere un modus operandi comune, al di là dei diversi punti di vista che ognuno può avere. Noi stiamo dimostrando che in realtà ci allontaniamo dalla malattia mentale, dando le colpe alle istituzioni, ai farmaci, ecc. Potrebbe essere che in questo caso il padre abbia avvertito anche questo aspetto. Però diciamo che lui è ambivalente÷.

Dr. Viganò

Sono completamente d'accordo con quello che dice; le chiedo perché parla di mancanza di un registro comune quando mi sembra che questo caso dimostri che manca un registro di osservazione sufficientemente dettagliato e approfondito. Che il padre abbia sostituito questa osservazione che nessun altro faceva, mi sembra un'ipotesi interessante. Vorrei sapere se lei sarebbe d'accordo nel dire, non tanto che c'è conflitto, che non c'è un comune linguaggio tra le osservazioni, ma che non c'è linguaggio.

(Lo stesso) ÷.Leggevo a proposito della fenomenologia della psicopatologia, concetti come quello di empatia per entrare nella malattia mentale, come atto indispensabile per descriverla e poter andare avanti. Non è l'unica cosa da fare, ma costituisce la base; poi si possono fare progetti, adottare altre chiavi di lettura, si può rendere comunicabile la paziente. Manca completamente l'osservazione che secondo me è il primo atto indispensabile per fare un discorso di integrazione, di progetti personalizzati.

 

 

Prof. Freni

Avevamo visto proprio due settimane fa un caso molto simile; devo dire che questi casi, quasi tutti i servizi ce li hanno, e devo anche dire che mi preoccupano molto di più quei casi silenti di pazienti che si presentano una volta al mese e poi se ne vanno, non visti, perché, probabilmente, lì la collusione con queste procedure è molto più efficace, mentre questi, in qualche modo, conservano una vitalità, una protesta che proviene da qualche parte e che li fa diventare poi il caso della equipe. Però, se vogliamo fare un discorso di integrazione dobbiamo stare attenti. Innanzitutto, questa è una storia di 20 anni. Vent'anni fa questi discorsi non correvano molto; la pratica psichiatrica era abbastanza banalmente poggiata sulla terapia farmacologica. E' stata la fase in cui i vari paradigmi erano in guerra tra di loro; di integrazione qualcuno cominciava a parlarne, ma ancora non era ben intesa. Non che oggi lo sia molto di più, perché tutti oggi parlano di integrazione, crediamo di sapere cosa sia ma invece è un concetto complesso, una pratica che richiederebbe un'alta competenza professionale, molta umiltà e una capacità di rispetto, non solo dei pazienti ma tra colleghi e partecipanti al sistema della cura. Cosa dire? Quello che abbiamo detto nelle settimane scorse per quell'altro caso, cioè che siamo davanti ad una situazione di una paziente che non è che non sia stata vista o iatrogenizzata dall'istituzione, ma è stata vista con un'ottica via via diversa. E' vero che fino ad una decina di anni fa si davano tre o quattro neurolettici; è da poco che si dice che non va bene. Quindi, ricontestualizziamo il discorso: dobbiamo ripristinare le coordinate spazio-temporali, relazionali e fare gli epistemologi della situazione. Il problema è cosa noi, nell'attualità, possiamo fare di questa paziente, grazie all'esperienza passata e a quella che oggi sappiamo e siamo disposti a sapere. Allora è qui, mi pare, il problema: quando noi vediamo una paziente del genere, come la concettualizziamo, ciascuno di quelli che la vedono? E' stato detto "psicosi cronica"; siamo convinti che si tratti di una cronica, che significa che pensiamo che non possa essere messo in atto un processo di restituzione, di guarigione, ma, tutt'al più, possiamo pensare ad un adattamento, ad una prevenzione terziaria, affinché la cronicità non produca ulteriori danni? Allora, a questo punto, che senso hanno i vari passi che andiamo a fare? Col senno di poi, questi casi ci aiutano ad affrontare i nuovi casi. Oggi, per fare una buona psichiatria, è opportuno, sulla base di quello che ci insegnano questi casi, non fare come è stato fatto da vent'anni a questa parte con questa paziente. Quindi va considerato il piano fenomenologico come piano osservazionale comune; su questa base possiamo cominciare a ragionare in termini di integrazione. Ma che cosa integriamo? Se c'è uno psichiatra che pensa al sintomo nei termini di un disturbo di una struttura biologica che va restaurata (quindi il farmaco come elemento di correzione di una alterazione metabolica, ripristinata la quale il soggetto guarisce), come può integrarsi con un altro psichiatra che pensa che il sintomo abbia un significato, una sua logica interna che va compresa ed interpretata? Il primo psichiatra, infatti, spegnerà il sintomo e con esso anche il discorso che può trascinare il sintomo stesso. Quindi il linguaggio comune presupporrebbe una concezione del disturbo abbastanza condivisa, cosa che non è.Anche all'interno dello stesso paradigma, per esempio quello degli psichiatri biologisti, non c'è una condivisione comune dell'interpretazione del modello da applicare. Anche all'interno di una stessa scuola di pensiero non ci sono dei modelli condivisi su come intendere un determinato disturbo. L'unico piano su cui possiamo tentare di realizzare l'integrazione è quello pratico, che ci costringe ad abbandonare i pregiudizi personali, di scuola, delle ideologie, stando sul piano dell'evidenza clinica, come unico criterio e su quello della verifica delle ipotesi. Se un'ipotesi non funziona, infatti, bisogna cambiare. L'integrazione teorica non esiste, è impossibile allo stato attuale, ma è assurdo pensare di curare una persona senza la possibilità di una integrazione, almeno sul piano pratico, che ci viene richiesta dalla complessità della psicosi. Quel poco che si sa va verificato passo dopo passo; la prima cosa, quando vediamo un paziente, è che idea, che teoria di lui ci costruiamo e sulla base di questa, per tentativi ed errori, verifichiamo le varie ipotesi che emergono. Per esempio, ci possiamo chiedere se questi due genitori sono genitori che possono tollerare eventuali sentimenti di colpa relativi al fatto che la patologia della figlia possa essere derivata da una cattiva educazione. Questo giudizio serve a verificare se possiamo contare su di loro come alleati o se, invece, saboteranno qualsiasi piano di cura. Personalmente ritengo che questi genitori non tollerano la colpa, soprattutto il padre. Allora bisogna pensare a come neutralizzare il sabotaggio che metteranno in atto, perché essi devono poter dimostrare che nessuno può fare ciò che non hanno saputo fare loro. Un altro punto consiste nel pensare sulla base della valutazione psicopatologica se ci siano probabilità di guarigione; se pensiamo di sì, che tipo di farmacoterapia può funzionare in questa prospettiva, quale approccio psicoterapeutico? La prima cosa che si richiede è la competenza, molto ampia, poi la libertà da pregiudizi e infine una grande umiltà (cosa che noi psichiatri non abbiamo, perché siamo molto presuntuosi).

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