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Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah, UTET Libreria, Torino 2005

Vol. I — La crisi dell’Europa e lo sterminio degli ebrei, pp. XVII+1188

Vol. II — La memoria del XX secolo, pp. 932

(i due volumi in cofanetto Euro 95 — ISBN 88-02-07269-8)

[ Quest’opera di epocale importanza — che tanta fortuna ha conosciuto fuori dai nostri confini nazionali — non è stata ancora intercettata da un numero sufficientemente ampio di lettori italiani. Perciò riproponiamo nella nostra rubrica alcune pagine di carattere introduttivo che forniscono ai lettori di POL.it un’immagine complessiva di questa fondamentale e insostituibile Storia della Shoah. Abbiamo eliminato le note, per rendere più agile ed essenziale il messaggio ]

Vol. II, Parte Prima

Introduzione

Una delle più note riflessioni di Marc Bloch sulla Prima guerra mondiale riguarda il diffondersi di "false notizie". Sulla base della propria esperienza personale e dei propri ricordi, Bloch notò come nel corso del conflitto nascessero e si diffondessero "voci" e "notizie" che riguardavano l’andamento dei combattimenti, il comportamento dei nemici, la disponibilità o la carenza di rifornimenti e vettovaglie. In particolare lo storico francese si soffermò sulla diffusione di "false notizie" che riguardavano le "atrocità" commesse dai nemici e che si rivelavano in un secondo tempo, nella maggior parte dei casi, esagerazioni o vere e proprie invenzioni. È possibile suggerire oggi, invece, che durante la Seconda guerra mondiale, a proposito dell’Olocausto, "false notizie" furono spesso considerate le informazioni

veridiche e corrette che trapelavano sull’orrore dei campi o sui massacri sul fronte orientale. Attraverso un meccanismo capovolto rispetto a quello studiato da Bloch, fu la realtà a essere considerata irreale, e le "false notizie" consistettero piuttosto nelle diminuzioni, falsificazioni o negazioni (durante e dopo l’Olocausto) di avvenimenti realmente accaduti. Questi opposti fenomeni avevano in comune un fatto — notato da Bloch nel caso della Grande guerra: "L’errore si propaga, si amplia […]. In esso gli uomini esprimono inconsapevolmente i propri pregiudizi, gli odi, le paure, tutte le proprie forti emozioni". Si potrebbe sostenere che le dimensioni e la natura della Shoah condussero gli uomini a sminuire, falsificare o negare quegli eventi per l’incredulità, la paura e l’orrore che essi suscitarono nei contemporanei e nei posteri.

Questo confronto può gettare luce sulla frattura epistemologica segnata dall’Olocausto rispetto alle possibilità dell’immaginazione, della comprensione e del ricordo. Di ciò furono consapevoli fin da principio sia i carnefici, che sostennero con tracotanza che la storia dello sterminio degli ebrei mai sarebbe stata scritta e sarebbe comunque risultata incredibile, sia le vittime, che temettero di non essere credute e nemmeno ascoltate. Il linguaggio stesso dei nazisti era stato elaborato anche allo scopo di mantenere la segretezza su quanto si stava compiendo ed essi si preoccuparono costantemente di cancellare ogni traccia dei loro delitti, distruggendo anche gli strumenti dello sterminio

poco prima dell’abbandono dei campi di fronte all’avanzata degli Alleati. Anche per questo è stato detto: "l’oblio del genocidio fa parte del genocidio". In risposta a ciò e di fronte alle mostruose dimensioni e alla natura di quanto era avvenuto, l’Olocausto ha fin da principio richiesto i maggiori sforzi collettivi dell’immaginazione, della memoria e della rappresentazione, rispetto forse a ogni altro evento storico. A questi sforzi e a questi processi — che riguardano ogni evento storico, ma si sono dimostrati centrali e straordinariamente sviluppati in questo caso — sono dedicate le riflessioni e le ricostruzioni sia storiche sia teoriche raccolte in questo volume.

Diversi interpreti hanno sottolineato l’apparente paradosso per cui man mano che l’evento storico dell’Olocausto si è allontanato nel tempo, sono cresciuti lo spazio che esso ha nella coscienza collettiva e la presenza e il peso della sua memoria. La centralità e le dimensioni della memoria dell’Olocausto — evento spartiacque, collocato alla metà del secolo — si è estesa fino a caratterizzare, quasi a inglobare, l’intero Novecento: illuminando di una luce sinistra o gettando un’ombra oscura non solo sugli eventi successivi, ma anche su quelli precedenti la Shoah. Alla fine del XX secolo si poteva sostenere con fondamento che Auschwitz fosse divenuto il simbolo del secolo intero e che esso avesse trasformato, o perlomeno profondamente segnato, le concezioni dell’uomo, della morale,

del diritto, della politica e della storia nell’Occidente. Questo sviluppo non era tuttavia scontato: ha conosciuto una lunga evoluzione attraversando fasi diverse, ha coinvolto ambiti di riflessione ed elaborazione differenti, ha conosciuto contrasti, resistenze, conflitti, tipici della memoria individuale e collettiva in genere — e tanto più influenti per eventi radicali e traumatici come l’Olocausto.

Con il trascorrere del tempo pare oggi necessaria una mappatura e una storicizzazione di questi processi che attraversi i diversi ambiti della conoscenza, dell’interpretazione e della rappresentazione che hanno contribuito a "costruire" nella coscienza collettiva l’Olocausto, al di là della sua dimensione puramente fattuale. Testimoni, storici, filosofi, scienziati sociali, teologi; ma anche tribunali, istituzioni pubbliche e private (governi, musei, monumenti, commissioni storiche); letterature, arti, film, fotografie, hanno costituito nel tempo l’insieme di eventi che chiamiamo, spesso in modo equivalente e intercambiabile, Olocausto, Shoah, Genocidio degli ebrei, attraverso ricordi, interpretazioni, rappresentazioni, variamente intrecciate e reciprocamente influenti.

Ne hanno formato un racconto, ne hanno cercato spiegazioni, proposto rappresentazioni reali o fittizie, prodotto e diffuso simboli. Un tale insieme di elaborazioni ha costituito non solo una memoria di quegli eventi, ma quella che è stata chiamata una "post-memoria" e che può essere pensata anche come una condensazione ulteriore di proiezioni e rappresentazioni sempre più slegate dagli eventi specifici e dal loro ricordo diretto, e talora trasformate in meri simboli, per quanto universali. "Divenendo storico", è stato notato, "il fenomeno ha assunto un significato sovrastorico". D’altra parte questa riduzione, o sublimazione, dell’Olocausto in un simbolo — ad esempio il cancello di Auschwitz o la cifra dei sei milioni di vittime (senza nulla togliere alla loro tragica concretezza storica) — pare per certi versi necessaria nella rappresentazione e memoria della Shoah, a sostituire o compensare "la narrazione appropriata, che manca all’evento stesso". La costruzione di metafore e simboli è un processo tipico della coscienza collettiva: ciò che ha colpito alcuni interpreti di questi fenomeni sono state quelle rappresentazioni estetizzanti e banalizzanti degli eventi dell’Olocausto, che hanno talora suscitato una contemplazione compiaciuta e morbosa del nazismo, o hanno trivializzato e svuotato la violenza del genocidio. L’estetizzazione della violenza è un fenomeno che non riguarda, del resto, solo le rappresentazioni del genocidio ebraico e così anche la sua banalizzazione. Per le dimensioni e la natura dell’Olocausto è possibile che siano tuttavia all’opera ulteriori meccanismi di distanziamento e di rifiuto psicologico degli eventi.

La massificazione dei simboli dell’Olocausto ha reso sì immediatamente riconoscibili quelle che sono divenute vere e proprie "icone dell’atrocità", d’altra parte essa le ha anche svuotate del loro significato storico e in un certo senso della loro effettiva referenzialità e pregnanza. D’altra parte, per apparente paradosso, almeno negli anni più recenti sono stati soprattutto prodotti dell’industria culturale, sui quali il giudizio è stato del resto spesso divergente, che hanno segnato una sempre maggiore presa di coscienza degli eventi della Shoah e delle loro implicazioni e conseguenze: pensiamo ad esempio al telefilm americano della fine degli anni Settanta Holocaust o al film hollywoodiano degli anni Novanta Schindler’s List. E prima ancora veri e propri fenomeni letterari come la pubblicazione e diffusione, alla fine degli anni Cinquanta, del Diario di Anna Frank: una rappresentazione certo non banale o banalizzante dell’Olocausto, ma che è innanzitutto la riflessione di una ragazzina sulla vita, la guerra, le persecuzioni — ma non lo sterminio: che segnò tragicamente il suo destino, ma che Frank non poté testimoniare. Il suo successo, attraverso rappresentazioni teatrali e cinematografiche, fu dovuto anche alla possibilità di universalizzarne la figura (annebbiando ad esempio le sue caratteristiche ebraiche) e, per certi versi, di rimuoverne la fine violenta, che non poteva essere presente nel libro.

Altro aspetto di grande rilievo delle vicissitudini della memoria dell’Olocausto è stata la sua graduale istituzionalizzazione, che ha raggiunto l’apice nel corso degli anni Novanta del secolo scorso. Si è trattato del graduale affermarsi di ciò che è stato chiamato il "dovere del ricordo", una tendenza che — contrariamente a quanto si potrebbe ritenere — non ha caratterizzato l’insieme dei decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale, ma è emersa da una lunga stagione di eclissi della memoria, durata certamente per gli ultimi anni Quaranta e gran parte degli anni Cinquanta. In quel periodo tacquero buona parte degli storici e le testimonianze dei superstiti, anche di pregio letterario, vennero marginalizzate se non rifiutate (celebre il caso della prima sfortuna di Se questo è un uomo di Levi; ma anche la fredda accoglienza e le difficoltà

incontrate da Raul Hilberg al principio della sua fondamentale ricerca sulla Distruzione degli ebrei d’Europa). La prima svolta nella storia della memoria e della sua diffusione fu segnata, com’è noto, dal processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961.

Questa tendenza ha condotto nel tempo a una monumentalizzazione della memoria dell’Olocausto, che ha avuto il pregio di fissare in forme concrete e riconosciute il ricordo pubblico di quanto era avvenuto — fino a farne una sorta di "religione civile". Essa ha però prodotto da un lato il distacco e il distanziamento tipico del passaggio dall’"era della memoria" all’"era della commemorazione", dall’altro una diffusione pervasiva della memoria, che ha condotto sempre più spesso a una generale confusione — e sostituzione — della storia con la memoria. È invece evidentemente fondamentale continuare a distinguere la storia, ricostruita sui "documenti", e la memoria, costruita sui "monumenti": anche se alcuni storici hanno avvertito l’esigenza, se non la necessità, di includere la voce delle vittime e dei testimoni della ricostruzione storica.

I motivi che hanno fatto degli anni Novanta un momento di svolta nella coscienza e istituzionalizzazione della Shoah sono molteplici e non è facile stabilire quale abbia avuto maggiore influenza o si sia manifestato prima e con più forza. Quasi tutti i saggi del presente volume e del quarto periodizzano le fasi di oblio, recupero e piena affermazione della memoria della Shoah in forme che, seppure non omogenee, sembrano rispondere a spinte condivise e caratteristiche comuni.

La mancata diffusione — dopo i primi tentativi compiuti dagli angloamericani con la popolazione tedesca e presto abbandonati — delle immagini della liberazione dei campi e dei cadaveri e dei resti delle vittime, nonché del modo in cui erano raccolti i beni sottratti loro e ai loro corpi, ha certamente seguito le fasi "politiche" della guerra fredda, ma anche la sensibilità per le immagini sempre più dominata dalle reti televisive: ed è in questo contesto e in questa cornice che gli sforzi di fare conoscere gli eventi e imporre una riflessione più approfondita da parte di storici e filosofi, scrittori e artisti si è potuta dispiegare trovando spazi sempre più ampi.

Anche il tormentato rapporto tra lo scrittore e il testimone — di cui sono stati protagonisti Primo Levi, Jean Améry e, in modo diverso, Elie Wiesel (si veda il saggio di Alberto Caviglion nel quarto volume) — ha trovato successivamente una sua evoluzione; inserendo il proprio destino nell’ambito più largo della storia europea e non solo in quella del genocidio, come ricorda Catherine Coquio a proposito dell’autobiografia di Ruth Klüger. Certamente la presenza, qualitativa ma anche quantitativa, delle memorie dei bambini sopravvissuti alla Shoah o dei figli dei "sommersi e salvati", ha contribuito non poco a trasformare negli anni Ottanta e Novanta il panorama che già la storiografia

aveva radicalmente modificato e che aveva permesso di portare a livello di massa (nelle scuole e nei mass media) un tema precedentemente circoscritto. Così come non va sottovalutato il ruolo svolto da alcuni processi (Papon, Touvier, Demianiuk, Barbie) e la nuova direzione intrapresa dal diritto internazionale nel confronto con i nuovi genocidi e crimini contro l’umanità soprattutto nel decennio che segue la caduta del Muro di Berlino.

È stato notato, d’altra parte, che, ironicamente, la monumentalizzazione (attraverso memoriali, monumenti, musei) rappresenta anche un disimpegno dall’obbligo di ricordare, un sollevarsi dal peso della memoria: "l’impulso iniziale alla memorializzazione [to memorialize] di eventi come l’Olocausto deriva forse, in effetti, da un desiderio speculare ed opposto di dimenticare". In questo processo di "memorializzazione" si è infine potuti giungere al principio del XXI secolo all’imposizione del ricordo dell’Olocausto attraverso leggi dello Stato nei principali paesi europei (1997-2000), o alla sua sanzione da parte di organismi internazionali quali l’ONU (2005).

Uno degli aspetti che sono al centro dell’istituzionalizzione della memoria, della sua dilagante presenza, del suo successo, ma anche dell’incipiente senso di saturazione ed estraniamento che questi processi hanno iniziato a produrre, è la questione della vittimizzazione, come caratteristica centrale della memoria dell’Olocausto. La celebrazione del ruolo delle vittime — senza voler affatto diminuire qui la tragedia, l’orrore e l’indiscutibile realtà dello sterminio — si è accentuata nel tempo, è stata uno dei canali di affermazione della memoria: ne ha garantito il crescente successo grazie ai meccanismi di identificazione e personalizzazione, ma ha suscitato anche reazioni di ambivalenza, se non di rigetto, di quella memoria. L’identificazione con le vittime può infatti offrire sensazioni piacevoli, ma suscita anche disagio e provoca desiderio di estraniamento: tanto più se le vittime appartengono prevalentemente a un gruppo specifico — gli ebrei —, mentre la coscienza collettiva richiede o reclama narrazioni e simboli di sofferenza universale. Certamente la fondamentale centralità dell’aspetto della vittimizzazione nella memoria dell’Olocausto — come in fondo lo stesso affermarsi e diffondersi in genere di questa memoria in tempi recenti — è stato anche il frutto del declino delle narrazioni eroiche, antagonistiche e militanti dell’era post-ideologica. Così, ad esempio in Italia, il Giorno della memoria ha potuto affiancare o addirittura prendere il sopravvento, nelle celebrazioni pubbliche ma anche nel calendario dell’educazione scolastica e in genere nella partecipazione collettiva, sul 25 aprile, festa della Liberazione. La produzione di immagini dell’Olocausto, sia artistiche sia fotografiche, iniziò nel corso dell’Olocausto stesso con propositi diversi sia da parte delle vittime sia (nel secondo caso) da parte dei carnefici. Ma la rappresentazione in genere, ad esempio quella letteraria, comportò e comporta qui la sfida artistica ed epistemologica dell’intepretazione e riproduzione di vicende ed esperienze che si collocano ai limiti dell’immaginazione. Alcune voci autorevoli si espressero contro la possibilità di un’interpretazione poetica o finzionale di Auschwitz; altri ritennero che soltanto l’immaginazione artistica potesse condurre se non a una comprensione, almeno ad avvicinarsi alla realtà dello sterminio e al destino delle vittime che — "sommerse" — non potevano più testimoniare l’orrore. È stato scritto, tuttavia, a proposito dell’Olocausto: "Per sapere occorre immaginare […]. Per ricordare occorre immaginare".

Questo tema complesso si è riproposto all’attenzione con lo scandalo che ha accompagnato la scoperta che l’autore di una delle più acclamate memorie di fine secolo — Binjamin Wilkomirski — si era inventato un’identità e aveva costruito efficacemente la propria immagine di bambino sopravvissuto e immerso nel silenzio e nella rimozione del dopo-Shoah. Non si trattava solo di una caso moralmente riprovevole d’inganno e falsità, come per lo più si è voluto interpretare; ma della testimonianza inoppugnabile di come alla fine del XX secolo la conoscenza (fattuale ma anche emotiva e psicologica) della Shoah rendeva possibile l’invenzione stessa della memoria; e di come l’abitudine e l’attenzione alla memoria da parte di un pubblico sempre più vasto forniva legittimità all’invenzione e verosimiglianza a una lettura che s’inseriva in una produzione ormai sterminata.

Il confine tra autenticità e verità, nel caso della Shoah, è stato paradossalmente reso più ambiguo e sottile dalla sua presenza massiccia e continua soprattutto negli ultimi quindici anni. Nel film del regista polacco Dariusz Jablonski — Fotoamator (Il fotografo) — un sopravvissuto del ghetto di Lódz, che accompagna con i suoi ricordi l’intero film, parlando delle foto scattate da un "ordinario" nazista, preoccupato solamente del risultato cromatico dei propri scatti, sosteneva che "erano reali, ma non mostravano la verità". Il rapporto dell’autenticità del documento con la verità di chi si fa interprete e giudice dei fatti e degli eventi storici accompagna, del resto, tutto il dibattito storiografico

e non solamente quello, più recente, legato alle vicende del postmodernismo.

L’immaginazione, malgrado le manipolazioni che si possono costruire attorno a essa, costituisce un elemento necessario della conoscenza e del ricordo.

Pochi anni dopo la fine dell’Olocausto, Hannah Arendt scriveva: "Solo l’immaginazione ci permette di vedere le cose nella giusta prospettiva […] Ci dà la generosità per colmare gli abissi che ci separano da ciò che è troppo lontano da noi […] Senza questo genere di immaginazione, in cui effettivamente consiste la comprensione, non saremmo mai capaci di orientarci nel mondo".

È possibile quindi che, accanto e assieme alle voci dei testimoni, alle ricostruzioni degli storici, allo sforzo e all’impegno della memoria — e in buona parte a fondamento di ciascuna di queste attività — la risposta dell’uomo di fronte alla negazione dell’umanità nell’Olocausto sia la prosecuzione e la perpetuazione dell’immaginazione come luogo di fondamento della dignità e libertà umana, che accoglie, garantisce continuità e trasforma la testimonianza, il ricordo, la storia.

Marcello Flores

Simon Levis Sullam

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