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GIOVANNI STANGHELLINI, Antropologia della vulnerabilità, Feltrinelli, Milano 2005 (ristampa), pp. 212

GIOVANNI STANGHELLINI, Disiembodied Spirits and Deanimated Bodies. Psychopathology of Common-Sense, Oxford University Press, 2004

 

Al tema della vulnerabilità psichica, molto dibattuto nella psichiatria clinica anglosassone e continentale degli ultimi vent’anni, è dedicato il saggio di Giovanni Stanghellini edito per la prima volta da Feltrinelli nel 1997 ed ora disponibile nella ristampa del 2005.

I lettori di POL.it già conoscono questo autore (psichiatra al DSM di Firenze e docente all’Università di Chieti), che ha recentemente ripreso e sviluppato i temi del saggio feltrinelliano nella direzione di un approfondimento dei rapporti tra psichiatria clinica e filosofia [ http://www.pol-it.org/ital/filosofia2.htm ] ed anche — in un suo libro recente pubblicato nel 2004 presso la Oxford University Press — nella direzione di uno sviluppo delle tematiche di psichiatria fenomenologia e nella prospettiva di rivitalizzare l’ "anima filosofica" della psicopatologia [ una versione italiana del capitolo su "I sensi del senso comune" è stato già anticipato ai lettori di POL.it nella sezione epistemologica;URL: http://www.pol-it.org/ital/sensocomune.htm ].

Anche nel linguaggio comune si usa spesso l’aggettivo vulnerabile, per indicare la fragilità psicologica di una persona: e si dice, solitamente, che qualcuno è o diviene vulnerabile sia perché colpito o stressato da avvenimenti, da stimoli esterni, sia perché, per sua natura, per sua costituzione, non sa o non riesce ad affrontare le prove e le difficoltà della vita. Questo duplice registro della vulnerabilità, presente anche nel buon senso comune, è stato esplicitato dalla medicina occidentale già negli scritti di Galeno, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo. Cause esterne (dieta, regime di vita, ambiente fisico e sociale, eccetera) e cause interne (cioè fattori geneticamente determinati come il temperamento e le predisposizioni patologice inerenti ai corpi), concorrono a produrre la malattia. Una prospettiva, come diremmo oggi, olista (da òlon, che in greco vuol dire tutto) e multifattoriale, appartiene dunque alle origini del sapere medico occidentale. Anche la psichiatria nascente, nei primissimi anni del XIX secolo, riprende e riarticola questo punto di vista, a partire dalla figura di Filippo Pinel, il padre fondatore della clinica psichiatrica moderna.

Stanghellini, psichiatra di scuola fenomenologica, rivaluta a più riprese la rottura epocale introdotta da Pinel. Nel nome di Pinel dà inizio al suo avvincente saggio. Sentiamo: "Così come ogni uomo va in cerca di un padre, ogni pensiero va in cerca di una tradizione". Ed in psichiatria questa ricerca di una tradizione antropologica, "questa ricerca del padre, ci conduce alle soglie dell’Ottocento, alla rivoluzione borghese, e al cittadino Philippe Pinel". Chi, come lo scrivente, ha dedicato a Pinel ed alle origini della psichiatria moderna molto lavoro di carattere storico ed epistemologico, non può che rallegrarsi di trovare riaffermata, nel testo di uno psichiatra clinico — una delle voci più interessanti della scuola antropologico-fenomenologica italiana — l’importanza strategica della rivoluzione pineliana. A Pinel — ma, voglio aggiungere, anche e soprattutto al suo erede, il grande Esquirol — risale un nuovo punto di vista sulla follia: la follia non è quasi mai totale, non annichilisce quasi mai interamente la ragione umana. La follia — ed il suo fenomeno più direttamente visibile, il delirio — è parziale. Rimane sempre vivo, nel folle, come dirà Hegel, lettore di Pinel, un resto di ragione: proprio puntando su questo "resto", cioè su quella che oggi viene chiamata la parte sana dell’io, è possibile comprendere, curare e guarire la malattia mentale. Di più: la pineliana "mania senza delirio", autentica rottura epistemologica rispetto alla tradizione medica occidentale, rende accessibile e comprensibile anche un particolare tipo di follia, che si sviluppa attorno a problemi di carattere affettivo e passionale e che coesiste con il mantenimento e con l’integrità delle facoltà intellettuali. Tra il normale ed il folle esiste insomma una strana ed inquietante continuità: una continuità che sembrò scandalosa a molti (medici, magistrati, moralisti) nel primo Ottocento, ma che oggi rappresenta la condizione di possibilità di ogni comprensione e di ogni efficace terapia del soggetto "alienato".

Questa stessa continuità viene oggi ribadita e ridefinita anche attraverso l’utilizzo di un concetto elaborato dal filosofo Edmund Husserl, all’interno della sua fenomenologia: il concetto di epoché. L’epoché fenomenologica è la messa tra parentesi del mondo, "la sospensione volontaria del senso comune", la "perdita dell’evidenza naturale", il "disancoraggio dalla realtà consensuale", dalla realtà condivisa da parte dei membri della comunità di appartenenza.

Su questo tema cruciale lo psichiatra ad orientamento fenomenologico Lorenzo Calvi ha già scritto pagine illuminanti, ora disponibili anche al lettore di POL.it [alla URL http://www.pol-it.org/ital/calvi2005.htm ].

L’eccessiva inclinazione o l’eccessiva resistenza all’epochè costituiscono "la condizione che predispone alla patologia mentale". La stessa condizione che sta, secondo Husserl, alla radice dell’attività filosofica e, potremmo aggiungere, dell’attività creativa, è dunque una sorta di Giano bifronte: sospesa tra l’abisso della disintegrazione schizofrenica e lo spazio aperto del pensiero e della creatività. Sospendere il senso comune — problematizzare ciò che ci appare ovvio e scontato — può essere "un salutare esercizio di demistificazione", e quindi una premessa necessaria ad ogni attività creativa e riflessiva, ma può anche condurci alla deriva psichica, alla perdita di contatto con la nostra realtà storica e culturale: perdita dell’ancoraggio, sradicamento, smarrimento dell’identità, derealizzazione, depersonalizzazione, egopatia, cioè difetto globale dell’attività dell’Io, incapace di rappresentare se stesso ed il mondo. Ripartendo da Husserl, dunque, la psichiatria fenomenologica riapre e ripensa "il campo problematico dei rapporti tra normalità e patologia", già dischiuso, all’alba del XIX secolo, dagli alienisti della scuola parigina. Il folle — lo psicotico, lo schizofrenico — appartiene radicalmente all’orizzonte dell’umano: è, anch’esso, persona; persona, per dirla con Binswanger, con un suo modo specifico ed irriducibile di essere-nel-mondo.

Al concetto di persona Stanghellini dedica particolare attenzione, un po’ in tutto il libro, ma soprattutto nel sesto capitolo, dedicato alla psichiatria antropologica di Jacob Wyrsch. Stanghellini ha il merito di ridefinire rigorosamente il concetto di persona, in aperta polemica contro il riduzionismo biologico della psichiatria naturalistica, che vede nelle forme del disordine mentale puri e semplici entità astratte: entità naturali, astoriche, riconducibili esclusivamente ad alterazioni cerebrali o bio-umorali. L’attenzione alla persona vista come homo biographicus, come storia di vita, non può essere ricondotta ad opzioni ed atteggiamenti di carattere irrazionalistico, estetizzante, o filantropico. E’ invece, come afferma l’autore, un "vincolo epistemologico".

La mia personale simpatia verso questo tipo di approccio si è sempre accompagnata ad una perplessità di fondo, di carattere teorico e pratico: la persona — l’Io, la coscienza — ci appare, nella prospettiva fenomenologica, come una realtà già data; potremmo dire, usando il linguaggio filosofico, una realtà costituente e non costituita. Fuori da ogni tediosa gergalità, potremmo allora sostenere che occorre guardare — se si vuol cogliere con pienezza la storicità della persona — ai modi, ai percorsi, alle vicende (di carattere individuale e sociale) che hanno reso possibile la formazione, la costituzione della persona concreta: quella stessa persona che il terapeuta incontra e cerca di comprendere e di guarire.

Come è possibile, in altri termini, che la mia "intenzionalità" di terapeuta si diriga sul mondo interno della persona malata senza conoscere i processi storici che hanno "costituito" quel mondo interno? Andare verso l’altro, intuire l’altro, "conferire un senso" all’altro, produrre, come direbbe Husserl, Einfuhlung, "intuizione eidetica" dell’altro: tutto questo movimento, su cui Stanghellini fonda la sua stessa prospettiva terapeutica (cfr. p.72), rischia di essere acefalo e scarsamente efficace senza una conoscenza puntuale — di carattere storico-genealogico — dei percorsi e delle condizioni (familiari, sociali, culturali) che hanno reso possibile una certa strutturazione della persona e dei suoi disagi. A questo livello, credo, ogni buon psichiatra dovrebbe riconoscere, con grande umiltà epistemologica, l’insufficienza di un itinerario monodisciplinare. In altre parole, proprio nella misura in cui l’approccio fenomenologico non riduce la persona ad ente naturale, astratto, astorico, ci sembra inevitabile che l’impresa terapeutica mobiliti altri saperi, capaci di restituirci, in tutta la sua articolata pienezza, lo scenario complessivo di un’esperienza individuale: penso alla psicoanalisi, alla storia, all’antropologia, alla sociologia, alle neuroscienze.

Voglio riprendere l’analisi di Stanghellini anche a partire dal ripensamento, qui solo abbozzato, di alcuni temi husserliani: possiamo allora dire che il Leib — cioè il corpo proprio, il corpo vissuto — è il punto di incontro, il punto di trasformazione e di reciproco inserimento tra l’interno e l’esterno. Husserl lo definisce Umschlagspunkt: e Umschlag significa letteralmente, in tedesco, involucro, cioè qualcosa che contiene, che avvolge, che include.

Nell’ambito della compresenza, cioè della comunicazione empatica con gli altri (Einfühlung), il Leib si rivela a se stesso come anima, come Seele, e scopre negli altri la stessa unità tra Leib e Seele che sta a fondamento della comunicazione interpersonale, dell’intersoggettività, e, conseguentemente, dell’appartenenza ad una determinata comunità sociale, ad una determinata cultura. La persona, entro questa prospettiva, la persona intesa come unità di Leib e di Seele, si rivela come membro del mondo sociale, della comunità: Mitglied der sozialen Welt (Husserl, Idee, II)

L’esterno è dunque modalità dell’interno. Le più recenti elaborazioni teoriche delle neuroscienze — da Edelman a Robertson, fino a Damasio - mettono in evidenza l’importanza di questo punto di vista, già sviluppato da Husserl e presente — in maniera più o meno esplicita - in alcune recenti riformulazioni della psicopatologia ad orientamento fenomenologico (Gozzetti, Cappellari, Ballerini e ora Stanghellini).

Intuizione dell’altro e conoscenza dell’altro, entro la prospettiva della psichiatria fenomenologica, diventano complementari, e concorrono alla realizzazione di un ideale conoscitivo vagheggiato da non pochi grandi interpreti della cultura novecentesca: l’ideale di una "teoria unitaria", per dirla con un grande storico e sociologo (l’indimenticabile Norbert Elias); l’ideale di una scienza umana unificatrice, capace di trasformare ogni specialista — ogni psichiatra, ogni storico, ogni biologo — in un viaggiatore di frontiera. Con Bateson, con Elias, con Edelman, per non citare che loro. Su questa frontiera, credo — che è poi la frontiera della lotta contro l’alienazione e la sofferenza — dovranno misurarsi le scienze dell’uomo nel XXI secolo.

Su questa stessa frontiera una psichiatria radicale, imperniata sulla persona, sulla sua storia e sul suo destino, potrà svolgere un ruolo insostituibile.

MARIO GALZIGNA

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