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titolo ELZEVIRO

Presentazione : Ha qui inizio la variata serie degli Elzeviri scritti da amici, scelti, per lo più, con il criterio della provocazione crociata. Inizia la serie Augusto Carli, ferrarese, docente di lingua e Sociolinguistica all'Università di Trieste, abilissimo poliglotta, la cui vita si è svolta praticamente in tutti i luoghi culturali d'Europa in cui ha sempre lasciato qualche traccia. Il mio quasi omonimo Augusto, conversatore arguto, è in realtà uomo temibile, in quanto notomizzatore dell'espressione. Questo fa sì che egli percepisca il "significante" molto meglio e più rapidamente di uno psichiatra, alla pari di uno psicanalista

Godetevi il suo Elzeviro e meditatelo. (A.A.R.)

Il PRESTIGIO DELLE LINGUE

Augusto Carli - Università di Trieste

Uno spettro si aggira per l'Italia (un altro ancora? ebbene sì): la paura di perdere la purezza della lingua o peggio di diventare mutoli a causa dell'invasione dell'inglese. Sulle patrie gazzette, nei discorsi della "ggente" massmediale e financo negli ambienti intellettuali (si fa per dire) la paura assume toni sempre più foschi. Il dolce idioma del "sì" (che però almeno già dall'avvento della cultura quizzaiola è diventato l'idioma dell'"esatto!" o del "perfetto!") avrebbe già perso gran parte del suo prestigio culturale — in corrente metafora calcistica: "si trova già in serie B" — giacché la lingua dell'anglocrazia dominante avrebbe conquistato tutte le forme di comunicazione: da quella pubblico-istituzionale a quella privato-ricreativa. L'inglese, anzi l'angloamericano come più spesso viene nomato e presentato il monstrum, è diventata l'unica lingua internazionale. Ne volete una prova? L'articolista del Corsera così argomenta: "[…] gli italiani già adesso non provano neppure a tradurre Shakespeare in love con Shakespeare innamorato". Oh, come siam mutati dai tempi dell'"Orlando innamorato" di Matteo Maria Boiardo!

Sic stantibus rebus gli animi degli italiani si polarizzano (anche qui) attorno a due atteggiamenti:

1. "Guai rimanere inerti di fronte a questa invasione altrimenti con la perdita dell'idioma nazionale si rischia di annullare anche la propria identità" (eccola, l'identità venduta paragonata all'ombra perduta del povero Peter Schlemihl), "Ma come? Dopotutto, possediamo e rappresentiamo la metà dei beni culturali del mondo" (Marcello Veneziani), "Non fia giammai, l'Italia è la culla della civiltà e del diritto" (Grillus loquens);

2. "L'inglese s'ha da insegnare in tutte le scuole di ogni ordine e grado, meglio se si inizia all'asilo così gli infanti (in — fans = non parlante) l'apprenderanno come per giuoco".

Di fronte a queste sconcertanti paure e rovelli sarà innanzitutto opportuno rendersi conto della complessità del problema. La paura, come è noto, nasce dalla non conoscenza. L'ignoto è sempre carico di mostri (hic sunt leones) e di chimere. Come può nascere la paura di perdere l'italiano a gente che risaputamente e statisticamente ignora le lingue straniere, compreso l'inglese beninteso? Soltanto il 15% - 18% degli italiani ha una qualche conoscenza di lingue straniere, delle quali più spesso è l'inglese (65%), molto meno frequentemente è il francese (12%) e ancor meno il tedesco (7%). Le restanti lingue del mondo (oltre 5.000!) non vale nemmeno la pena di quantificare. Questo miserrimo15% -18% che conosce una lingua, in realtà però conosce anche molto spesso una seconda e una terza lingua straniera, mentre il restante 80-85% del paese è assolutamente ignaro di idiomi diversi dall'italiano. Si va quindi da una esigua élite pluriglotta ad un ultramaggioritario monolinguismo dalla dura cervice. Questo, come è facilmente spiegabile, è fin troppo corrivo o nell'accettare acriticamente i trends o nel difendere ostinatamente le purezze d'antan.

La linguistica di questo secolo ha abbondantemente dimostrato che tutti gli idiomi di questo mondo hanno, dal punto di vista del sistema grammaticale, equivalenti potenzialità. Non esistono lingue "migliori" o "peggiori", lingue a sistema linguistico interno "primitivo" opposto a uno "perfezionato". Le lingue omotiche e cuscitiche rispetto a quelle indoeuropee o a quelle uralo-altaiche non sono né più primitive né più evolute. La loro differenziazione è puramente sociale. Sono gli utenti a renderle diverse per scopi e per impieghi d'uso. Ed è l'abitudine a certe pratiche comunicative — che coincidono sostanzialmente nella produzione di certi testi (scritti e orali) - a far sì che un determinato idioma sia preferito ad altri. L'italiano, rispetto al veneziano al viterbese al molisano ecc., è preferito, a certe condizioni sociali, non solo in previsione di un più ampio raggio di comunicazione interpersonale, ma anche per l'abitudine acquisita nel tempo a produrre certi testi: conferenze, trattati, sermoni, orazioni funebri, contratti, istruzioni, elzeviri ecc. Beninteso, non vi è di principio nessuna controindicazione linguistica ad usare il molisano per redigere trattati di linguistica, di psichiatria, di anatomia o di economia della bicicletta. Anche se finora non ha mai figurato come comune pratica sociale, lo si potrebbe comunque fare se soltanto ci fosse una comunità scientifica (=gli utenti della lingua) che decidesse, per motivi endogeni o esogeni, di divulgare, discutere, controbattere i risultati, gli obiettivi e i metodi della ricerca scientifica in molisano. Diverso è il caso dei testi letterari (orali come le fiabe, le filastrocche o scritti come la poesia, l'epica e il teatro) per i quali vale la segnalazione di espressività, di coesione, del quid ineffabile e per i quali c'è una condivisa abitudine ad usare sia acroletti (idiomi socialmente prestigiosi) che basiletti (socialmente bassi, ma trasgressivi o stigmatizzati). I testi di prosa fattuale (concisamente Sachprosa in tedesco), quelli in buona sostanza delle varie comunità scientifiche, si avvalgono di lingue solitamente meno vernacolari e più veicolari e franche, ovvero più socialmente prestigiose e meno marcatamente locali. Certo, in ateneo patavino può succedere di sentire docenti e gruppuscoli di discenti che discettano di Aristotile interamente in dialetto pavano. Tuttavia, trattati di filosofia aristotelica in questo idioma ancora non esistono, e se anche esistessero non avrebbero, allo stato attuale delle cose, non verrebbero grandemente richiesti per specifici scopi di comunicazione scientifica. La ricerca scientifica di carattere filosofico viene svolta, in questo paese, per la maggior parte in italiano - e non in una varietà diatopica dell'italiano — o in tedesco per ragioni di tradizioni scientifiche otto/nevecentesche antebelliche, o in francese per quanto attiene a certe problematiche illuministiche, sensistiche e decostruttiviste, o last but not least in inglese dal Wiener Kreis e dalla filosofia analitica in poi.

D'altronde la percezione del tempo e dello spazio hanno subito notevoli mutamenti (e altri seguiranno) con l'uso dei mezzi di comunicazione. Oggidì l'Adalgisa di Milano percepisce Termoli come di gran lunga più distante delle Seychelles e tanto distante quanto le Maledive. "Sarà un bene o sarà un male?" si chiedeva ironicamente e convulsamente Sandro Penna riferendosi a certi suoi penchants (pardon, si direbbe più autarchicamente e ingannevolmente "scelte" o "stili di vita"). La linguistica non è una disciplina normativa, ma solo rigorosamente descrittiva. Non la si confonda con la grammatica scolastica che soprattutto in questo secolo si picca di dettare il bon usage, un troppo facile paravento dietro cui nascondere la complessità del problema: il prestigio dell'idioma non è comunque scindibile dal prestigio della materia cognitiva espressa.

RICORDIAMO AI LETTORI CHE I PRECEDENTI ELZEVIRI SONO RECUPERABILI NEGLI ARCHIVI DI POL.it
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