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CIRTERI PSICOPATOLOGICI E CLINICI NELLA DIAGNOSI DI SCHIZOFRENIA

Eugenio Borgna, M.T.Ferla, Chiara Guglielmetti

(Servizio di Psichiatria, Azienda Ospedaliera "Maggiore della Carità", Novara)

 

 

Premessa

La psicopatologia non è clinica

L'orizzonte di conoscenze della psichiatria clinica

L'orizzonte di conoscenze della psicopatologia

La conclusione

Bibliografia

L'orizzonte di conoscenze della psichiatria clinica

Il grande magistero di Emil Kraepelin (6) si è sempre svolto lungo la linea univoca e radicalizzata della clinica: della psichiatria clinica come parametro esclusivo e assiomatico (ma problematico, ovviamente, all'interno delle conoscenze degli elementi sintomatologici in gioco) al fine di fare diagnosi di schizofrenia.

Come si sa, nel suo gigantesco lavoro di sintesi (di ricapitolazione di schegge sintomatologiche che, prima di lui, laceravano la configurazione clinica della schizofrenia in molteplici sindromi), Emil Kraepelin ha sostenuto come la conoscenza in psichiatria si snoda lungo il semplice e omogeneo sentiero della osservazione e della descrizione dei modi di comportarsi e dei modi di apparire dei pazienti e dei sintomi in cui la sofferenza psichica si manifesta: al di là e al di fuori di ogni riflessione e di ogni attenzione ai contenuti interiori, ai vissuti, dei pazienti e ai significati (alle connotazioni simboliche) dei sintomi psicotici. Sulla base di queste modalità di osservazione ab externo e di questa ricerca di tipologie comuni in sindromi cliniche (apparentemente) scheggiate e atipiche, Kraepelin ha delineata la definizione stessa di dementia praecox come emblema univoco di ogni esperienza psicotica.

I criteri clinici, applicati allo studio e alla analisi di quelle che oggi chiamiamo schizofrenia e che, appunto, Kraepelin ha chiamato dementia praecox, hanno consentito al grande psichiatra tedesco di raccogliere e di unificare in una sola condizione morbosa, sia pure articolata e suddivisa in tre sindromi cliniche, le molteplici forme morbose solo apparentemente autonome. Ma, nel fare questo, e nel tematizzare la tipicità (gli elementi comuni) della malattia e nel riconoscerla nel suo decorso e nella sua sintomatologia macroscopica (macromolecolare, direi), Kraepelin è rimasto estraneo all'arcipelago infinito della vita interiore, della interiorità, dei pazienti, alle loro esperienze vissute: senza le quali non può esistere, invece, psicopatologia che si è liquefatta nel solco di parametri meramente clinici. Alla vita interiore dei pazienti, alle loro espressioni psicologiche ed emozionali, egli non dava alcuna importanza: considerandole del tutto inattendibili. Inutile, allora, ascoltare i pazienti, cercare di cogliere quello che si muove nella loro interiorità, cercare di rendere dialettico ogni sintomo psicotico: correlandolo, e confrontandolo, con il modo (con il loro senso) con cui ogni sintomo è vissuto da ciascun paziente.

Il criterio clinico è considerato, così, come impegno radicalizzato e assolutizzato ad analizzare e a osservare come abbiano a comportarsi i pazienti e quale sia la consistenza, e la fisionomia, dei sintomi macroscopici (come vorrei, appunto, definirli): dei sintomi correlati con i deliri e le allucinazioni, con i disturbi della psicomotricità e del linguaggio che sono sintomi evidenti e visibili a ogni osservatore dotato, certo, della facoltà di descrizione e di serializzazione delle diverse sequenze sintomatologiche.

Il criterio clinico è finalizzato, del resto, a cancellare, a oltrepassare e a escludere ogni variante che interferisca, e sia in collisione, con questo disegno diagnostico (cartesiano, matematico, geometrico) che giunge a tematizzare e a rendere immobile ogni (possibile) camaleontica variabilità dei sintomi: a inchiodare, insomma, ciò che costituisce la tipicità, la dimensione ne varietur della malattia schizofrenica.

Nell'orizzonte kraepeliano del discorso, dunque, la psichiatria clinica tende a cogliere e a indicare gli elementi immobili della sintomatologia schizofrenica: ripetibili di caso in caso.

Così intesa e delineata, la schizofrenia si trasforma in una malattia, in una realtà clinica, che segue sue proprie leggi naturali: insensibile, dolorosamente insensibile a qualsiasi articolazione, a qualsiasi sollecitazione, ambientale e interpersonale, psicoterapeutica e socioterapeutica. Si capisce, allora, come mai, se la schizofrenia abbia a seguire sue proprie fatali (implacabili) destinazioni naturali, non serve a nulla conoscere e analizzare cosa i pazienti vivano e provino nella loro soggettività, e quali significati essi attribuiscano ai sintomi: ai modi psicotici di scandagliare e di interpretare la realtà in cui sono immersi.

Se la schizofrenia non è se non il coagulare di sintomi e di andamenti evolutivi che abbia a cancellare, e a riassorbire, ogni differenza e ogni distinzione, se esiste un solo modo di essere schizofrenici, e non invece modi diversi di vivere una esperienza schizofrenica, ogni atipicità (ogni sostanziale variabilità dei sintomi e dei decorsi) scomparirebbe; non configurandosi se non un solo modello di Lebenswelt schizofrenica: una sua costante e radicale tipicità.

Nella psichiatria clinica postkraepeliniana le cose sono cambiate: nel senso che, alla tipicità della sintomatologia psicotica (schizofrenica) contrassegnata dalle grandi costellazioni sindromiche (deliranti, allucinatorie, comportamentali, psicomotorie), si è aggiunta una prospettiva diversa in ordine al decorso, e cioè alle forme di decorso, della esperienza schizofrenica. Mentre nella prospettiva kraepeliniana il decorso della dementia praecox veniva considerato univocamente rettilineo e prefissato lungo binari fatali e irreversibili a cui non era possibile sfuggire (benché Kraepelin non escludesse la possibilità di un decorso diverso e reversibile in alcune situazioni cliniche), oggi le ricerche catamnestiche di Manfred Bleuler (7) in particolare ma anche quelle di Luc Ciompi e Christian Müller (8) e di altri autori hanno dimostrato come, anche all'interno dei criteri diagnostici proposti da Kraepelin, non ci sia una sola modalità di decorso ma diverse modalità di decorso. Sicché, la tipicità (ciò che c'è di tipico) nella Lebenswelt schizofrenica non può essere ancorata alla forma del decorso se non lungo linee tendenziali, e non certo univoche e obbligate.

Anche nel contesto di una impostazione kraepeliniana, insomma, la tipicità può essere ritrovata nella sintomatologia, nella aggregazione sintomatologica, ma non nel decorso unidimensionale.

Ci sono decorsi (forme di decorso) ovviamente più frequenti e altri meno frequenti, ci sono decorsi striscianti e nucleari (paradigmatici) e ci sono decorsi periferici, satelliti, ci sono insomma decorsi che si avvicinano alla "tipicità" indicata da Kraepelin e decorsi che da esse si allontanano. Ci sono forme di esordio che tumultuosamente si risolvono in tempi anche molto brevi, e forme di esordio scolorite e, come si sa (9), prognosticamente negative.

Il criterio clinico, fondato esclusivamente sul decorso (sulla evoluzione longitudinale) della sintomatologia psicotica, e quello diagnostico correlato, entrano così in crisi nel momento in cui già l'osservazione clinica dimostra nella galassia schizofrenica la presenza di camaleontiche, e variabili, forme di andamento.

In ogni caso, la individuazione (la delimitazione) di andamenti più o meno tipici, e più o meno atipici, trascina con sè radicali implicazioni terapeutiche. Queste cambiano, ovviamente, in relazione alle forme di esordio e alle forme di evoluzione.

Insomma, la tipicità nel decorso si fa problematica nella misura in cui la ricerca catamnestica ne dimostra la variabilità.



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