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SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA - MILANO
GUARDIA SECONDA

CLINICA PSICODINAMICA NEL LAVORO ISTITUZIONALE

CASO CLINICO

presentato dalla dott.ssa
Anna Barracco



Le condizioni dell'incontro e lo scenario istituzionale.

Il primo contatto di Vesna con il Centro Psico-Sociale (CPS) è dell'aprile 1997.

La collega psichiatra, nel corso del primo colloquio anamnestico, annoterà in cartella la diagnosi di "Bulimia nervosa", e le seguenti note :"Inviata dal medico curante per bulimia. Riferisce saltuarie crisi bulimiche con successive assunzioni di Guttalax (1 flac.), intervallate da periodi di alimentazione regolare, in cui per altro non pensa ad altro che al cibo. Dopo le crisi bulimiche è depressa e abulica. Non desidera assumere farmaci, ma approfondire psicologicamente le motivazioni dei propri disturbi. Si recherà per un mese in Jugoslavia e al rientro telefonerà per un app.to con la psicologa."

In cartella, al primo colloquio, vengono raccolti i "dati di interesse sociologico": la pz. è del 1974, seconda di due sorelle, la maggiore è del 1968. I due genitori, residenti in una grande città dell'ex Jugoslavia, sono entrambi viventi. La madre è obesa e gravemente cardiopatica, mentre il padre ha sofferto di alcoolismo. Attualmente la pz. convive con un uomo, in una casa di tre locali di proprietà (del convivente) e fa la casalinga. Ha frequentato una scuola professionale per sarta (in Jugoslavia) ed ha conseguito il relativo diploma.

Nell'anamnesi psicopatologica, la collega scrive: "Riferisce di avere sempre avuto problemi con l'alimentazione: diete dall'adolescenza, timore di diventare obesa come la madre. E' in Italia da un anno e mezzo. Da 4 mesi convive con un uomo e questo le ha dato l'opportunità di avere la residenza in Italia e di vivere agiatamente. Non è però soddisfatta della situazione perché non lo ama".

Dopo questo primo colloquio, la psichiatra mi chiede di vedere la pz., che a suo avviso presenta una situazione di distimia secondaria al disturbo sull'asse I, o comunque certamente un disturbo depressivo N.A.S. , associato al disturbo sull'asse I (Bulimia nervosa). Pur non volendo assumere alcuna terapia farmacologica, la sig.ra sembra molto motivata ad un lavoro introspettivo di tipo psicoterapeutico.

Me la presenta, così, rapidamente, per un appuntamento da fissare al rientro dal viaggio in Jugoslavia.

Il primo colloquio e la strutturazione della domanda iniziale.

Alla fine di Giugno del 1997, cioè tre mesi dopo quel primo contatto col Servizio, arriva la telefonata del convivente di Vesna, che chiede l'appuntamento per la compagna, richiamandosi agli accordi presi prima della sua partenza per la Jugoslavia.

Al primo colloquio, la pz. si presenta (cosa che sarà poi una costante), molto curata, ben vestita profumata e piuttosto carica di gioielli, soprattutto oro, decisamente ostentato.

"Sono venuta da lei perché vorrei affrontare il mio problema con bulimia. Sono arrivata al punto di convincermi che è veramente una malattia e devo farmi aiutare da qualcuno per affrontare problema. Sono sicura che devo cercare di capire che cosa mi spinge a mangiare e perché non sono capace, come tutti gli altri, di sapere quanto e che cosa devo mangiare".

Le chiedo, aggrottando le sopracciglia, di spiegarmi meglio che cosa intende dire.

"Ecco, io credo di avere sempre avuto problema con cibo, anche da bambina, da ragazza, quando ero al mio paese...però prima ero convinta che fosse una cosa normale, come tutte le ragazze avevo paura di ingrassare, ero golosa, tendevo anche un po' a mettere su qualche chilo. Però infondo tutto questo era normale, bambini sempre golosi, piace molto dolci.... Mi piaceva mangiare, mi piacevano dolci, ma a volte cercavo di mettermi a dieta e avevo paura di diventare grassa come la mia madre, però in fondo ero solo un po' cicciottella, come tante altre ragazze, e facevo una vita normale, questo non mi ha impedito di avere le mie amicizie, i miei amori..."

"Quando sono cambiate le cose?" le chiedo.

"Con il mio trasferimento in Italia. Prima sono stata alcuni mesi in Grecia, facevo la Baby sitter alla pari, ma Grecia non mi piaceva, era troppo simile a mio paese, e poi io volevo guadagnare, e questo è altro mio grosso problema. Io molto, troppo attaccata a soldi. In Jugoslavia noi eravamo molto poveri, e sempre abbiamo avuto questo mito, questo sogno dell'Europa, della vita comoda, delle cose belle.

Così io mi sono trasferita in Toscana, dove avevo un'amica, e ho cominciato a lavorare in un night club. Questo lavoro era molto ben pagato, e all'inizio mi era sembrato un ottima possibilità. Si lavorava solo la sera, e se ci sapevi fare, guadagnavi bene. Ma io lì ho cominciato ad esagerare con dieta, e di giorno spesso avevo le mie prime vere crisi di bulimia, mangiavo in modo disordinato, pane, poi dolci, poi altre cose salate, tutto senza ordine, e poi mi sentivo male e a volte la sera non riuscivo ad andare al night. Ho anche pensato che a volte questo era scusa per non lavorare, perchè questo lavoro a me presto mi sono accorta che non piaceva, mi sentivo in colpa, non era un lavoro serio, anche se noi non eravamo obbligate ad andare a letto con i clienti, io facevo il mio lavoro e basta, ma comunque mi vergognavo, non avevo detto a famiglia che facevo questo, erano soldi facili, ma capivo che non era un bell'ambiente, e anche colleghe, persone che incontravo lì, non mi piacevano."

"Le crisi bulimiche erano un modo per evitare questo lavoro che accettava con difficoltà?" chiedo.

"Un po' questo, penso, ma poi penso veramente anche che con questi orari, con questo lavorare la notte, dormire di giorno, fare vita sregolata... Io vivevo con una ragazza, collega di night, in un appartamentino, dove non ci incontravamo mai, non c'era cucina regolare, non c'erano orari, io veramente credo che anche questo, io ho perso l'idea di che cosa dovevo mangiare, di quando, di quanto mi bastava veramente, e così piano piano non so più che cosa si deve mangiare, non so più quando sono sazia, non so più neanche che cosa mi piace."

"ah sì?" esprimo un grande stupore, anche perché è la seconda volta che Vesna dice una cosa apparentemente ovvia (soprattutto per lei, e che sembra supporre ovvia anche per l'interlocutore), e che invece è piuttosto enigmatica, niente affatto scontata. Questo mettere in dubbio, semplicemente con la sorpresa, le sue apparenti certezze, ha determinato in parte la posizione nel transfert con questo soggetto, la ricerca, da parte mia, di un luogo da cui rispondere, di una strategia per far nascere l'inconscio, in questa cura, nel senso di una prima apertura al dubbio, alla curiosità, ad un transfert del soggetto sul proprio sapere inconscio (come dice il dott. Viganò "Il soggetto supposto sapere nasce veramente quando è il soggetto che si innamora dell'inconscio, e quindi per ciò stesso lo fa esistere").

"Sì,io prima sempre sono stata in famiglia, per me famiglia molto importante, io penso soffrivo per mancanza di mia famiglia (per altro, in questo primo colloquio, la pz. della famiglia non parla affatto), però sempre avevo questo mito dei soldi. Io so che questo è una cosa brutta, io sono andata via dal Night club, quando ho conosciuto il mio ragazzo (lo chiamo ragazzo, ma lui è molto più vecchio di me), ma ora sto con lui, veramente solo perchè è ricco e mi può dare tante comodità, i gioielli, la bella vita. E allora penso che questo è ancora peggio del night,io so che fare questo per interesse è una cosa molto brutta, ma io non riesco a fare a meno dei soldi, io non amo lui, ma in cambio di questo sacrificio, ho i soldi."

"Che cosa è brutto?" chiedo.

"E' brutto che non riesco a fare a meno dei soldi, che io inganno lui, che lui in realtà mi ama e spera che io lo possa amare, anche se a volte io parlo sinceramente, e lui sa che io un po' mi vergogno, però lui crede che è solo per differenza di età. Io invece veramente credo che sto con lui solo per soldi. E' brutto che io rinuncio all'amore per soldi. Io non riesco veramente però a fare a meno dell'amore, vorrei innamorarmi veramente, ma non riesco a fare a meno delle comodità e dei soldi, io veramente credo che questo è mio problema, forse più ancora di bulimia"

Dopo un lungo silenzio, in cui vedo che Vesna è in ansia, mi dice:

"Io credo che devo sapere quanto una persona deve mangiare, credo che lei mi dice che cosa devo mangiare, quanto a colazione, quanto a pranzo, quanto a cena, che lei mi dice come devo accoppiare i cibi, come condire, e dopo forse io starò bene".

Ostento nuovamente un grande stupore: "Per questo genere di informazioni, io mi sarei rivolta ad un dietologo, ma lei stessa mi ha detto che crede di avere una malattia, che qualcosa è cambiato quando è venuta in Italia, mi ha raccontato un mucchio di altre cose. Non credo che le serva veramente una dieta o qualche informazione sui carboidrati. E comunque, non sono io che la posso aiutare, su questo".

"Sì, è vero.Però io credo che veramente c'è un problema per me con informazioni. Noi molto ignoranti, in famiglia, mio ragazzo mi consiglia di andare anche da un dietologo, perché io veramente non so che cosa devo mangiare, forse se io so, io mi regolo meglio".

"Ne riparleremo. Se vuole andare da un dietologo, è libera di farlo, non le farà male. Ma io credo che se lei avesse una crisi d'asma, improvvisamente si accorgerebbe che la quantità d'aria di cui ha bisogno non le sembrerebbe più una cosa così scontata, e non credo che una tabella su come e quanto respirare le potrebbe essere di grande aiuto. Credo che a lei le tabelle servirebbero a poco".

Così si conclude il nostro primo colloquio, che contiene in nuce tutte le questioni di Vesna, come potremo eventualmente valutare nella discussione.

 

Le narrazioni del soggetto, le scansioni cliniche e la costruzione del caso

Dopo questo primo colloquio c'è una prima fase della cura, di sette colloqui (circa tre mesi), che si conclude con una interpretazione e una prima emergenza di aggressività e di angoscia nella cura.

Questa fase è caratterizzata dalla mobilitazione dei significanti familiari, dal mettersi al lavoro analitico della pz., attorno a tre filoni.

In questa prima fase della cura, le modalità narrative di Vesna sono molto caratterizzate dalla dimensione dell'atto (scoppia a piangere, si emoziona, rompe il silenzio,ecc.).

1) Le narrazioni rispetto alla famiglia.Il delinearsi della scena edipica e la prima versione della "colpa".

"Mia madre"mi dice piangendo "è malata di cuore. E' sempre stata malata, ha avuto tre infarti, è grossa...cammina e si muove a fatica".

Il crollo fisico della madre, mi dirà successivamente Vesna, avviene proprio con la sua nascita: "E' stata per morire. Mi dice sempre che ha rischiato la vita per mettermi al mondo, e dall'ansia e dalla preoccupazione anche mio padre ha cominciato ad esagerare col bere. Mio padre beve un po', prima beveva molto. Però è bravo, è buonissimo. Non riesce a parlare, quando lo spingevamo a parlare, ad affrontare dei problemi, lui doveva bere, oppure parlava con noi solo quando era ubriaco.".

Quando era ragazzina (intorno ai 15 anni) in casa il clima era insopportabile. C'era sempre un silenzio pesante, e non si riusciva a capire da che cosa dipendesse.

Un giorno, mentre le sottolineo la contiguità fra la sua nascita, il crollo fisico della madre e quello psichico del padre, si solleva la maglietta e mi mostra una grossa voglia (un angioma) sulla schiena. "Questa macchia è sempre stata un'ossessione, per me, uno dei motivi per cui ho tanta difficoltà a spogliarmi, a fare l'amore. Nel mio paese si dice che i bimbi che hanno una voglia sono figli di una colpa". Mette in relazione questa colpa con i "silenzi" familiari.

2) Il lavoro intorno al sintomo e al suo senso.

In questo filone ho raccolto gli elementi, a mio avviso salienti, che testimoniano di questo "innamoramento dell'inconscio", di Vesna, dell'instaurazione del soggetto supposto sapere, inteso proprio nel senso di un interesse della pz. a farsi scenziata di sé stessa, a cercare di costruire un sapere circa il proprio sintomo, si mette al lavoro per cercare di intuire la logica dello scatenamento delle crisi, i fattori predisponenti, le cause, ecc.

C'è un atteggiamento un po' "famelico", nei confronti del sapere (in parte anche uno spostamento sintomatico su questa dimensione del sapere dell'atteggiamento bulimico), che tuttavia non impedisce l'instaurarsi di una dialettica, in cui la possibilità di un sapere da attingere tramite il lavoro in seduta, tende a fare barriera, ad opporsi al godimento puro, alla sua ripetizione cieca, che la pz. metaforizza come l'opposizione fra condanna "genetica" (= diventare grassa come la madre) e sintomo bulimico (= c'è un senso un significato).

"Sto scoprendo che tante cose del mio passato, del mio presente, mi sono sconosciute, tante cose che credevo di sapere, come per esempio le mie reazioni, certe emozioni che credevo di saper controllare. Dico sempre "non lo so", e questo mi da' fastidio. E' proprio come nella vita, che sono indecisa, piena di dubbi, affermo una cosa ma c'è sempre un angolo di pensiero in cui non sono convinta, dubito, o addirittura sono convinta del contrario."

In particolare, dice del suo sintomo: "Quando mangio è perché sono sola, anche se non posso dire che la solitudine non mi piaccia, sono un tipo solitario. Forse ora la solitudine mi pesa più che in Jugoslavia, perché lì avevo la sensazione di essere padrona del mio tempo, mentre qui ho l'impressione che i miei tempi, la mia solitudine, esista solo come scansioni, ritagli di tempo dei movimenti del mio convivente. E' lui che gestisce la mia vita, e quindi non mi sembra di avere un tempo che mi appartenga. Ma l'attacco di bulimia scatta proprio quando mi sento serena, un po' rilassata. Sono davanti alla televisione. Ad un certo punto, mi viene in mente mia madre, decido di telefonarle, poi quando metto giù, mi dico "devo prendere una decisione, devo tornare in Jugoslavia, devo dire la verità al mio ragazzo", e poi, come per tranquillizzarmi, "ma no, non ci sono problemi, non ho problemi, non c'è fretta', e allora mangio".

Vesna lavora anche sul suo rapporto col cibo "prima" e "dopo" la venuta in Italia.

"Prima ero golosa, mi piaceva mangiare, mi piacevano i dolci. Ero come tutte le altre ragazzine e anche come mia madre. Lei è molto grassa, ma non ha la bulimia.

Da ragazza soffrivo. Mi sentivo grassa, avevo un naso gonfio e tozzo. Nessuno mi ha mai fatto da modello, nessuno mi ha insegnato a sentire il mio corpo, a capirlo. Mia madre mangia troppo. Mio padre non mangia niente"

" Io da quando ho la bulimia ho il terrore di diventare come lei, che invece non sa che cosa ha, mangia e basta, per ignoranza, con incoscenza, non ha la bulimia."

Con la bulimia, si vede bene come Vesna metta un freno alla possibilità di diventare come la madre, mangiare per bulimia, paradossalmente, è di per sé già la possibilità di introdurre una separazione, una differenza, un modo di protestare, di esprimere con forza il desiderio che tra lei e la madre ci sia uno scarto.

3) Il rapporto con il convivente e il transfert

In questo filone raggruppo le narrazioni che riguardano il rapporto con il convivente, e che esprimono bene il modo di relazione che questa pz. instaura con l'altro, più precisamente, anche perché si intrecciano con aspetti del transfert nella cura, si può dire che il rapporto con il convivente dica qualcosa del transfert paterno della pz., e la sua difficoltà a scollare l'uomo come oggetto sessuale/partner, dalla questione del transfert paterno e dell'identificazione al padre ideale.

Vesna dice di non amare il suo convivente, il suo "ragazzo", come lo chiama lei, anche se regolarmente dopo sottolinea che in realtà è vecchio, molto più vecchio di lei, e questo la fa soffrire molto. "So che dovrei lasciarlo. Non ha senso che io continui a stare con lui per interesse, senza provare nessuna felicità, senza fare l'amore. In fondo lo inganno, lo illudo, e per di più sono infelice. Non ho il coraggio di dirgli la verità nuda e cruda perchè lui è buono, e anche se a volte gli do' tutti gli elementi per capire, per trarre le dovute conclusioni, lui non mi caccia di casa, aspetta con pazienza che io guarisca, mi da' consigli. Forse dovrei sparire all'improvviso, senza dire nulla."

Questo tema della fuga-ritorno in Jugoslavia si ripresenta spesso, è una fantasia, una oscillazione a pendolo del suo desiderio, che a volte la Pz. mette realmente in scena, durante la cura. La prima volta, dopo il colloquio col medico e la decisione di intraprendere la psicoterapia, e successivamente, come si vedrà, sempre in opposizione a tentativi di emancipazione e di evoluzione.

In questa prima fase della cura, la fantasia del ritorno in Jugoslavia è legata all'idea di ritrovare la serenità, un posto dove possa tornare ad essere sè stessa, sincera, senza dover mentire.

La posizione di lui, che si intuisce anche da alcuni contatti diretti con il Servizio (a volte avvisa di un'assenza di Vesna, o telefona per spostare una seduta), è molto paterna, razionalmente tesa ad aiutare Vesna a trovare una sua autonomia. La incoraggia a prendere la patente, non le impedisce di cercarsi un lavoro, accetta la discussione sui sentimenti di Vesna, paga i suoi lunghi soggiorni in Jugoslavia, le consiglia di non essere precipitosa, accetta pazientemente la totale assenza di rapporti sessuali, scherzandoci sopra.

Successivamente verrò a sapere che è stato dietro sua grande insistenza che Vesna si è rivolta al Servizio in quanto lui stesso, due anni prima, era stato in cura presso una collega psichiatra per una depressione reattiva, sopravvenuta dopo la perdita in un breve intervallo di tempo, di entrambi i genitori con i quali abitava, nella stessa abitazione dove ora abita con Vesna.

Questa dimensione di abbandono, di solitudine, di sofferenza, è la cifra del legame che la pz. ha nei confronti di quest'uomo, che viene vissuto, in continuità con il padre, come "il poverino", che ha perso tutto, e che non può essere abbandonato anche da lei. Nello stesso tempo, però, è un uomo forte, ha successo negli affari, conosce molte persone, e Vesna sa che esercita un potere, un controllo anche su di lei, che fa tutto questo per lei, è disposto ad ascoltarla, ad aiutarla, perchè vuole il suo amore (e in questo c'è il tratto materno dell'oggetto d'amore, e si vede come per questa pz. l'odio nei confronti della madre, o meglio la profonda ambivalenza, caratterizzano la tragica impossibilità ad investire un oggetto perché, proprio in quanto amato, erotizzato, qualsiasi oggetto è anche contemporaneamente odiato, visto come divorante e minaccioso).

La prima scansione: L'interpretazione e l'emergere dei vissuti aggressivi. Lo svelamento della verità familiare e la nuova interpretazione.

Questa seconda fase si apre con una seduta di inizio ottobre Î97, durante la quale, -dopo una interruzione dovuta alle vacanze, in cui la pz. è leggermente ingrassata- Vesna dice di essere stata dalla dietologa: "mi ha dato una dieta poverissima, ma io ho bisogno di mangiare tanto. Ora però so come bisogna mangiare, proteine, vitamine, carboidrati, grassi".

Le dico che in realtà ne sa quanto prima. Ha chiesto alla dietologa una dieta che non la facesse mangiare, e quella le ha dato una dieta per mangiare poco. Ma lei vuole mangiare tanto. Quello che lei vuole sapere è perchè le piace mangiare. perché vuole mangiare tanto. La dietologa non può svelarle nulla di cosa le piace.

"Mi piace tutto"mi dice stupita ma come presa da un "furor catalogandi", le paste grosse, rotonde, le cose alte, il pan di spagna, quelle sfoglie con dentro le cose vive (=Crude), la carne alta, le cose tante..." Poi improvvisamente è come sopraffatta dall'angoscia, e mi guarda con terrore. "Sono convinta di avere dentro qualcosa di profondamente negativo. Sono cattiva, veramente egoista".

"Queste cose non le ho mai dette a nessuno. Credevo che non le avrei mai dette a nessuno, perchè a parlarne, a liberarle temo si possano avverare. Ho paura della violenza che ho dentro, e della violenza che gli altri potrebbero manifestare. Penso che solo se picchiassi a sangue qualcuno, solo se gli facessi veramente del male, ma un male fisico, sarei finalmente in pace"

Dopo queste affermazioni, si sente mancare, e tende a chiedermi accoglienza, accudimento. Io chiudo la seduta, invitandola a tornare due giorni dopo.

Dopo questa seduta, comincia da una parte tutto un movimento all'esterno; la pz. si iscrive a scuola guida e prende la patente, accetta di frequentare un corso di estetista, anche se in modo ambivalente, perché è la scuola della cugina del suo convivente ("mi sento sempre sotto il suo controllo").

Dall'altro lato, però, progetta un viaggio in Jugoslavia, sul quale ha moltissime aspettative (soprattutto, quella di trovare "il grande amore"), con la seria fantasia di poter tornare e stabilirsi nuovamente lì.

C'è un emergere di questioni, uno spostamento del discorso rispetto alla famiglia, e un primo netto miglioramento del sintomo.

Poco prima di partire per Belgrado, è molto contenta, si dice stupita di quante energie erano imprigionate dalla questione del cibo, ma ancora non riesce bene a spiegarsi come si leghino la questione del cibo e la sua fame d'amore, il suo piangere pensando alla madre, e quella nuova inspiegabile aggressività che ogni tanto si ripresenta :"Odio tutto quello che sul mio corpo riconosco di lei...non le ho mai visto sul viso un'espressione sincera.."

Ma con il ritorno dalla Jugoslavia, i nodi vengono al pettine.

E' stata malissimo, la bulimia è tornata pesantemente. "In questo mio andare e tornare c'è qualcosa che non riesco a capire, che non appartiene a me, non sono io che determino questi movimenti".

Con l'inesorabile fallimento delle fantasie idilliache di riavvicinamento, di nuova fusione con la famiglia, c'è un netto cambiamento nella posizione di Vesna. Quello che già si era affacciato prima della partenza, sotto forma di dubbio, di giustapposizione di fantasie aggressive e pensieri malinconici, ora riappare come fenomeno di depersonalizzazione isterica, che forse vorrei esprimere meglio con il termine letterario di straniamento, in cui Vesna dice le stesse cose trite e ritrite, che credeva sapute a memoria, e improvvisamente le vede in un'altra prospettiva, completamente nuova.

"Sono andata via di casa, ma in realtà continuo a vivere con loro, a sacrificarmi per loro. Sto con questo ragazzo che non amo, a volte mi vergogno di lui, eppure non riesco a fare a meno dei soldi e del benessere che mi procura, ma ora so che l'ho fatto sempre per loro, per mia madre e mia sorella. Loro a parole mi dicono che se non sono felice qui in Italia, posso tornare, che si troverà una sistemazione, che non devo pensare a loro, ma a me stessa. Ma io vedo che quando arrivo piena di regali, di cose belle, loro si aspettano questo da me.

A casa mia c'è sempre stato questo mito dei soldi. Mia madre (prima che io nascessi), rimproverava mio padre, perchè non aveva il coraggio di tentare la fortuna, come aveva fatto suo fratello (=del padre), che era andato a lavorare in Germania, e poi tornava sempre carico di regali. Mio padre non voleva lasciare la famiglia, non voleva stare da solo all'estero, e mia madre questo non glie lo perdonava. Con la mia venuta al mondo, la malattia di mia madre e tutto il resto, questi progetti sono stati accantonati definitivamente, e si è instaurato il silenzio. Mio padre ha cominciato a bere perché ha deluso per sempre mia madre".

A questo svelamento della vera "colpa" cui la paziente è identificata, l'incapacità del padre a soddisfare la madre, situazione nella quale è implicata con la sua venuta al mondo, si lega con l'associazione il lamento sulla mancanza di vita sessuale, sull'impossibilità di accedere al godimento; emerge anche un trauma adolescenziale, a cui è legata la sua ritrosia a farsi toccare. Durante la prima adolescenza, un compagno di scuola l'aveva sverginata violentemente con le mani, facendole male e lasciandole dentro un profondo orrore. "Da allora evito accuratamente di farmi toccare, soprattutto sotto la cintura. Anche andare dal ginecologo è sempre una tragedia. Per molti anni non sono andata e anche adesso vado il meno possibile."

"Le mani delle persone mi fanno paura, le mani tozze, gonfie, mi fanno schifo, anche quando penso a mia madre, quando mi viene da piangere perché penso che lei è grassa, è malata, penso alle sue manine piccole e tozze, con i buchini come quelle dei neonati. Quando compare l'immagine di quelle mani, non riesco a non piangere".

Questa fase si conclude quando, nel corso di una seduta in cui emergono i vissuti di profonda rabbia che la abitano, si fa strada il lapsus, ed un primo svelamento dell'identificazione con il padre ideale.

"Fanno sempre la parte delle poverine (=la madre e la sorella), piangono miseria, e poi scopro che senza dirmi nulla hanno venduto una parte delle nostre terre, anche quelle destinate a me, e lo hanno fatto senza dirmi nulla, facendo fuori tutti i soldi in poco tempo. E io che mi faccio sempre problemi per loro, che quando penso a loro piango, che sono venuta qui, in Germania, a vivere questa solitudine per soddisfare i loro desideri..."

"Bene....ben detto!"

L'interpretazione funziona in due tempi.

La pz. non coglie subito il messaggio contenuto in questo lapsus, ma si apre però una terza fase della cura, che si chiuderà con un nuovo lapsus .

In questa fase, comunque, lo svelamento dell'identificazione e la conseguente perdita di godimento si manifestano chiaramente in un momento depressivo e nella contemporanea ripresa dei tentativi di autonomizzazione, oltre che da racconti e associazioni legati all'innamoramento e all'amore.

E' in questa fase che mi racconta della storia del suo convivente, e mi rende partecipe per la prima volta di un grande amore avuto in Toscana, un ragazzo con gravi problemi psichiatrici "era dolce, comprensivo, li rispettava profondamente. Con lui mi sentivo sicura, non mi metteva in pericolo e non voleva nulla da me che io non fossi in grado di dargli spontaneamente"

In oltre Vesna compera un'automobile usata e cominciare realmente a muovere alcuni passi da sola, mi racconta di nuove amicizie e di momenti di soddisfazione sessuale, anche se, con suo rammarico, si legano a momenti di cedimento non più bulimico, ma comunque a qualche "mangiata" che lei valuta come eccessiva. Emerge spesso uno stato che la paziente vive come depressivo, un senso profondo di vuoto e di tristezza: "la consapevolezza - dice- di non essere mai stata importante per nessuno". Questa coloritura depressiva, che io sottolineo offrendo anche un po' provocatoriamente la possibilità di ricorrere alla psichiatra, per un eventuale piccolo aiuto farmacologico, viene però connotata da Vesna come preziosa, una tristezza diversa dalla rabbia inspiegabile e dalla compassione irrazionale che, prima, provava quando pensava alla sua famiglia.

E per questo motivo, rifiuta senza indugi il mio invito.

Continuano quindi queste sedute durante le quali,spesso, piange a lungo; "Nessuno si è mai curato, nessuno si è mai neanche accorto di questo vuoto, mia madre lo riempiva di cibo, mio padre di urla"; si riaffaccia la fantasia di un ritorno in Jugoslavia, che però Vesna riconosce come un desiderio di ritorno impossibile all'infanzia, a quell'infanzia che le appare ora così disperatamente desolata e vuota: "Quello che non riesco proprio a perdonare a mio padre " mi dirà infine " è di non aver avuto ambizioni. Avrei voluto tanto vederlo tornare dall'Italia con le mani piene di regali". E questa volta, io resto in silenzio, e lei ride a lungo.

L'ultima parte della cura (da Maggio a Dicembre 1998)

C'è poi un periodo in cui parte dell'aggressività si riversa nell'hic et nunc della relazione terapeutica.

Interpreto una sua tendenza a minimizzare le interruzioni accidentali, o i piccoli ritardi che a volte si producevano a causa mia (io stessa in cartella rifletto su questa mia tendenza a colludere con questo suo mettersi nella posizione di quella che non crea problemi, che è silenziosa e poco reattiva,ecc.). Si apre così una fase in cui la pz., a partire da una amicizia che ha in Toscana, con una ragazza incinta, abbandonata dal padre del bambino, intreccia nuovi interrogativi.

1) Le nuove paure espresse rispetto al distacco dal convivente.

Ora Vesna dice di sapere che la questione non è solo economica, sente che non è capace di stare da sola, teme che tornerebbe a mangiare, e ciò che è più interessante, riflette sulla sua esperienza al Night club, che per lei resta il luogo enigmatico della svolta patologica. Si interroga su come sia potuta finire in un posto simile, e su come abbia potuto vivere così a lungo nella posizione equivoca della mantenuta.

C'è qui l'interrogazione rispetto alla posizione fallica, la difficoltà a situarsi rispetto al desiderio maschile, anche una volta caduta la questione dell'identificazione al padre ideale.

2) La posizione del terapeuta.

C'è un doppio movimento, da una parte Vesna ammette questa sua tendenza a minimizzare, a negare l'aggressività, e dall'altra manifesta aggressività sotto forma di un parlare a raffica, a vuoto, senza dire nulla.

Inoltre, mi dice chiaramente che rispetto al rapporto con l'amica incinta, lei ha assunto un po' il ruolo della terapeuta, e che però è molto attiva, nei week-end la va a trovare, cerca di scuoterla e spingerla all'autonomia, e in questo critica neanche troppo velatamente quella che lei giudica una mia astensione dall'intervento.

C'è quindi da una parte l'assunzione di un ruolo "terapeutico" nei confronti dell'amica toscana, in cui Vesna è aggressiva, e l'espressione di una aggressività in seduta (sotto forma di critica alla mia posizione, e sotto forma di tendenza a scivolare nuovamente nella posizione di quella bambina di cui nessuno si accorge).

3) La questione della maternità dell'amica, e i nuovi interrogativi sulla posizione femminile.

L'amica era amante di un uomo sposato, che aveva promesso di lasciare la moglie per lei. Quando la ragazza era rimasta incinta, però aveva cominciato a vacillare e alla fine, quando ormai per l'aborto era tardi, l'uomo aveva deciso di restare con la moglie, anche se continuava a mantenere la ragazza, promettendole di provvedere in futuro anche per il bambino.

Vesna è sconcertata dalla grande sofferenza della sua amica, che è intrappolata fra l'amore per quest'uomo e la profonda rabbia per essere stata lasciata cadere. In tutto questo, quello che angoscia Vesna è che non vede alcuno spazio per il bambino, non vede spazio nel desiderio della madre, e la rimprovera soprattutto di non aver visto in tempo che la decisione giusta era quella di abortire, che l'uomo l'avrebbe delusa, e che lei avrebbe dovuto salvarsi prima.

In questo è riverberata la sua questione, la rabbia e la delusione della madre, ma nella tristezza per questo spazio di desiderio che non si apre per il bambino, c'è già in nuce la possibilità di una diversa elaborazione della sua venuta al mondo, e del desiderio di maternità, e quindi una nuova possibile prospettiva sulla questione della femminilità.

Queste sono le ultime fasi della cura, che si concluderà definitivamente a Dicembre 1998, dopo che Vesna avrà preso lavoro in un autogrill, dove fa i turni, e contemporaneamente porta avanti la scuola per estetista.

Adduce motivi di tempo, e infondo adesso si sente soddisfatta dei risultati raggiunti, Non ha più crisi bulimiche, ha il suo lavoro, si sente cambiata e vuole provare ad andare avanti da sé. Esprime anche un certo rammarico per l'interruzione del mio contratto, anche se non esclude la possibilità di proseguire la cura in studio, in un secondo tempo.

C'è una concomitanza di diversi fattori che, a mio avviso, contribuiscono a determinare questa interruzione, questo arresto.

Certamente il fatto che il mio contratto di consulenza con il CPS terminasse, ha influito sull'interruzione dei colloqui, ma probabilmente anche l'emergere delle nuove tematiche, la relativa pacificazione del sintomo e la "fuga nella guarigione", avrebbero probabilmente determinato un'interruzione, laddove la ripresa di un lavoro avrebbe reso necessaria una riformulazione della domanda.

Del resto io ho offerto alla pz. la possibilità di continuare il lavoro in Studio (su sua richiesta), offrendo anche un colloquio di stand-by, dopo le vacanze natalizie, e Vesna mi ha assicurato che, almeno per quel colloquio, sarebbe sicuramente tornata.

Diagnosi psichiatrica. (DSM III R)

Sull'asse primo si individua il disturbo di tipo bulimico, mentre sull'asse secondo si potrebbe parlare di un disturbo Borderline di personalità.

Ci potrebbe stare anche qualcosa rispetto al disturbo dell'umore, penso a questo stato depressivo così intenso, e anche alla tendenza all'indecisione, questo arrovellarsi su diverse ipotesi senza di fatto riuscire a mettere in atto alcun cambiamento; questo soddisfa i criteri della distimia secobdaria al disturbo sull'asse I, ma anche i criteri relativi al Disturbo Depressivo NAS. Del resto lo stato depressivo sottende spesso il disturbo medio-grave dell'alimentazione, ed è nominato anche all'interno dei criteri del disturbo sull'asse I.

Diagnosi psicodinamica.

Dal punto di vista psicodinamico, della clinica differenziale, inizialmente mi sono interrogata sulla possibilità della psicosi, soprattutto quando la pz. sembrava aderire alla questione del "quanto, come e che cosa mangiare", quando sembrava non distinguere completamente la questione del dietologo da quella dell'analista. C'era poi questo elemento del night-club, il fatto che la sola assenza dei riferimenti esteriori, il crollo dei punti di riferimento formali, gli orari, ecc., avessero prodotto in lei questa specie di black out, questa sensazione di non sapere più che cosa voleva, cosa provava,ecc., e che questo spaesamento sembrava però ancorarsi, come una specie di supplenza possibile, alla questione del cibo, come se ritrovare cosa, quanto e come mangiare potessero di per sè costituire una restaurazione possibile dell' ordine simbolico.

Anche l'assenza totale di vita sessuale, unita alla scelta della posizione un po' perversa dell'oggetto di godimento per eccellenza (l'entreineuse), accanto alla questione del trauma sessuale e alla paura di essere toccata, anche dal ginecologo, mi aveva indotto un qualche sospetto.

In senso strettamente Freudiano, per altro, con la questione delle mani, le mani dell'aggressore, le mani della madre, le mani del neonato, le mani che porgono il cibo, si potrebbe ipotizzare l'area del trauma infantile, la fantasmatizzazione e l'erotizzazione di tale trauma, ma tutto è da dimostrare, anche perchè il "sintomo" frigidità o assenza di godimento sessuale è molto a lato nel lamento della pz.

In oltre da subito la posizione nel discorso, la presa che indubbiamente ha avuto per lei il transfert, la rapidità con cui si sono mobilitate le associazioni e si sono messi in moto i significanti familiari, mi ha indotto a scommettere per la nevrosi.

Tale diagnosi si è poi rapidamente confermata nel seguito della cura, dove decisamente c'è un edipo messo in scena dalla pz., anche se c'è una difficoltà a trovare un posto in questo edipo. Il sintomo bulimico è ancora dell'ordine di una identificazione sociale, che permette l'appoggio alla questione del godimento materno (paura di diventare come la madre, la questione del sapere, a cui si lega poi la rabbia contro il padre, ma soprattutto contro l'insoddisfazione profonda della madre, che la soffoca). In questo senso si potrebbe dire che il cibo funziona più come oggetto fobico, separatore (come il cavallo per il piccolo Hans), che non come sintomo isterico.

Certamente non c'è isteria nel senso della conversione isterica, dell'istrionismo in senso psichiatrico, ma soprattutto c'è un difetto di simbolizzazione, noi diciamo c'è olofrasizzazione del discorso, cioè la pz. è ancora incollata (non psicoticamente) a sostenere il padre, e il romanzo familiare è più agito nel reale che non fantasmatizzato.

Anche la questione del "non lo so", del dubbio e dell'indecidibilità, che certamente hanno tutt'altro valore rispetto al rituale ossessivo, in una prospettiva psicodinamica possono aprire ad una questione depressiva, ma non come categoria clinica (depressione maggiore), ma come effetto di questa iscrizione nell'edipo di natura "debole", cioè questa difficoltà estrema a costruirsi come oggetto, e quindi a staccare un oggetto da investire libidicamente.

Commento sulla dinamica della cura

Ho voluto portare questo caso, anche se in un certo senso fa eccezione rispetto alla serie dei casi istituzionali, in quanto anche nell'istituzione non è infrequente imbattersi in domande abbastanza facili da agganciare ad un lavoro psicoterapeutico; queste psicoterapie sono possibili, anche se scandite da tempi diversi da quelli che si potrebbero esigere in una situazione classica (in un anno e mezzo con questa paziente io faccio 36 colloqui, meno di uno ogni 15 giorni, in media), eppure a ben guardare una certa qualità di ascolto, che è stato possibile e si è realizzato, ha prodotto delle scansioni, una specie di preliminare.

Si è senz'altro realizzata, a mio avviso, la condizione di estraniazione, l'incontro con l'alterità che i propri significanti messi in moto permettono, e questo di per sè ha prodotto una indubbia modificazione del sintomo, una sua minore incisività (le assunzioni di Guttalax spariscono subito, e progressivamente i ricorsi al cibo sono limitati al viaggio in Jugoslavia, e in seguito, molto ridotti in intensità, diventano poi delle strategie di avvicinamento dell'Altro sesso, dei cedimenti che permettono di tenere a bada la tirannia del super-io).

Inoltre penso sia un caso interessante perchè, pur non essendo una psicosi, rientra nella vasta casistica dei nuovi sintomi sociali, dei quali sono estremamente difficili sia la diagnosi che il trattamento, ed in cui è sempre un successo, a mio avviso, la realizzazione di un lavoro terapeutico a partire dalla prospettiva analitica, specialmente in ambito istituzionale.

Inoltre, last but not least, siccome credo che un altro degli obiettivi del seminario è quello di riuscire a rendere conto della propria prospettiva teorica, e alla luce di questa poter illustrare i passaggi clinici che si realizzano nello svolgimento effettivo della cura, credo che questo caso, con le sue scansioni abbastanza chiare, rettificazione, interpretazioni, caduta delle identificazioni, ecc., costituisca nel suo piccolo un esempio fortunato che ben si presta all'analisi e.....alle critiche!

 

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