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3. Lo psichiatra e il carcere

Tra le diverse figure che entrano a far parte del sistema complesso e confinato del carcere voglio ricordare, e non solo per comprensibile e vicino interesse, quelle sanitarie del medico e dello psichiatra. Quando il medico attua la sua opera diagnostica e terapeutica nei confronti del detenuto, questo acquisisce significati diversi rispetto al potere carcerario: da una parte é sub-ordinato, dall'atra é extra-ordinato. E' sub-ordinato perché, come tutti gli appartenenti al sistema, anche il medico deve sottoporsi a particolari procedure di controllo e di verifica per potere agire. E' invece extra-ordinato perché l'oggetto della sua conoscenza e del suo giudizio diagnostico e terapeutico é la sofferenza e la patologia del detenuto, che di per se naturalmente é indipendente dai fini del sistema. La malattia del detenuto, in relazione alle finalità del sistema, può essere solo compatibile o incompatibile; e infatti, nei casi in cui sorge questo problema, il medico o gli specialisti di varie branche sono impegnati a pronunciarsi su questo punto.
Diverso invece é l'agire dello psichiatra, anche per le diverse caratteristiche che assume la patologia mentale ed il disagio psichico. Esistono problematiche psicologiche di natura prevalentemente reattiva (ansia, insonnia, agitazione, depressione) che con la vita carceraria hanno rapporti diversi.
L'esperienza detentiva e la vita all'interno del carcere possono essere la causa, la concausa o il motivo, l'occasione di scatenamento o la condizione di mantenimento della sofferenza psicopatologica. Potrebbe anche darsi, in alcuni casi, che l'originaria e precipua struttura di personalità costituisca il primum movens del disturbo che si manifesta, perdurando poi anche in diversi eventi della vita nel carcere. Molto più spesso invece si tratta di patologie che si presentano proprio in occasione dell'esperienza vissuta all'interno del carcere, in particolare in relazione alle sue disfunzioni ed alle sue scissioni, che portano all'isolamento psichico del detenuto ed alla mancata considerazione della sua partecipazione e del suo consenso. In questi casi un compito dello psichiatra potrebbe essere allora quello di tentare una ridefinizione del problema, passare dalla diagnosi del sintomo ai suoi motivi, in uno sforzo di donazione di senso e di mediazione chiarificatrice con quelle parti disfunzionali del sistema in relazione alla patologia psicoreattiva al fine di riorganizzare e ricomporre il consenso tra le parti.
E' pur vero che lo psichiatra deve essere consapevole dell'aspetto di repressione/contenzione che a volte evoca la sua stessa funzione sociale, e che in carcere spesso assume una pregnanza ed una significatività perturbante. Bisognerebbe sforzarsi di bilanciare questi due aspetti: di contenzione e di terapia non potendo assumere nè un atteggiamento unicamente terapeutico (negando così gli aspetti repressivi del contesto detentivo) nè unicamente contenitivo e custodialistico (sottacendo così la possibilità di relazione e di cura).
In carcere la relazione con il detenuto è mediata da più figure di riferimento, e ad una complessità del contesto corrisponde una complessità della relazione, per cui diventa forse importante creare un'idea di gruppo terapeutico che sviluppare e mantenere la relazione con il detenuto/paziente.
In carcere non si può lavorare da soli; l'intervento terapeutico dovrebbe essere condiviso a vari livelli perché ciò può consentire la costruzione di un processo integrato e aderente alla realtà del contesto. Agire (e rispondere) in maniera unicamente individuale in carcere non è sempre congruente. Una personalizzazione eccessiva della relazione terapeutica può allora diventare fuorviante, destruente, improduttiva, fallimentare e, a volte, anche strumento di manipolazione.
La creazione di una equipe terapeutica (comprensiva di tutte la varie figure di riferimento) può forse dare un senso ed una risposta diversificata e non univoca alle richieste ed alle aspettative inadeguate e trasgressive del paziente/detenuto. Per questo sarebbe utile che i componenti dell'equipe si incontrassero periodicamente per un confronto ed una supervisione che permettesse così di riaggiustare continuamente la mira. Poter condividere in maniera consapevole all'interno del gruppo un atteggiamento terapeutico e non puramente “contenitivo” può ridurre proprio i comportamenti “disturbanti” che hanno indotto la repressione e lo stesso contenimento (ottenendo forse una sensibile riduzione dei fenomeni di acting-out e di autolesionismo reattivo).
Questo non significa certo perdere di vista o non essere consapevoli della pregnante significatività della relazione duale, ma l'ascolto della pluralità che segna in maniera così dilemmatica ed a volte inquietante il difficile mestiere dello psichiatra assume in carcere un confine sottile, e la normalità e la follia, la colpa e la trasgressione accompagnano il cammino della diversità in una conflittualità dolorosa ma pur sempre feconda.
In carcere la solitudine rimarca una ferita ed un vissuto di perdita antico e disperante, ma forse a volte la speranza é un rischio che pur si deve compiere. Fa parte del nostro lavoro, e della vita.

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