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TOSSICODIPENDENZA: STATO ATTUALE DELL'INTERVENTO CLINICO

Vittorino Andreoli

Dipartimento di Psichiatria, Ospedale S. Giovanni Battista - Soave - Verona

Premessa
Sotria
Sotria clinica
Aspetti terapeutici

STORIA CLINICA

Passiamo ora al secondo punto della trattazione che riguarda la storia individuale, come uno divenga tossicodipendente. Proprio questa storia individuale potrà forse rispondere, almeno in parte, al problema di identità che la società si pone. La storia di un tossicodipendente può essere distinta in successive fasi. La fase iniziale riguarda un soggetto generalmente giovane (non però necessariamente giovane poiché esiste oggi anche una quota consistente del fenomeno tossicodipendenza tra i 30 e i 40 anni), il quale se venisse valutato secondo i parametri della salute mentale potrebbe anche non presentare alcuna patologia. In altre parole, non tutti quelli che diventeranno tossicodipendenti sono sani ma molti partono da una fase in cui non è possibile identificarli in termini patologici; sarebbe errato pertanto ritenere che l'uso di sostanze sia comunque un sintomo di malattia certa. C'è dunque una prima fase in cui anche persone che non rientrano in alcuna delle categorie patologiche né della patologia somatica né di quella psichiatrica possono iniziare ad usare una sostanza. Possiamo definirla la "fase dell'incontro": un certo individuo viene in contatto con una sostanza e, in questo incontro, avverte una serie di effetti che egli giudica non negativamente o addirittura in termini positivi tanto da fargli ammettere di usare quella sostanza perché gli piace, perché soggettivamente gli procura benessere. E' un primo incontro che in alcuni casi può risolversi nel disinteresse ma in altri può portare ad una nuova ricerca dell'esperienza, quindi a ripetere l'uso di quella sostanza. Questa fase è fondamentale poiché è qui che si incominciano a valutare i due termini dell'incontro, cioè personalità dell'individuo, da un lato, e sostanza assunta, dall'altro. Da una parte esiste un'attesa, un giudizio di gradevolezza, che può arrivare ad una sorta di autoterapia; dall'altra, caratteristiche di personalità che non sono necessariamente patologiche ma sottintendono, il più delle volte, una profonda insicurezza. L'insicurezza è una condizione molto comune specie tra i giovani che può essere gestita anche con il ricorso alla sostanza; pensiamo al timido che diventa loquace e socialmente disponibile dopo il classico bicchiere di vino. Fatta un'esperienza può insorgere molto spesso il desiderio di ripeterla, un desiderio talmente forte da divenire persino ossessivo, tanto che da quel primo incontro prende avvio un uso sempre più intenso. Questo passaggio dall'incontro al desiderio incoercibile di ripeterlo costituisce il nucleo centrale del fenomeno indicato con il termine "craving".

Segue una seconda fase che è quella dell'uso vero e proprio. Potrebbe essere definita una fase di "amore", di grande attrazione. L'uso tuttavia va distinto secondo diverse modalità: può essere occasionale oppure periodico, cioè con dei limiti di tempo, oppure ancora continuativo. Per continuativa si intende una modalità di uso per la quale la sostanza risulti sempre presente nel sangue. La continuità non si riferisce tanto al comportamento di assunzione, quanto piuttosto alla necessità di assumere la sostanza secondo le leggi del metabolismo per cui una volta che essa è fuori dall'organismo deve esservi riinmessa; una continuità che possiamo quindi definire "metabolica". Non si può parlare di tossicodipendenza per un soggetto che faccia uso occasionale o periodico di una sostanza; la condizione per cui un soggetto arriva ad essere tossicodipendente è solo l'uso continuativo. Mentre nella prima fase si è parlato di "craving", nella seconda parliamo dunque della "dipendenza". Sono entrambi momenti clinici che possono dar luogo, come si vedrà, a diverse condotte terapeutiche.

Esiste una terza fase, quella del "non uso" da parte di chi ha usato molte volte la sostanza. Si tratta di un vero e proprio stato di malattia conseguente alle prime due fasi, malattia che si configura come una post-dipendenza. Anche se il consumo di una sostanza viene meno, l'esistenza del soggetto ne rimane segnata, come una sorta di "invalidità sociale". A questo proposito, dai primi follow-up dei tossicodipendenti era risultato che verso l'età di 35-40 anni si verificava un netto calo del consumo e molti sospendevano definitivamente l'uso di una sostanza. Si è visto pure che questo comportamento non era apparentemente legato all'efficacia dei trattamenti e non differenziava, ad esempio, chi era stato in un certo programma terapeutico da chi ne aveva seguito altri o non ne aveva seguito alcuno; si trattava di un abbandono spontaneo, quasi fisiologico. Sembra così delinearsi una specie di storia naturale del rapporto tra soggetto e sostanza, un rapporto che, ad un certo punto, viene inevitabilmente ad esaurirsi. Va notato tuttavia che dall'età d'inizio a quella in cui cessa il consumo possono passare 15-20 anni, un periodo troppo importante per lasciare la storia alla sua evoluzione spontanea. La storia-tipo di un tossicodipendente va considerata ovviamente come un contenitore in cui si possono inserire tutte le storie particolari che sono sempre diverse l'una dall'altra e cambiano spesso anche a seconda della sostanza usata.

In questa storia di tossicodipendenza individuale è opportuno soffermarsi, in particolare, sui due momenti citati del "craving" e della "dipendenza" che rappresentano i due principali target clinici. Agendo su questi due momenti, certamente noi andiamo ad interrompere un rapporto tra individuo e sostanza, il che può rappresentare un aspetto psicologico dell'intervento. Se si riesce tuttavia ad individuare un modello biologico, fisiologico e biochimico, sarà anche possibile ipotizzare un intervento farmacologico su un processo che clinicamente viene definito in termini quali "desiderio" o "compulsività" ma può fondarsi su precise tappe metaboliche. In questo senso, il craving è un punto di riferimento, un target ben preciso e tutto ciò che costituisce un modello del craving può divenire, in qualche modo, una metafora biochimica, quindi un punto fondamentale per inventare una terapia. Da osservare che il concetto di craving è molto recente; nella letteratura degli anni '80 il termine nemmeno esiste. E' chiaro che la sua introduzione ha avuto come immediata conseguenza uno spostamento dell'azione terapeutica sul versante biologico.

L'altro punto di intervento clinico è la dipendenza. La dipendenza è un legame di necessità tra un organismo e una sostanza. Mentre nel craving il legame è il desiderio che, per quanto compulsivo, lascia pur sempre un certo margine alla scelta del soggetto, con la dipendenza si instaura uno stato di necessità inevitabile: essa viene definita come quella particolare condizione per cui un soggetto se non assume la sostanza da cui dipende può esprimere una serie di sintomi che configurano una vera e propria sindrome nota come "sindrome da astinenza"; sintomi che stanno ad indicare una sofferenza anche molto intensa, una importante patologia destinate però a scomparire immediatamente non appena la sostanza venga nuovamente introdotta. La sostanza evidentemente è diventata un elemento necessario alla biologia di quell'organismo. E' fuori dubbio che con il termine "dipendenza" si fa riferimento ad una complessa condizione psico-fisica; ogni tentativo di distinguere una dipendenza esclusivamente psicologica da una esclusivamente fisica ha portato inevitabilmente a degli errori. La condizione di dipendenza diventa il principale target clinico poiché, per interrompere lo stato di intossicazione è necessario vicariare, in qualche modo, ciò che è dato da quella particolare sostanza. Per spiegare gli effetti della droga viene ipotizzato un legame tra quella certa sostanza e un certo recettore in una certa zona o in più zone del Sistema Nervoso Centrale. Se è in gioco un legame tra molecola e recettore, occorrerà stabilire di che tipo di legame si tratti e in quale modo sia possibile intervenire su di esso. E' ben noto che la morfina ha promosso gli studi sulle famose endorfine, fino a dar luogo all'ipotesi che nel tossicodipendente la produzione di "morfina endogena" sia ridotta o esista un'ipersensibilità dei suoi recettori. E' un'ipotesi non ancora pienamente suffragata dai dati sperimentali ma che conserva tutto il suo valore a livello metodologico ed euristico in quanto apre la via ad un approccio al problema in termini neurofisiologici e biochimici, con i relativi immediati risvolti in campo terapeutico.

Dei due target clinici, craving e dipendenza, finora nei tentativi terapeutici si è privilegiato senza dubbio il secondo con risultati però insoddisfacenti, se non fallimentari. Riguardo al craving sono state avanzate negli ultimi tempi varie proposte terapeutiche con impiego di farmaci diversi, dagli ansiolitici agli antidepressivi, in assenza tuttavia di un razionale che faccia riferimento a meccanismi o modelli specifici. La ricerca in questo campo rimane quanto mai aperta.

Non si possono concludere queste osservazioni sulla storia del tossicodipendente senza richiamare rapidamente un altro tema scottante, quello del traffico delle sostanze stupefacenti. Il fenomeno della tossicodipendenza può in effetti essere valutato secondo due punti di vista, quello della domanda da parte del consumatore ma anche quello dell'offerta da parte del mercato perché appare chiaro che si consuma una sostanza solo quando questa viene ad essere largamente disponibile. Anche l'offerta ha una sua storia e, al riguardo, proprio storicamente sono stati commessi degli errori di cui tuttora si rilevano le conseguenze. Esemplare è il caso dell'eroina. L'eroina, dal punto di vista farmacologico, ha una storia simile a quella della morfina alla quale viene preferita solo per il famoso effetto "flash" (dovuto, com'è noto, alla rapida demetilazione con incremento improvviso della concentrazione della sostanza nel Sistema Nervoso Centrale). Fino al 1987-88 il mercato italiano era quasi tutto di eroina e sull'eroina sono state diffuse tutta una serie di critiche nel tentativo di indurre i giovani a lasciare la tossicodipendenza. Si è osservato che la sostanza riduceva l'iniziativa, favoriva un distacco dalla realtà, provocava una perdita degli affetti e una diminuzione delle capacità sessuali, tipica espressione del venir meno di una relazione col mondo esterno. Si sottolineava anche il senso di ottundimento, quella sedazione che è effetto degli oppiacei e che contribuisce ad estraniare il soggetto dal contesto socio-ambientale. In sintesi, veniva presentato un quadro della dipendenza da eroina tale da sfociare nella asocialità. Rispetto ad una società attiva il tossicodipendente non poteva che risultare inadeguato con conseguente emarginazione e rifiuto da parte della comunità. Ebbene, ripetendo e riproponendo tali valutazioni, per altro del tutto realistiche, si sono create involontariamente delle premesse propagandistiche per una droga dotata di caratteristiche opposte: ed ecco affermarsi sempre più il mercato della cocaina, sostanza che non compromette la socialità ma anzi è in grado di fornire una spinta consistente verso la relazione con momenti di iperattività e di euforia. Dall'eroina, definita come "droga dell'emarginazione" alla coca, usata dalle élites dei grandi artisti e da certi grandi industriali. A queste premesse "pubblicitarie", nate da un'azione deterrente nei riguardi dell'eroina, il mercato ha risposto immediatamente con una straordinaria diffusione della coca che ha portato ad un problema ancora più grave. Tutto ciò dimostra quanto sia importante il fattore "disponibilità" della sostanza. Esistono organizzazioni che possono decidere da un momento all'altro di toglierne una dalla circolazione per immetterne una diversa; organizzazioni paragonabili a grandi imprese industriali in quanto, a parte i profitti, sono in grado di tener conto di una serie di indici sociali in modo da scegliere esattamente il momento in cui il prodotto può riscuotere il maggior successo di mercato. Non c'è dubbio quindi che, anche se esula dalle nostre dirette competenze e possibilità di intervento, il momento dell'offerta va sempre tenuto presente in un approccio globale al problema.


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