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Alcune riflessioni sul dibattito

La discussione del caso è cominciata con alcuni interventi dei partecipanti centrati sul ruolo e sulla funzione dei Tribunali nelle situazioni cliniche. Sia nell'area della neuropsichiatria infantile che in quella della psichiatria adulti, capita di avere a che fare con giudici spesso insoddisfatti di quanto a loro viene riferito dai curanti, nonchè del come vengono compilati i diari giornalieri dei degenti durante il ricovero ospedaliero.
Le pretese che si usi un linguaggio sempre chiaro e che si disponga di dati dettagliati sulla condizione psicologica e sociale del paziente, fa spesso sentire l'operatore, a cui il giudice si rivolge, come se dovesse superare un esame. A volte ai tribunali si affiancano altri enti riconosciuti dallo stato che si rivolgono direttamente ai servizi pubblici con le stesse pretese dei giudici. Il “Telefono Azzurro” ne è un esempio.
Un incaricato di questo Ente aveva telefonato direttamente al responsabile del Simee non solo per segnalare il caso, ma per ricordare all'interlocutore il ruolo e le responsabilità che doveva assumersi nei confronti della minore in questione quasi che il servizio non usasse muoversi già di per sè con senso di responsabilità e rispettoso delle leggi vigenti e quasi che il Telefono Azzurro fosse il superiore gerarchico a cui il Simee doveva ubbidienza e gratitudine.
Sembra che il Tribunale e gli Enti ad esso ausiliari collochino il clinico più nel ruolo del loro interlocutore che non del loro collaboratore. A lui affidano persone e drammi e da lui pretendono garanzie, verità e azioni efficaci. Il motto non è del tipo “troviamoci e facciamo insieme” ma piuttosto “ascolta, fai e poi riferisci”. Va da sè che questo modo di interagire non può che creare nella mente dell'operatore un senso di apprensione e di persecuzione.
La relatrice del caso, infatti, in sede di discussione ammise di avere incontrato qualche difficoltà emotiva nel prendere delle decisioni poichè nella sua testa rieccheggiavano le parole e le richieste sia del Tribunale che del Telefono Azzurro.
Per recuperare la capacità di riflettere su ciò che sarebbe stato più utile per Silvana, dovette trasformare il senso di persecuzione in disponibilità personale. In questo caso la presentificazione enfatica e minacciosa della legge era risultata un ostacolo della creatività personale del neuropsichiatra infantile col rischio di contaminare un'area clinica che si basi sull'ascolto, sulla riflessione, sulla condivisione e collaborazione.
A prima vista potrebbe sembrare che questo discutere sui tribunali e sulle norme legislative abbia allontanato l'uditorio dall'effettiva trattazione del caso. Se però non dimentichiamo che Freud in realtà apprezzava le risonanze soggettive che vengono attivate dalla situazione di gruppo, da lui ritenute autentiche piste per arrivare all'inconscio, possiamo allora vedere il dibattito come una sorta di arricchimento della griglia e precisamente dove si parla delle narrazioni del soggetto, dell'istituzione e della famiglia.
L'esposizione della relatrice aveva offerto ai partecipanti una descrizione accurata e chiara di come Silvana si era presentata a lei e di come la famiglia e la scuola ne avevano parlato, purtuttavia aveva trascurato di dire quale e quanta emozione questi interlocutori avevano vissuto.
Gli agiti della paziente erano così frequenti che nessuno dei narratori aveva avuto il tempo di afferrare e di mentalizzare la persecuzione in cui Silvana li aveva trascinati. Ad intensificare il clima persecutorio si erano aggiunti via via il Tribunale dei minori e poi il Telefono Azzurro, chiamati in causa dalla paziente stessa quali megafoni della sua sofferenza e delle sue richieste ricattatorie.
Ma forse un tacito vissuto di persecutorietà era già presente nella famiglia originaria, quando i genitori di Silvana, davanti ai figli, si insultavano e si picchiavano. Un episodio che viene riportato dalla paziente, riguarda un vetro spaccato, la madre sanguinante, sua sorella fuggita in camera. Silvana non ricorda ci siano state parole tra lei e il padre quasi che i conflitti in quella casa usassero esprimersi in modi molto primitivi. Le parole e i pensieri sembravano non essere alla portata delle interazioni familiari, inconsapevolmente svalutati dai genitori che non vedevano in essi un veicolo con cui passare ai figli un loro patrimonio culturale e affettivo.
Una modalità relazionale che si basi sul silenzio, sulla violenza dell'uno sull'altro, sulla manifestazione drammatica e primitiva dei propri bisogni, non può che generare, in chi ne è parte, anche se non voluta, un senso continuo di minaccia.
L'Istituzione sanitaria, primo intelocutore esterno della famiglia, non si discostò da questa tematica e parlò della malattia di Anna, la sorella gemella di Silvana, come di un “furto di sangue”. La collusione tra famiglia e istituzione fece sì che il senso di colpa si trasformasse in una colpa perenne, non elaborabile e motore della distruttività che in quella casa avrebbe fatto sempre più da padrona. La prima vittima fu forse il padre che per salvarsi come essere umano e come professionista, dovette lasciare la casa, cercando con l'aiuto dell'Anonima Alcoolisti di recuperare una dignità personale e il senso perduto della speranza.

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