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TOSSICODIPENDENZA: STATO ATTUALE DELL'INTERVENTO CLINICO

Vittorino Andreoli

Dipartimento di Psichiatria, Ospedale S. Giovanni Battista - Soave - Verona

Premessa
Sotria
Sotria clinica
Aspetti terapeutici

STORIA

Partiamo dunque dalla nostra storia italiana che non è diversa da quella di altri Paesi in quanto sembra seguire uno schema che si ripete anche se spostato nel tempo. Da noi è una storia che incomincia nel 1968-69 riproponendo, grosso modo a distanza di un decennio, un fenomeno comparso negli USA. Nel 68-69 appunto, nasce un problema di consumo di gruppo di sostanze che allora vennero chiamate "stupefacenti". Il primo fatto di cronaca si verifica a Roma dove su alcuni barconi attraccati lungo il Tevere vennero trovati dei ragazzi che presentavano un comportamento strano, successivamente collegato all'uso di sostanze, in quel caso, morfina. Sorge un problema che non è nuovo perché la storia della morfina e dell'oppio si perde nel tempo: in Italia, soprattutto all'inizio del secolo, esisteva un consumo di morfina molto diffuso anche tra la classe medica che ha notoriamente dato un notevole contributo all'abuso. Riguardo all'episodio di Roma, la novità consisteva non tanto nel consumo di sostanze a scopi non terapeutici, quanto nel fatto che il fenomeno diventasse di gruppo assumendo quindi una particolare dimensione sociale.

Il problema si è posto subito in termini giudiziari, in quanto, all'epoca, vigeva in Italia una legge del 1954 (n. 1041 del 22.X.1954), che ricalcava quella di altri Paesi, secondo la quale la pena prevista non faceva distinzione tra spacciatore e consumatore né teneva conto della quantità di sostanza. La legge si limitava a ratificare una disposizione dell'ONU diretta, in primo luogo, a bloccare il traffico di stupefacenti in cui anche il nostro paese era risultato coinvolto come via di transito, in particolare dalla Turchia. Da noi non si era mai posto il problema del consumatore perché il consumo era sempre stato considerato un fatto privato e riguardava, per lo più, sostanze come la morfina che era possibile ottenere attraverso una regolare ricettazione. Non per nulla, il medico che poteva facilmente ottenerla era quello che spesso, come si è detto, ne diventava un soggetto di abuso. Nel 68-69 venne dato corso ad un'applicazione automatica della legge per cui quei famosi consumatori del barcone vennero arrestati e portati in carcere. La pena prevista era da 3 a 8 anni di reclusione, oltre a sanzioni pecuniarie sempre piuttosto pesanti. In questo caso dunque alla domanda chi sia il consumatore di sostanze stupefacenti la legge dava una risposta precisa: il consumatore è un criminale in quanto ha violato un articolo della legge del 1954. In fondo, non sorse allora un vero problema della tossicodipendenza proprio perché esisteva già una risposta predeterminata. Il fenomeno della tossicodipendenza a quell'epoca non riguardava direttamente le strutture sanitarie ma interessava solo gli organismi di polizia, i sistemi di repressione e di carcerazione.

Questa è stata la prima fase nella quale il soggetto che "comunque deteneva sostanze o preparati indicati nell'elenco degli stupefacenti" (Art. 6) veniva incarcerato senza alcuna possibile intermediazione. Erano però quelli gli anni della contestazione e proprio in quegli anni si incomincia a pensare che le sanzioni inflitte ai consumatori fossero eccessive; ricordiamo ancora proteste rimaste famose come quella di ostentare l'uso di marijuana davanti al Parlamento, in una sorta di autodenuncia del consumatore. La legge in vigore non appariva più adatta ma, al di là della legge, il fatto importante era che la società aveva incominciato a chiedersi in termini più precisi chi fosse veramente il tossicodipendente. A questo punto viene elaborata un'altra risposta e il tossicodipendente viene progressivamente a configurarsi come un malato. Ad un'analisi più accurata dei casi infatti alcune manifestazioni legate alla tossicodipendenza sembravano rientrare chiaramente nella patologia mettendo in crisi la definizione del tossicodipendente come criminale. Il nuovo impatto sociale portò così alla necessità di creare una legge diversa.

E' questa la legge del 1975 (n. 685 del 30.XII.1975) che contiene una serie di articoli in armonia con la nuova definizione. Se il tossicodipendente è un malato, non può essere un criminale, non può essere colpevolizzato; conseguentemente va depenalizzato l'uso delle sostanze stupefacenti. Il carcere e la polizia non hanno più niente a che fare; deve subentrare un'altra istituzione. Se si tratta di un ammalato, la competenza passerà naturalmente ad una istituzione sanitaria; se prima competente era il carcere, ora diventa l'ospedale, se prima era il poliziotto, ora diventa il medico. Nasce così una delega totale alla medicina e va osservato che la sanità italiana ne è stata felicissima perché ne derivava una serie di vantaggi: sorgono infatti i Centri per le tossicodipendenze con i relativi operatori, primari, secondari, psicologi, assistenti sociali, grandi apparati in ambito ospedaliero che accoglievano i tossicodipendenti principalmente per attuare la "disintossicazione". Prende il via tutta una nuova organizzazione sanitaria con un suo preciso piano terapeutico poiché, da questo momento, il tossicodipendente è appunto un malato.

Questa situazione che è perdurata per anni ha portato però ad un profondo ripensamento: le strutture sanitarie hanno dovuto a poco a poco riconoscere che una delega totale non poteva essere accettabile in quanto ci si è resi conto che la tossicodipendenza non è un problema esclusivamente medico. Negli ospedali si verificavano quotidianamente degli episodi per cui il tossicodipendente finiva per rendere impossibile la degenza ad altri pazienti tanto che, non essendo attuabili valide misure di sicurezza, si rendeva inevitabile il ricorso sempre più frequente alle Forze dell'Ordine per gestire le situazioni più critiche. Anche questa seconda legge è entrata allora in crisi: ancora una volta si poteva affermare che il tossicodipendente non è un criminale ma risultava chiaro che non era solo un malato.

Si riproponeva pertanto il problema di fondo: chi è il tossicodipendente? Ed ecco una legge ulteriore, quella del 1990 (n. 162 del 26.VI.1990), nella quale, in realtà, se prima il tossicodipendente era un criminale e successivamente un malato, ora si dice chiaramente "il tossicodipendente non so chi è". Non sapendo chi è si stabiliscono delle pene, compresa la carcerazione, che però, di fatto, non vengono applicate. Si afferma che non è del tutto un malato però si ammette che, per alcuni aspetti, lo è; nello stesso tempo si stabilisce che il suo disturbo riguarda, in qualche modo, la società per cui è giusto che alla società venga affidato. In pratica, noi abbiamo ora una legge che non è in grado di gestire il problema mentre esprime chiaramente quelli che sono i dubbi sulla vera identità del tossicodipendente.

Questo brevissimo excursus storico termina quindi non con una conclusione ma con un problema aperto perché questa società in cui viviamo non sa fornirgli una risposta.


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