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SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA - MILANO
GUARDIA SECONDA

CLINICA PSICODINAMICA NEL LAVORO ISTITUZIONALE

PRESENTAZIONE DEL CASO

A cura di Francesco Giglio

1) Il contesto

I colloqui con A. si svolgono in un ambito istituzionale privato, e precisamente in un centro diurno per tossicodipendenti. Si tratta di un servizio definito di "bassa soglia" che s'inserisce nell'approccio della "riduzione del danno". Nelle istituzioni così orientate l'astinenza da sostanze psicoattive non è condizione posta come vincolo per l'accesso al trattamento, questa particolarità si traduce nel fatto che sono accolti anche utenti in "terapia metadonica" presso i Sert, così come persone che, almeno per un periodo iniziale, continuano a far uso di sostanze psicotrope. Il primo contatto dell'utente con il centro diurno è stabilito a partire da una pluralità di domande, connesse in modi diversi all'uso di droghe o di alcool; possono giungere al servizio eroinomani ventenni senza fissa dimora, ma anche trenta - quarantenni con alle spalle una carriera poliennale di comunità e di carcere, cocainomani a volte molto giovani e con gravi situazioni giudiziarie, ma anche lavoratori che riescono a conciliare lavoro e cocaina, alcolisti di ogni età, come pure persone con problematiche psichiche diverse, che si dichiarano a vario titolo "tossicodipendenti", e che spesso cercano soprattutto di alleviare in qualche modo la loro condizione di solitudine e d'isolamento, non mancano domande la cui motivazione essenziale è fondata sulla possibilità di poter svolgere un programma alternativo alla detenzione carceraria. Gli utenti possono prendere contatto con il centro diurno autonomamente o anche essere inviati dai Sert territoriali.

La fase iniziale è informativa e valutativa, normalmente si esaurisce in un breve ciclo di incontri con il soggetto, solitamente da due a quattro; a volte questo primo momento è integrato con le informazioni e i risultati dei test diagnostici trasmessi dai Sert. Al termine della fase di valutazione può accadere che sia proposto al richiedente l'inserimento nel centro diurno, oppure l'inserimento in una comunità residenziale, o ancora può accadere che si proponga il contatto con un servizio differente che appare però più adatto ad affrontare i particolari problemi evidenziati dai colloqui preliminari. Il centro diurno è organizzato in modo da proporre diverse attività, che si svolgono tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, dalle nove del mattino alle diciassette del pomeriggio. I programmi di frequenza sono individualizzati e differenziati, l'utente è invitato fin dall'inizio a farsi parte attiva, a partecipare alla costruzione del proprio programma che sarà concordato con un operatore e poi costantemente monitorato. La riunione d'équipe settimanale è l'ambito decisionale cui partecipano tutti gli operatori del servizio.

Dopo la fase valutativa eventuali ulteriori colloqui individuali con lo psicologo sono fatti esclusivamente se richiesti dall'utente.

 

 

2) Il caso

Vedo A. a partire dai primi di giugno del 1998, chiede un inserimento nel centro diurno. La domanda d'aiuto poggia su di una difficile fase che A. sta attraversando, mi parla di solitudine, d'isolamento e di una grave ricaduta nell'abuso d'eroina. A. è un uomo di 35 anni, dice che ha iniziato a lavorare a quattordici, a quindici ha incontrato l'eroina, con questa droga ha ormai un rapporto ventennale anche se discontinuo, con poliennali pause di non utilizzo. Vive con il fratello maggiore e con la madre (il fratello è alcolista, il padre non viene neppure citato nel primo incontro, in seguito affermerà che non ne aveva parlato perché è una figura poco importante). E' sieropositivo, l'ha scoperto nel 1997 ed ha ottenuto una pensione che gli consente una certa autonomia economica, si è rivolto al centro diurno spontaneamente. Ha avuto un precedente contatto con il servizio nel novembre 97, quando ha partecipato ad un gruppo di auto aiuto per persone sieropositive condotto da alcune operatrici del centro. Lamenta il fatto che da tre mesi è tornato ad un uso massiccio di eroina dopo che, afferma, la compagna con cui stava da otto anni (C.) lo ha lasciato; la strumentalità dell'abuso di droga da parte di A. salta all'occhio con particolare evidenza da episodi come questo.

A. inizia il programma presso il centro diurno, da subito interrompe l'uso di eroina, e dopo pochi giorni su sua richiesta cominciano i colloqui individuali.

Durante il colloquio parla della sua compagna C., piange, dice che la situazione è insopportabile, che C. (studentessa universitaria, 31 anni, educatrice di strada) lo ha lasciato dopo otto anni. A. racconta: "Mi ha detto che vuole darsi un'altra possibilità, che non vuole più stare con me perché si è innamorata di uno psicologo della LILA, uno che le fa supervisione, adesso dice che è un problema anche il fatto che sono sieropositivo". Descrive la loro relazione che appare logorata dall'uso di eroina, mi parla dei suoi sforzi per smettere e delle più recenti ricadute, con C. accanto sempre più stanca e insofferente. Si descrive unicamente come vittima, sembra mancare qualsiasi sospetto circa una propria parte attiva nelle sue vicende esistenziali, l'aspetto, il tono, l'atteggiamento sono molto dimessi. Due sono le modalità con cui A. tipicamente si propone: da un lato l'atteggiamento estremamente triste di questo colloquio, e dall'altro un modo iperattivo fatto d'azione senza riflessione; la circolarità e l'alternanza fra i due modi di comportarsi di A. attraversano sia i suoi racconti sia la sua partecipazione a tutta la serie dei nostri colloqui.

Nel colloquio successivo mi dice: "Sono uscito sabato con C., mi ha detto che sono la persona più importante della sua vita, però è innamorata dello psicologo della LILA". A. aggiunge che ha fatto richiesta alla LILA per partecipare ai loro gruppi per sieropositivi e che, per accedere a questi gruppi, deve sostenere dei colloqui preliminari proprio con lo psicologo di cui è innamorata C.. Egli si dichiara indeciso sul da farsi e descrive come casuale l'incontro con il suo "antagonista". Ci soffermiamo sulla questione ed emerge il fatto evidente che l'incontro non è per nulla casuale ma fortemente voluto, tanto più che i gruppi di auto aiuto per sieropositivi sono attivi anche nel centro diurno. A. ne ha parlato anche con C. che non lo ha ostacolato: "Non pensare a me e fai il meglio per te" è stato il suo commento. La tonalità emotiva di A. è ancora fortemente depressa; con le lacrime agli occhi si dichiara impotente "io non posso competere con lui", chiama in causa la sua tossicodipendenza e la sua sieropositività, appare talmente determinato a farsi male che mi viene il dubbio che il vero fine, nella richiesta fatta alla LILA, sia quello di farsi umiliare dal suo "avversario". Gli comunico quest'ipotesi e concludo il colloquio.

Lo rivedo la settimana successiva mi dice che ha deciso: andrà all'appuntamento con lo psicologo della LILA, parla di C., lei lo ha lasciato ma si sentono e si vedono molto frequentemente. Dice di aver ripreso a fare un uso massiccio d'eroina quando ha sentito che lei si era allontanata. Insiste sul fatto che fare i colloqui alla LILA è qualcosa che vuole fare per se, così com'è per se che frequenta il centro diurno "Voglio ritrovare nel bene e nel male il vero A" afferma. Ha scoperto di essere sieropositivo nel 1997, su questo punto non si sofferma, sorvola con naturalezza come se fosse completamente irrilevante. Questa assenza di parole sull'argomento AIDS che pure lo tocca così da vicino mi lascia perplesso, mi chiedo se, riguardo a questo aspetto, si possa ipotizzare che siano attive le difese maniacali dell'onnipotenza e della negazione proprie della depressione.

Il 25/8/98 ci vediamo per la prima volta dopo l'interruzione estiva. Appare sereno; mi dice che ha passato del tempo a casa di C. e che in due giorni diversi ha fatto l'amore con lei ma che la seconda volta che è successo lei, poi, ha pianto tutta la notte. C. gli ha ripetuto che non lo ama più, di non contare su di lei e ha anche deciso che è meglio che non si vedano più. A. si dice confuso da questa situazione nella quale, afferma: "C. dice una cosa e poi ne fa un'altra". A. nel frattempo ha anche iniziato a frequentare i gruppi della LILA.

A partire dal colloquio successivo s'introduce una nuova scansione, finora al centro dei suoi pensieri c'era C., ora sembra vi sia più fiducia nei miei confronti ed una maggiore disponibilità a portare ai colloqui anche altre questioni. Mi racconta un frammento di un sogno: "C'è un canalone lungo e stretto pieno di fango e di sangue, mi sento sporco e impaurito, vedo persone nude in particolare tre uomini nudi in fila uno sopra l'altro, uno sono io, stiamo facendo del sesso". Lui è molto colpito dal sogno ed anche a me sembra vi sia qualcosa di molto importante. Gli chiedo di dirmi liberamente ciò che gli viene in mente e lui inizia a parlare di una vicina di casa, di lei ricorda in particolare il baby-doll, afferma che questa lo ha sedotto quando aveva circa dodici anni. Ci soffermiamo sull'episodio ma un altro ricordo più antico e più confuso si fa avanti, collegato alle sensazioni di sporco e di paura: ricorda vagamente che quando aveva meno di sei anni uno zio, forse lo ha violentato, non ne è certo, ricorda confusamente di essere rimasto solo con lui in campagna di aver chiamato aiuto senza che nessuno venisse. In particolare prova del risentimento nei confronti della madre (aspetto questo piuttosto peculiare per la sua risonanza edipica) la ritiene colpevole per non essere accorsa ai suoi richiami. Lo zio oggi è morto. Questi ricordi lo colpiscono e lo sorprendono, sembrano in qualche punto legati ad un senso di colpa inconscio dal quale è solito fuggire utilizzando eroina o alcol, sostanze che "possono produrre..... un congelamento del discorso" (C. Viganò, 1998) e che gli permettono di tenere chiusi in una sorta di frigorifero gli affetti connessi a quei ricordi. Parla anche di continui episodi di botte e maltrattamenti, subiti in particolare dalla madre. In questa parte di vittima sacrificale sembra non essere estranea una presenza di piacere, di godimento mortifero che provoca lo scacco dello stesso A.. E' una veste quella del martire che A. indossa da lungo tempo, e che sembra confezionata dalla famiglia, in particolare dalla madre, su misura per lui; è un ruolo dal quale non può prendere le distanze. Mi sembra non sia assente in tutto ciò un elemento di tipo masochistico, riferibile al fatto che il godimento del corpo nella violenza, benché involontario, è provato dal soggetto, e ciò è inevitabilmente traumatico.

La settimana dopo è ancora vivo l'eco dell'ultimo colloquio, A. torna sull'episodio di seduzione da parte della vicina di casa e aggiunge che in seguito sempre in quel periodo, (aveva circa dodici anni), ha avuto in due distinte occasioni rapporti sessuali con le due sorelle, maggiori di tre e quattro anni. Durante il secondo di questi rapporti, la madre lo ha scoperto insieme alla sorella. A. Rievoca l'umiliazione di quest'episodio, afferma che la madre ha attribuito esclusivamente a lui la responsabilità di ciò che era accaduto, lo ha picchiato duramente: "Mi ha spezzato la cintura sulla schiena" Dice, e da quel momento era stato emarginato dalla famiglia. Per quanto riguarda la sua vita sessuale attuale, si sofferma su un insieme di fantasie che gli appaiono piuttosto incomprensibili: se una donna prende l'iniziativa nei suoi confronti, se come lui dice è una "donna attiva", durante l'atto sessuale si scopre a disprezzarla e non può fare a meno di pensare di lei che è una "troia", se invece è lui a prendere l'iniziativa e lei è compiacente incontra di nuovo il disprezzo misto ad aggressività, in questo caso s'imbatte in un pensiero che descrive come "Finora ho pagato io adesso paghi tu" Ed ancora "Sei una troia". Tutto questo gli appare molto strano "Eppure sono disinibito" Afferma. Il risultato è che l'atto sessuale è per A. sempre connesso ad un'attitudine al disprezzo. Vi è la sovrapposizione di una componente dell'odio (il disprezzo appunto) su un'azione propria dell'amore.

"Mi do le martellate sulle palle non riesco a capire, domenica mi sono ubriacato, ho fatto il matto". Con queste parole apre il colloquio successivo, poi mi racconta l'episodio, dice che C. sta preparando un esame e gli ha detto che non avrebbero potuto vedersi per il fine settimana, lui che solitamente le telefona prima di andare a trovarla questa volta, con una scusa, è andato direttamente a casa sua senza chiamare, lei lo ha messo alla porta e lui sentendosi umiliato è andato ad ubriacarsi. Ci soffermiamo su quest'uso strumentale dell'umiliazione cercata, era qualcosa che era già comparso in precedenza. Tornano anche degli accenni alla questione della cosa sporca, gli faccio notare come questa "cosa sporca" è qualcosa che abbiamo già incontrato, gli torna in mente il confuso episodio dello zio e poi quello delle sorelle, conclude che forse la "cosa sporca" è lui. Sembra riverberarsi un certo godimento masochistico: sono la cosa sporca, sono quello che si dà le "martellate sulle palle", "sono il drogato". Sembra anche presente un aspetto di identificazione negativa connesso all'uso di sostanze.

A questo punto accade nel centro un incidente che mobilita e coinvolge operatori e utenti. M. un utente quarantenne, rompe un certo clima di "omertà" che in quel periodo aveva raggiunto il culmine e pone nei gruppi di auto aiuto, ai quali partecipano tutti gli utenti, una questione rispetto al fatto che alcuni ospiti avevano fatto uso di sostanze all'interno del servizio (uno spinello e una bottiglia di vino). Questa dichiarazione scatena il conflitto fra gli utenti, si susseguono le riunioni, le liti e le discussioni coinvolgono tutti, compreso A. che nel successivo incontro mi dice:

"ho pensato di non venire più, c'è dell'ambiguità nel centro diurno non mi fido, è come a casa mia". Si sofferma a lungo sugli episodi che stanno suscitando conflitti fra gli utenti del centro diurno, conflitti attinenti cosa si può dire pubblicamente, quindi anche agli educatori, e cosa no. In particolare porta un senso di colpa che considera legato alla parte da lui avuta in queste discussioni dentro al centro. Poi lentamente torna a collegare questo senso di colpa a qualcosa di diverso, la madre ostacola la sua scelta di venire al centro, preferirebbe che lui rimanesse a casa "non è cosa per te" gli dice. Lui pensa che la madre lo ostacoli perché ha capito che lui al centro diurno si trova bene. Questo "non è cosa per te" detto dalla madre apre un cassetto di ricordi che riguardano aspetti ed epoche diverse: la sua volontà di continuare gli studi, interrotti con la licenza media, il suo indossare la cravatta ed abiti eleganti nei primi tempi della relazione con C., i suoi abbozzi di tentativi di lasciare la casa dei genitori ed oggi il fatto di frequentare il centro diurno.

Nel colloquio successivo è particolarmente ansioso, mi dice: "Ultimamente sono imbarazzato, sul metrò incontro uomini che mi fissano..... perché mi fissi così?". Parla di M. l'utente che aveva sollevato la questione "sostanze" e racconta che gli incute timore, che è sarcastico nei suoi confronti. Ritorna sul "non è cosa per te" della madre riprendendo gli episodi descritti. Afferma di aver sempre vissuto in un clima di violenza quotidiana subita: "Bastava che mi lamentassi che la pastasciutta era poca e giù cinghiate, da mia madre ma anche da mio padre". Compare il padre descritto come il tipico "padre padrone". Questi lo manda a lavorare a nove anni come aiuto da un fruttivendolo: "Quando finiva la scuola, gli altri bambini andavano a giocare e io dovevo andare a lavorare, mi ha rubato l'infanzia, ma non lo ha fatto perché davvero avevamo bisogno ma solo perché dovevo fare quello che diceva lui, comandava lui".

A. Ha continuato a frequentare i gruppi della LILA dove ha conosciuto una nuova donna, G., con la quale sta nascendo qualcosa. E' euforico e spaventato contemporaneamente, dice di sentirsi in colpa verso C., teme che scopra tutto e se ne vada definitivamente, teme anche di innamorarsi di G. perché anche lei gli ha detto di non vuole impegnarsi in un rapporto serio. C. intanto ha ripreso a cercarlo, "Anche lei ha i suoi problemi e ora va anche lei dallo psicologo" Mi dice A.. Si sente anche ansioso e fa cenno all'episodio della violenza da parte dello zio, in particolare parla del rancore verso la madre "Io chiedevo aiuto e mia madre non rispondeva", Anch'io non sto rispondendo; mi chiedo se il messaggio sia diretto anche a me. Il periodo assume caratteristiche iperattive, c'è un continuo passaggio all'atto con un'azione che arriva sempre prima della ragione. Inizia i colloqui alla LILA per riconquistare C., poi proprio lì incontra G., C. improvvisamente non ha più importanza, poi ne avrà di nuovo, è un continuo procedere per salti con poca riflessione di A. su ciò che vuole.

Inizia a frequentare entrambe le donne senza decidersi ad una scelta, e mettendosi in situazioni che potrebbero facilmente far si che una scopra l'altra. Dice che dovrebbe scegliere ma non riesce a decidere in un senso o nell'altro. C. si è riavvicinata, lo ha invitato per una settimana al mare a dicembre ma dice di non aver cambiato idea su loro due; D'altro canto G. dice che non è l'uomo adatto a lei, accenna al fatto che lui non guadagna abbastanza per vivere insieme. Neanche qui fa la sua comparsa il desiderio di A. non si sa cosa vuole, non sceglie in nessun senso e si adagia sul desiderio di chi gli sta attorno.

Ben presto però con G. si rompe qualcosa, termina la fase d'iperattività e ritorna quella depressiva. "Domenica ho visto G.", Mi dice, "Dovevamo andare a fare un giro in Brianza, sono andato a casa sua a prenderla e invece era ancora a letto, aveva mal di testa, io lo sapevo che andava a finire così, ma mi sono arrabbiato lo stesso, tutti i sabati sera esce e si ubriaca, lei mi ha detto "e dai mettiti a letto anche tu" ma io ho risposto "no non sono mica venuto fin qui per farmi una scopata". Torna sulla questione della "donna attiva" e rievoca gli episodi di seduzione delle sorelle. Come emergerà poi l'irritazione di A. in questa situazione riguarda in particolar modo lo stile di vita di G.

Salta un colloquio, chiama il centro e lascia detto che non può venire perché sta male. Nel corso dell'incontro successivo racconta: "Mi sono fatto; ho incontrato delle persone che conoscevo in un posto insolito". Descrive quest'episodio come un evento casuale. Nel frattempo ha deciso di chiudere con G. "La G. mi chiama continuamente vuole farmi passare per uno stronzo; ma come dice una cosa, non t'innamorare di me e di qua e di la, poi invece è un'altra. Voglio un rapporto normale". Alla domanda di chiarimento su che cosa intende lui con "un rapporto normale", descrive una situazione estremamente idealizzata: felicità, nessun conflitto, serenità, eccetera; forse anche in questa idealizzazione si può rintracciare la presenza attiva di una difesa maniacale dalla depressione. Nel frattempo anche C. si è rifatta avanti ed è lui che ora l'ha tenuta a distanza: "Non ti appoggiare troppo a me" le ha detto, ed ha continuato "Ci sono tre possibilità: o vuoi davvero provarci con me, o sei solo legata a me perché non hai nessun altro, o ti sei fatta una storia con qualcuno ed è andata male; lei mi ha risposto la terza possibilità puoi escluderla".

Anche nel successivo colloquio A. si sofferma sulla questione G. "Non voglio più sentire G.", Mi dice, "Vorrei che non esistesse, non so perché ma mi da fastidio non vorrei più vederla e neppure incontrarla al gruppo. Martedì mi sono fatto ancora". Gli chiedo di approfondire questa faccenda di G. e lui mi dice che: "Si vantava degli altri uomini con cui era stata, uscivamo beveva fino a "piegarsi", poi mi raccontava che usciva di sera, andava in un locale, si caricava un uomo ogni volta diverso eccetera eccetera, ma a me non dava fastidio, io nella vita ho fatto di peggio, però non l'amo più e non voglio più vederla". Continuando a parlarne la convinzione che quei racconti di G. non erano un problema per lui, si attenua e lascia spazio ad un certo fastidio, emerge anche il fatto che gli amici di G. non mancavano di lanciargli pesanti battute su quest'aspetto. Torna la questione della "donna attiva", questione sulla quale A. ricorda che c'eravamo soffermati prima che ritornasse a farsi.

Arriviamo al Natale momento particolarmente delicato per A., questi riprende alcuni aspetti che già conoscevo ed aggiunge nuovi elementi: "Il Natale è pesante c'è sempre tensione a casa con i miei, è sempre stato pesante; le mie tre sorelle (due sono maggiori una minore) sono sposate, telefonano e basta, mio fratello è sempre ubriaco, mio padre è già ubriaco dalla mattina, ha sempre bevuto. Prima dicevano che le mie sorelle non venivano più a casa per colpa mia, perché io mi facevo; poi però l'hanno capita che non era colpa mia. Io con i miei non mi trovo: preferisco passare il Natale al bar. Mia madre non dorme più con mio padre da due anni, lui parla da solo, urla, bestemmia, è una situazione angosciante. Lui era il classico padre padrone, violento, ora però ha capito che chi comanda è mia madre. Mio padre quando avevo nove anni mi ha mandato a lavorare, mi ha tolto l'infanzia quello che diceva lui era legge poi però mi sono ribellato." Sul punto della ribellione si era già soffermato in precedenza, ma questa presunta ribellione è purtroppo priva di soggettività assorbita com'è dalle sostanze d'abuso che lo portano di fatto, non a ribellarsi per davvero ma a ripercorrere le orme del padre dedito all'alcol. Oggi A. arriva però a dire qualcosa di nuovo: "Io non me ne vado di casa, sarebbe inutile andarsene senza capire cosa mi tiene lì. Voglio prima capire. Io voglio qualcosa da loro (i genitori) anche se non so cos'è, e poi magari scoprirò anche che quella cosa lì non possono darmela. Mi hanno rubato l'infanzia voglio fargliela pagare." Mi sembra di poter individuare qui una nuova scansione connessa ad un ribaltamento che compare nel discorso di A., lui finora si è presentato come vittima ("io devo pagare", "non capisco cos'è che devo pagare") ora emerge una sua implicazione: vive nella casa dei genitori, benché ciò lo fa soffrire, per scelta ("per ottenere qualcosa?", "Per fargliela pagare?"). Avverto il momento come particolarmente delicato decido quindi di rivederlo fra due giorni.

Il giorno dopo A. non viene al centro ma telefona, dice all'educatrice che ha intenzione di andare a farsi. L'educatrice prende tempo, lo invita a venire al centro ed a parlarne, gli ricorda l'appuntamento con me fissato per l'indomani. Riesce a convincerlo ed A. arriva dopo essersi "caricato" con qualche bicchierino.

Nel colloquio seguente torna il tono depresso: "Ieri avevo voglia di farmi non resistevo, poi ho chiamato Clara (l'educatrice) e sono venuto qui ma prima mi sono fermato a bere. Mi sento un fallito dopo tutto quello che ho fatto per smettere sono ancora al punto di partenza." Cerco di valorizzare l'accaduto, è un episodio in cui sotto i nostri occhi si è verificato un cambiamento dentro di lui che lo ha spinto verso l'eroina, gli chiedo chiarimenti su questa voglia improvvisa e incontenibile, arriva alla conclusione che le questioni emerse nell'ultimo colloquio lo hanno messo in difficoltà. In particolare lo disorienta il fatto che benché pensa di voler andar via di casa non riesce a farlo, "Non ho le palle" dice. Ritengo opportuno un intervento rassicurante anche perché non potrò vederlo per quindici giorni. Gli dico che non penso si tratti di un problema di coraggio, che bisogna considerare che ciò che si pensa di volere non sempre è ciò che davvero si desidera, che c'è anche un inconscio che gioca la sua parte con il quale è necessario fare i conti. Lui ripercorre i nostri primi colloqui e ricorda che gli avevo detto che si potevano toccare dei tasti dolorosi, ma dice che forse è più dura di come pensava. Insisto nella rassicurazione, affermando che ritengo lui abbia le risorse per continuare il nostro lavoro e termino il colloquio fissando il prossimo incontro due settimane dopo.

A. viene al colloquio per l'ultima volta. Mi dice che ha ancora fatto uso di eroina, non ricorda nulla degli ultimi colloqui che pure si erano rivelati per lui così dolorosi, mi racconta un frammento di sogno che descrive come una specie di visione "c'era il bosco, c'era il fango e io ero lì aspettavo solo lo spacciatore con la roba, è una situazione che ho vissuto tante volte non era nemmeno un sogno". Era il quindici di Gennaio, A. da quel momento ha sospeso la frequenza al centro diurno mantenendo soltanto sporadici contatti telefonici, ed è tornato ad un uso massiccio di eroina.

A metà Marzo l'ho chiamato, mi ha detto che era a casa malato di bronchite e che sarebbe tornato una volta guarito, in effetti, a partire dai primi di giugno 1999 è tornato al servizio, non prima di aver intrapreso un trattamento metadonico a scalare al Sert finalizzato alla disintossicazione dall'eroina. A. dopo una decina di giorni di frequenza al centro ha richiesto di poter riprendere i colloqui individuali e di proseguire il lavoro interrotto che al momento continua.

 

 

3) L'ipotesi diagnostica

Prendendo in considerazione il DSM IV, La diagnosi è collocabile sull'Asse I "uso di sostanze psicoattive", questa diagnosi non da però conto della struttura, giacché l'uso di sostanze psicoattive "Non modifica mai la natura specifica della struttura psichica...... si limita a modificare più o meno notevolmente il modo di funzionamento.... della struttura profonda" (Bergeret J., 1982). Sempre con riferimento all'Asse I credo ci si possa anche orientare sui disturbi affettivi, in particolare sulla depressione. L'uso non interrotto di sostanze (l'alcol quando non l'eroina) penso che non permetta di escludere una struttura psicotica, anche se sono più orientato a pensare ad una nevrosi. Le componenti anali del primo sogno di A. ed il suo rimuginare mi sembra abbiano funzione di indice, nel senso della classificazione dei segni proposta da Peirce e ripresa da Jakobson, (A. Rifflet-Lemaire, 1970) ed evidenzino aspetti propri della nevrosi ossessiva.


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