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George E. Atwood, Robert D. Stolorow, Volti nelle nuvole. Intersoggettività nella teoria della personalità, traduzione di Franco Paparo e Franca Forquet, Edizioni Borla, Roma 2001.

"Per comprendere il vivente, bisogna prendere parte alla vita "

(Viktor von Weizsäcker, Filosofia della Medicina)

Poeti e scrittori sono ben consapevoli che, quando parlano e scrivono, parlano sempre e solo di se stessi. Anche i lettori sanno che, quando leggono, riscrivono il testo. Ben più complessa è la questione nel campo delle scienze umane, dove i diversi teorici tendono a voler oggettivare le proprie concezioni, cercando di abbracciare come un tutto la loro visione parziale.

In questo libro, dal titolo suggestivo, Atwood e Stolorow dimostrano in maniera convincente quanto lo sviluppo del pensiero e delle teorie psicoanalitiche siano intimamente collegati alla storia personale del loro creatore.

Il volume è articolato in sei capitoli. Il primo tratta della teoria della personalità e della soggettività; i quattro centrali sono dedicati all’analisi psicobiografica dei teorici della personalità: Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Wilhelm Reich e Otto Rank; il capitolo conclusivo, "Dalla soggettività della teoria a una teoria dell’intersoggettività", definisce l’essenza del pensiero dei due autori.

Nel primo capitolo viene rilevato come la storia della psicologia, e della psicoanalisi in particolare, si sia sviluppata attraverso un processo di inarrestabile diversificazione e frammentazione di teorie, ognuna delle quali tende a presentarsi come il fondamento di una scienza dell’uomo. Alla base delle diverse "supposizioni metapsicologiche" è il "dominio del pensiero psicologico speculativo, ben lontano dalla realtà empirica delle persone", come poeticamente evocato dal titolo del libro. Ne deriva che, in contrapposizione alle scienze naturali, in cui la conoscenza si sviluppa per cumulazione progressiva e approfondimento delle nozioni, la ricerca psicologica sulla personalità umana non porta a risultati cumulativi. Attraverso il metodo "psicobiografico" (che interpreta sistematicamente le idee metapsicologiche delle teorie della personalità alla luce delle esperienze formative critiche nella vita dei vari teorici) sarebbe possibile evidenziare le "origini soggettive delle dottrine metapsicologiche universalizzate". Anche il teorico della personalità è quindi "una persona che guarda il mondo da una prospettiva limitata della sua soggettività".

Gli autori citano Jung, che osservava che "in psicologia il mezzo con il quale si studia la psiche è la psiche stessa… l’osservatore è l’osservato. La psiche non è solo l’oggetto, ma anche il soggetto della nostra scienza". Ciò significa che i fenomeni empirici del mondo umano si presentano in modo diverso a seconda della prospettiva dell’osservatore. La particolarità del contesto psicologico dal quale il teorico della personalità osserva la realtà garantisce che la sua interpretazione sarà focalizzata su caratteristiche selezionate del campo empirico e che nelle sue eventuali costruzioni teoriche saranno ingrandite le specifiche dimensioni della condotta umana che hanno corrispondenze con la sua propria visione pre-teorica dell’uomo.

Viene poi ricordato che ogni teoria della personalità deriva idee e concetti anche dal campo sociale esterno nel quale il teorico vive e lavora (Weltanschauung scientifica prevalente nell’ambiente storico-culturale dell’epoca).

Gli autori stessi accennano, brevemente ma in modo significativo, alla vicinanza dei temi da loro trattati in questo libro con il concetto psicoanalitico di contro-transfert (cioè il riconoscimento della soggettività delle esperienze dellanalista sotto forma di manifestazioni di contro-transfert), in quanto essi interpretano le ipotesi metapsicologiche delle varie teorie come riflessi di atteggiamenti contro-transferali particolari, che devono essere inquadrati in una cornice di riferimento più generale.

Vengono quindi descritti, e nello stesso tempo criticati, diversi possibili tentativi di "aggirare la soggettività": si parte dal più radicale, il comportamentismo, per passare poi all’oggettivismo metodologico e alla fenomenologia.

Il capitolo si conclude con l’illustrazione del "metodo dello studio del caso", che verrà applicato per esaminare i quattro sistemi metapsicologici della teoria della personalità (la teoria pulsionale di Freud, la concezione dell’inconscio collettivo transpersonale di Jung, la teoria di Reich della bioenergia orgonica e quella di Rank della volontà).

Degli affascinanti studi psicobiografici sui quattro psicoanalisti mi ha colpito in particolare la lettura della relazione tra la storia della vita di Reich e l’evoluzione del suo lavoro scientifico: secondo Atwood e Stolorow "il suo sistema intellettuale, preso come un tutto, è una rete di idee e di immagini profondamente influenzata dalla tragedia della sua esistenza personale". Ancora bambino, Reich scoprì l’infedeltà della madre e la comunicò al padre; tale rivelazione porterà la donna al suicidio. Attorno a questo conflitto predominante ruoterebbero, secondo gli autori, gli scritti di Reich. Centrale è la sua teoria della "corazza caratteriale": un sistema difensivo conseguente a esperienze infantili patogene, che si manifesterebbe nell’intero carattere del paziente, "comprese la postura e le espressioni muscolari". Il metodo psicoterapeutico dell’ "analisi del carattere" avrebbe lo scopo di dissolvere la corazza, strato dopo strato, e di liberare gli impulsi biosessuali, profondamente soppressi, del paziente. L’interesse di Reich si sposterà dagli individui a un programma di prevenzione per una riforma addirittura della società, con una massiccia generalizzazione della sua precedente teoria. La "corazza biologica", che egli riteneva responsabile del corso disastroso della storia umana, sarebbe strettamente legata alla personalità del suo "creatore", alla condanna morale, alla gelosia e all’odio che in lui erano originariamente scissi per l’impatto del suicidio della madre. Gli autori concludono che, "come per tutte le fantasie messianiche di salvazione, la lotta di Reich per condurre l’uomo fuori dalla trappola era un tentativo di salvare il mondo da un problema dal quale egli stesso era afflitto".

Se questo, a mio parere, è l’esempio più eclatante, qui riportato, a favore del riconoscimento dell’inevitabile soggettività delle varie teorie, nondimeno significativi sono i capitoli dedicati agli altri tre psicoanalisti.

Per quanto riguarda Freud, il suo desiderio di ristabilire e preservare una precoce immagine idealizzata della madre lo accompagnerebbe, secondo gli autori, per tutta la vita, influenzando la ricostruzione della sua storia della prima infanzia, la scelta degli studi, le relazioni adulte importanti e le sue idee teoriche.

Jung, con i suoi postulati dei due atteggiamenti umani fondamentali, "introversione" ed "estroversione", avrebbe lottato fin dall’infanzia per risolvere i problemi e i conflitti con una doppia personificazione di sé.

In Rank le radici "sia della sua comprensione del narcisismo che della sua attenzione unilaterale ad esso" sarebbero strettamente legate alle gravi deprivazioni subite negli anni precoci e a traumi narcisistici ripetitivi e rovinosi, nelle aree sia del sé grandioso che dell’imago genitoriale idealizzata. Lo sviluppo delle sue teorie può essere visto, secondo i due psicoanalisti, come "un processo di progressiva sintesi, riassunto, generalizzazione dei temi narcisistici in una psicologia dell’uomo omnicomprensiva".

Nell’ultimo capitolo viene inizialmente ripreso il ricco materiale fornito dalla letteratura riguardo le critiche alla metapsicologia psicoanalitica, sia per particolari costrutti che per l’intera sovrastruttura metapsicologica: quelle che vogliono sostituire la metapsicologia con una migliore e quelle che la mettono in discussione in sé e per sé e cercano di eliminarla dalla teoria psicoanalitica. A queste ultime critiche sarebbe più vicino il pensiero dei nostri autori, che considerano la metapsicologia "un problema che ha afflitto non soltanto la psicoanalisi classica, ma in generale la psicologia della personalità". Ciò sarebbe da mettere in relazione con l’inadeguata differenziazione della psicologia della personalità dalle immagini delle scienze naturali e con la sua valenza di funzione restitutiva, difensiva e riparativa. Le reificazioni metapsicologiche, o più ampiamente le concretizzazioni dell’esperienza, sarebbero "una strategia difensiva ubiquitaria che compare in una larga varietà di prodotti psicologici, che vanno dalle grandi ideologie filosofiche a ‘miti personali’, altamente idiosincrasici, a proposito della natura dell’universo e dell’esistenza umana". Ne deriverebbe la necessità di una "teoria della stessa soggettività", che funga da cornice di riferimento unificante per spiegare non soltanto i fenomeni psicologici che riguardano le altre teorie ma anche le teorie stesse.

Atwood e Stolorow al riguardo sono arrivati a sviluppare la "teoria dell’intersoggettività": "una teoria di campo o teoria sistemica, in quanto cerca di comprendere fenomeni psicologici non come prodotti di meccanismi psichici isolati, ma come formati nell’interfaccia di soggettività reciprocamente interattive". D’altra parte, la dimostrazione dell’impossibilità di comprendere i fenomeni psicologici prescindendo dai contesti intersoggettivi nei quali essi prendono forma è sicuramente il filo conduttore che ci accompagna nella lettura di ogni pagina del libro.

All’interno di questa nuova cornice di riferimento, gli autori analizzano le conseguenze per le questioni e i problemi clinici fondamentali nella pratica terapeutica della psicoanalisi. Vengono così riconsiderati il concetto dei processi mentali inconsci (in particolare il passaggio da una concezione di inconscio dinamico basato sulle pulsioni a uno basato sull’affettività) e l’approccio all’analisi del transfert (nella dimensione dell’oggetto-sé, sulla scia di Kohut, e in quella ripetitiva). Segue poi una discussione dei contesti intersoggettivi di problemi metapsicologici e metafisici: il sé (critica al "sé sovraordinato" di Kohut), la mente e il corpo, il reale. Il libro si chiude con alcune riflessioni sulle origini soggettive della teoria intersoggettiva esposta dagli autori, quindi con una sorta di autoanalisi.

Se è vero che "il pensiero si compie solo nel pensiero che lo confuta", [1] possiamo concludere che se da un lato la soggettività segna sicuramente il limite di ciascuna teoria, legata così strettamente alla personale biografia, pur tuttavia può rappresentare un propulsore estremamente fecondo, laddove le esperienze individuali, anche più traumatiche e precoci, possono essere messe al servizio della comprensione di sé e degli altri. Del resto, come già notato dalla McWilliams in La diagnosi psicoanalitica, [2] pazienti diversi hanno ognuno un modo proprio di rendere rilevanti teorie o modelli differenti. Nella nostra pratica psicoterapeutica possiamo facilmente constatare come una persona riesca a stimolare una riflessione sui concetti di un teorico, mentre un’altra richiama un tipo descritto da un altro teorico. Nell’ottica della "intersoggettività nella teoria della personalità" delineata da Stolorow e Atwood se da un lato non c’è da sorprendersi se esiste un numero così elevato di concezioni alternative, dall’altro proprio questa eterogeneità può essere favorevolmente sfruttata in modo selettivo per diversi tipi di pazienti. Nondimeno, a mio avviso, questo è, entro certi limiti, applicabile anche ai terapeuti, tanto che spesso siamo soliti dire che ognuno di noi ha i pazienti che la sua storia gli consente di avere.

Il fatto, sottolineato dagli autori, che il contesto intersoggettivo possa avere un ruolo costitutivo nelle diverse forme di psicopatologia mina alla base il concetto stesso di psicodiagnosi, perché "ciò che viene diagnosticato non è l’organizzazione psicologica del paziente vista in isolamento, ma il funzionamento dell’intero sistema terapeutico". In questo modo si potrebbero chiarire un vasto insieme di problemi clinici, che comprendono le reazioni terapeutiche negative, le fasi di ristagno terapeutico e stati borderline, o persino psicotici, che compaiono durante l’esperienza analitica.

I due psicoanalisti ci ricordano in proposito che "non è la mente individuale isolata, ma il sistema più largo creato dal gioco reciproco tra i mondi soggettivi di paziente e analista, o del bambino e di chi si prende cura, che costituisce il dominio proprio dell’indagine psicoanalitica".

GIANCARLO STOCCORO

 

 

NOTE

E. Jabès, Il libro della condivisione, tr. it., Raffaello Cortina Editore, Milano 1992, pag. 85.

2 N. McWilliams, La diagnosi psicoanalitica, tr. it., Casa Editrice Astrolabio, Roma 1999, pag. 40.

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