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Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 241-313
(numero speciale del ventesimo anno)

LO STATO DELL'ARTE DELLA TECNICA PSICOANALITICA

a cura di Marianna Bolko e Alberto Merini

Contributi di:
Marianna Bolko & Alberto Merini (Introduzione);
Johannes Cremerius (Germania); Gaetano Benedetti, Arno von Blarer, Paul Parin (Svizzera)

Contributi tedeschi e svizzeri: J. Cremerius, G. Benedetti, A. von Blarer, P. Parin


Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 281-285

Lo stato dell'arte della tecnica psicoanalitica

Johannes Cremerius, Germania (Friburgo i. Br.)

Vorrei rispondere alla seconda domanda che mi è stata posta, se cioè io abbia modificato la mia tecnica psicoanalitica rispetto all'inizio della mia attività. Innanzitutto vorrei integrare l'espressione "´ioª ho modificato", che esprime una modifica attiva, cognitiva e teoricamente fondata, con l'espressione "la tecnica ´siª è modificata". Essa accenna a modifiche sopraggiunte nel corso di processi esistenziali, quali l'invecchiare, l'avere dei figli, le esperienze vissute attraverso la malattia, le crisi esistenziali, i contatti con culture straniere, ecc., che hanno impercettibilmente mutato la mia immagine del mondo, le mie idee riguardo all'umanità, le mie scale di valori, la mia capacità d'amare e la mia tolleranza.

Dal momento che la formazione della tecnica, così come il suo perfezionamento, hanno luogo per un periodo di vari anni in un contesto didattico, vale a dire sotto l'influenza di maestri, vorrei occuparmi innanzitutto di essa, soprattutto per il fatto che lo sviluppo professionale dell'analista è segnato per anni, in maniera decisiva, dall'identificazione con il suo analista e dal distacco da questi.

Appartengo a quella generazione che, dopo la seconda guerra mondiale, cominciò la formazione psicoanalitica a Berlino, o nella parte occidentale della Germania. La situazione era caratterizzata dal fatto che soltanto a Berlino esisteva una formazione professionale organizzata secondo le norme dell'International Psychoanalytic Association (IPA) (a partire dal 1950). Qui insegnava un piccolo gruppo di analisti sopravvissuti al regime nazista. Nella parte occidentale della Germania c'erano soltanto qui e là degli analisti isolati che effettuavano l'analisi didattica secondo i principi della psicoanalisi freudiana. Io ne trovai uno a Monaco di Baviera. Essendo l'unico analista in città, egli era, contemporaneamente, analista didatta e si occupava anche della formazione. Dal momento che, a quell'epoca, non si disponeva di testi psicoanalitici, nella maggior parte dei casi nemmeno degli scritti di Freud, dovevamo attenerci completamente all'insegnamento personale.

La nostra formazione fu limitata dal fatto che gli analisti presenti a Berlino come nel resto della Germania, o appartenevano alla generazione più anziana, che nel 1933 era stata tagliata fuori dal processo di sviluppo internazionale e, di conseguenza, utilizzavano un'analisi che si basava sullo stesso livello di conoscenze precedenti il 1933, oppure facevano parte di quel piccolo gruppo che aveva cominciato la propria formazione psicoanalitica dopo il 1933, in condizioni estremamente limitative. Anche questi ultimi, come gli altri, del resto, sostenevano posizioni psicoanalitiche superate. Per alcuni di loro l'aver fatto parte, per anni, dell'Istituto di psicoterapia di Göring, dichiaratamente nazista, non era un fatto conclusosi senza lasciare danni. Essi avevano ripreso, spesso senza riflettervi, nel pensiero e nella pratica, alcuni aspetti teorici di Jung, Adler e Künkel. A causa della nostra inesperienza non eravamo in grado di percepire l'"adulterazione". Inoltre, essi avevano lo svantaggio di non disporre quasi per nulla di conoscenze derivanti dalla pratica psicoanalitica, perché, nella maggior parte dei casi, appena conclusa la formazione psicoanalitica, erano stati chiamati in guerra. Di conseguenza, imparammo una tecnica psicoanalitica che era soprattutto analisi di contenuto: l'analista seguiva in silenzio la produzione onirica e le associazioni, fino al momento in cui riteneva di poter dire qualcosa riguardo al contenuto.

Dopo essere tornati in possesso dei testi psicoanalitici, e dopo aver ristabilito i contatti con gli analisti stranieri, molti di noi scoprirono le carenze di questa formazione, e decisero di intraprendere una seconda analisi didattica presso gli Istituti psicoanalitici di Amsterdam, Londra, Zurigo e degli Stati Uniti, per completare la propria formazione teorica. Io andai a Zurigo. Il risultato di questo perfezionamento consisté nel fatto che divenni, da analista che tace e rispecchia, analista attivo, e da analista di contenuto analista di transfert. Qui appresi gli sviluppi della psicologia dell'Io e dell'analisi del carattere. Inoltre entrai in contatto con le teorie di Ferenczi e con la sua tecnica speciale di trattamento, che in Germania, come pure in altri paesi, era stata fino a quel momento rifiutata perché considerata dissidente in base al verdetto freudiano.

La modificazione della mia tecnica, che allora cominciò a determinarsi, si può riassumere in due punti: in primo luogo invertii la successione dei termini nel titolo del saggio di Freud Ricordare, ripetere e rielaborare in maniera tale per cui adesso il ripetere (nel transfert) veniva a figurare all'inizio. Adesso si parlava dunque di: ripetere, ricordare, rielaborare. Inoltre presi le distanze dal rigido concetto freudiano di transfert, che egli aveva definito come una mera ripetizione di vecchi modelli infantili, come un processo endopsichico, autonomo, e indipendente dall'oggetto. Mi divenne sempre più chiaro che la persona e il comportamento dell'analista, la sua maniera di trattare il paziente, il clima che egli instaura, influenzano il transfert; cominciai addirittura a capire che il controtransfert precede spesso il transfert, e deve necessariamente precederla. Compresi inoltre che l'analizzando e l'analista, fin dalla prima seduta, sviluppano fantasie l'uno nei confronti dell'altro, fantasie che vengono fortemente attivate dal particolare isolamento e distacco della seduta rispetto a tutto il resto, dal fatto che l'analista è uno sconosciuto, nonché dall'intimità della situazione. Imparai a chiedere a tali fantasie, sia nell'analizzando che in me stesso, che cosa esse avessero da rivelare non soltanto circa il passato, ma anche sul "qui e ora". Inoltre, dal transfert dei desideri pulsionali, ma anche e soprattutto dal transfert della difesa, imparai sempre di più sul loro carattere riferito all'oggetto: mi resi conto di non essere soltanto l'"attaccapanni del transfert" (R. Fliess). Il risultato di questa modifica della tecnica fu un'evidente intensificazione e un approfondimento del processo analitico: nel "qui e ora" l'analizzando rivive al presente i suoi problemi. Se nell'analisi di contenuto essi gli erano sembrati, per lo più, soltanto una storia passata che si ripercuoteva sul presente, restando così facilmente nell'ambito di una costruzione reali, ed egli li esperiva in actu. Quest'esperienza mi offrì la motivazione per preferire all'analisi di contenuto l'analisi del transfert.

Un'ulteriore modificazione, strettamente collegata alla mutata comprensione del transfert, ebbe, per conseguenza, un rafforzamento della mia presenza emozionale. Essa condusse a un'ulteriore demolizione dell'ideale specchio-anonimità-neutralità-astinenza, un ideale proprio del pensiero accentrato sul metodo di quel Freud per mezzo del quale i rappresentanti di questa tendenza fondano l'ortodossia della loro tecnica.

Tale modificazione si determinò, da una parte, per il fatto che cominciai a trattare analiticamente le psicosi e le malattie psicosomatiche, dall'altra per il fatto che nel mio studio si presentavano sempre più pazienti per i quali l'assunto freudiano di un "ambiente affettivo probabilmente medio" precedente la fase edipica non corrispondeva a verità. Malati, insomma, le cui carenze strutturali dell'Io nella fase pre-edipica avevano determinato maggiormente la patologia di quanto non lo avessero fatto i conflitti edipici: gli unici nominati da Freud. Le variazioni della tecnica che ne risultarono si trovarono sulla stessa linea delle esperienze trasmesse da Ferenczi, Balint, Spitz e Nacht. Lavorando con questi pazienti scoprii che, fino ad allora, nella terapia delle nevrosi, mi ero servito di categorie di comprensione e immedesimazione che sono specifiche degli adulti. Esse si rivelavano adesso insufficienti. Mi trovai a dover sviluppare in me stesso delle nuove qualità di comprensione e immedesimazione, che mi aiutarono a comprendere il mondo primitivo dell'Io in evoluzione, con la sua psicologia assolutamente specifica, nell'ambito del rapporto tra madre e bambino. La sua giustificazione fondante risiedeva nella comprensione, sempre più approfondita, della limitatezza di un'applicazione della tecnica centrata sul metodo, metodo di cui mi apparve sempre più evidente il condizionamento storico - come ad esempio per quanto attiene i concetti di neutralità, anonimità, specchio, astinenza e regola fondamentale. La tecnica, secondo il mio pensiero, non può essere applicazione di regole e programmi teorici: essa dev'essere in rapporto operativo e funzionale con essi, vale a dire dev'essere una tecnica centrata sul paziente. Ciò mi ha procurato il piacere di un lavoro vivo, sperimentale, alla ricerca di nuove strade. Questa nuova tecnica, da una parte, ha ampliato il mio spettro di casi indicati all'analisi, dall'altra mi ha indotto a considerare criticamente la classificazione di certi pazienti come "non analizzabili", fino a quel momento metodologicamente fondata.

Il mio atteggiamento di rifiuto nei confronti della "non analizzabilità", e dell'obbligo, che necessariamente ne scaturisce, di offrire altre forme di terapia (ad esempio terapie a frequenza bassa) e altre forme di setting (terapia di coppia e di gruppo), ha avuto forti ripercussioni sul mio modo di lavorare. Lo stesso vale per la terapia delle psicosi. Queste integrazioni mi aiutarono a liberarmi dall'atteggiamento dell'analista classico e a intravedere nuove problematiche quali la maggiore complessità del trattamento dei malati psichici. In questo contesto i quadri clinici definiti, come pure la tecnica specifica ad essi di volta in volta riservata, persero significato.

L'influenza più profonda sulla mia maniera di lavorare è stata tuttavia esercitata dalla comprensione crescente del significato assunto da me, in quanto persona e in quanto analista, rispetto all'inizio, al decorso e alla conclusione del processo analitico. Tale comprensione scaturì di conseguenza dal rifiuto ad assumere la posizione oggettivante dell'osservatore, e dalla decisione in favore della "presenza". Lo sguardo, fino a quel momento prevalentemente rivolto all'analizzando, ai suoi conflitti e al suo modo di lavorare, si spostò maggiormente su di me. Dall'esperienza per cui gli ideali di neutralità, anonimità e astinenza dell'analista sono soltanto finzioni, che hanno validità soltanto finché vi si crede, ma che a una osservazione critica si rivelano come finzione, quindi dall'esperienza di un sostanziale coinvolgimento nel processo analitico, e dal riconoscimento di tale esperienza, giunsi a riconoscerne la validità per il processo analitico. Solo se partecipo. A quanto risultava dalla mia esperienza, solo se sono uno degli interessati al processo inconscio, posso comprendere il mio paziente. La formula che ne risulta è, per me, la seguente: senza il mio coinvolgimento, il processo analitico diviene un gioco intellettuale d'interpretazioni; un eccessivo coinvolgimento lo annulla. Ciò mi ha condotto ad indirizzare soprattutto su di me, durante il lavoro analitico con l'analizzando, lo strumento dell'analisi. Non, come sosteneva Freud, per evitare il controtransfert, bensì per comprenderla e per usarlo da un punto di vista tecnico.

(Traduzione di Maria Noemi Plastino)

 


Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 285-289

Stato dell'arte della tecnica psicoanalitica della schizofrenia

Gaetano Benedetti, Svizzera (Inzlingerstr. 291, 4125 Riehen, Basilea, CH)

I. Psicoterapia individuale:

A.
Sviluppi storici e modifiche tecniche attualmente significative. Gli indirizzi tecnici fondamentali sono qui tre: quello essenzialmente interpretativo, di origine più antica (Freud, Jung), illuminato in seguito da nomi come Rosen e infine Rosenfeld. Metodi ben diversi fra loro, ma tutti diretti a mediare insight al malato, come recentissimamente nella cosiddetta terapia EIO (Exploratory Insight-Oriented) riassunta da Gunderson [vedi lo studio di Boston]. Successivamente quello interpersonale, che ai nomi dei fondatori Sullivan e Fromm-Reichmann aggiunge quelli più recenti di Arieti, Searles, O. Will, Síírala. Esso si è orientato in direzioni diverse, unite però dalla preoccupazione dei terapeuti di mediare ai loro pazienti vissuti integrativi di rapporto, di far loro rivivere situazioni passate di abbandono, simbiosi perversa, dipendenza distruttiva in situazioni transferali nuove, le quali accolgano la psicopatologia dell'infermo in un contesto comunicativo. Infine il metodo della realizzazione simbolica, iniziato da M. Sechehaye e divenuto, nei suoi aspetti fondamentali, la base di tante terapie fondate sul simbolo e la produttività artistica nella riflessione psicoanalitica. Lo sviluppo degli ultimi decenni è segnato da autori che come Lidz, Racamier, Wynne raccolgono, nel termine di psicodinamico, l'intero approccio terapeutico. La modifica sta in una tendenza alla sintesi, come mostrano oggi le cosiddette "strategie multimodali". In ciascuna di esse si lasciano riconoscere "opposti dialettici", che non si escludono a vicenda, ma si applicano, di volta in volta, a seconda dello stadio di evoluzione del paziente, della gravità della sindrome e anche della personalità dell'analista. a) Conviene, ad esempio, lasciar regredire il paziente schizofrenico, affinché egli ritrovi, nella ripetizione della simbiosi, l'origine e la soluzione dei suoi problemi o è meglio confrontarlo con la struttura della realtà psicosociale? b) E' più utile comprendere assieme a lui le dinamiche specifiche del suo passato o, anzitutto, offrirgli nel rapporto terapeutico un modello valido del presente? c) Bisogna prima analizzare le sue resistenze, anche se di altro tipo che non quelle neurotiche, o aiutarlo, come già insegnava Federn, a ricostruire una capacità di resistere che, nella psicosi, in seguito allo sfaldamento dell'Io viene perduta?
Le risposte della letteratura recente mostrano una maggiore flessibilità di scuole e migliore coscienza dei pluralismi.

B. Modifiche nella propria tecnica. La concezione della nostra scuola, delineatasi attraverso scritti e simposi internazionali nel corso soprattutto degli ultimi venti anni, concretatasi nei nostri gruppi di lavoro a Basilea e a Milano così come nel trattamento e supervisione di oltre 500 pazienti in Svizzera e in Italia, è descrivibile, sinteticamente con i tre concetti della internalizzazione e trasformazione intrapsichica della immagine del partner terapeutico del paziente, il cui Sé si sviluppa, simmetricamente, lungo tale processo; della positivizzazione dell'esperienza psicotica attraverso associazioni, sogni e fantasie del terapeuta, che pongono questi nel mondo del paziente per trasformarlo dal di dentro attraverso i vissuti terapeutici; della psicopatologia progressiva, ossia della riedizione, da parte del paziente, della propria esperienza psicotica attraverso l'identificazione con il terapeuta e la conseguente trasformazione delle immagini psicopatologiche in intenzioni comunicative. La transitività terapeutica, ossia la configurazione positivizzante di ciò che è sentito negativo del paziente, concorre alla dualizzazione della psicosi e così, attraverso la categoria della reciprocità, esce dall'autismo e crea la intersoggettività. Questa equivale alla formazione di un "soggetto transizionale", che ha radici contemporaneamente, nella persona dell'uno e dell'altro partner e che completa la diade terapeuta-paziente con una figura di triangolazione. Il soggetto transizionale è spesso visibile nel simbolo e nell'arte schizofrenica; la sua progressiva "personificazione" da parte del paziente sublima i processi patologici di appersonazione psicotica e li intesse quindi in un movimento progressivo della psicosi, procedendo così a una nuova formazione di identità. Il motivo maggiore delle nostre modifiche sta nel riconoscimento di una incapacità dell'Io psicotico alla sintesi ed integrazione senza l'internalizzazione di una immagine terapeutica attiva, positivizzante e, a sua volta, capace di internalizzare profondamente la miseria psicotica e un'immagine di potenzialità ideali del malato. In tutto questo processo noi stiamo molto attenti alle capacità curative dell'Inconscio terapeutico, quali si manifestano nei sogni, nelle associazioni, nelle fantasie ecc. L'incontro con il paziente psicotico attiva talora l'Inconscio terapeutico fino alla creazione di sogni simultanei!
Un esempio illustrativo è necessario per non rimanere nell'astratto. Cito un caso in cui le tendenze proiettive (paranoidi) della paziente condussero questa, dopo una fase di transfert positivo, a una grave crisi transferale. Questa si rispecchiava nel sogno della paziente di trovarsi completamente sola, dopo un viaggio in ascensore, e di dover ridiscendere l'altissimo edificio scivolando lungo la facciata. Nella medesima notte il terapeuta entrava anche egli, con un sogno, nella situazione di pericolo, capovolgendola: egli si percepiva con la paziente in un'abitazione comune costruita su un picco di roccia. All'ammalata atterrita egli assicurava che, essendo il pavimento di vetro trasparente, loro potevano osservare esattamente tutta l'armatura in cemento (senza il diaframma paranoide). La meditazione comune di questi due sogni mostrava: 1. la loro simultaneità, garanzia di un'intesa dei due sistemi inconsci; 2. l'entrata del terapeuta nella situazione di panico della paziente, che contemporaneamente veniva resa positiva e aperta al dialogo; 3. l'internalizzazione e trasformazione dell'imago della paziente nel sogno del suo terapeuta. Nel compiere la propria analisi il terapeuta poteva anche rendersi conto di come situazioni senza difesa, da lui vissute nella propria infanzia, gli permettevano l'identificazione parziale con il vissuto della paziente. Questa, a sua volta, sviluppava, dopo l'elaborazione comune dei due sogni, un sistema paranoide nuovo (psicopatologia progressiva), che si distingueva dal primo per la trasformazione del terapeuta persecutore nel terapeuta in pericolo, riaprendo così la porta della comunicazione con lui.

II. Terapia familiare:

Questa terapia ha, nel trattamento di pazienti schizofrenici, più di mezzo secolo di vita e risale allo psicoanalista Federn che, per primo, sostenne la tesi dell'impossibilità di un trattamento psicologico senza un lavoro con le famiglie dei pazienti. Tale lavoro consisteva allora in una presa di contatto, non sistematico, con i problemi delle famiglie, nello sforzo di ottenere la loro collaborazione nella gestione di aspetti sociali e nella psicoterapia individuale. Solo in secondo tempo si sviluppava l'insight terapeutico, e cioè che le famiglie di pazienti schizofrenici rappresentavano in sé un oggetto terapeutico, sia perché spesso sono portatrici, almeno in parte, delle cause psicologiche della malattia, sia perché, secondariamente, oberate dal peso della vita in comune con gli infermi. Con R. Schindler si sviluppava negli anni cinquanta la "Terapia bifocale" della schizofrenia, consistente nel trattamento parallelo di gruppi di pazienti e delle loro famiglie. Gli ultimi venti anni hanno visto uno sviluppo di siffatte tecniche sia in Europa sia in America; esse hanno permesso di riconoscere la complessità dei problemi creati dai malati nelle loro famiglie e la necessità di curare sia le famiglie che i pazienti, tanto nell'interesse della famiglia che in quello dei malati. In Norvegia e in America si è arrivati al punto di ospedalizzare membri della famiglia contemporaneamente ai pazienti. Da tutte queste tecniche si distinguono quelle che non si limitano al contatto terapeutico con la famiglia, ma trattano i pazienti in sedute comuni, di pazienti e delle loro famiglie. Il setting è stato così mutato radicalmente.

Il progresso ulteriore di queste ultime tecniche sta, come per le tecniche individuali, nello sviluppo di strategie multimodali: abbiamo, da un canto, diversi metodi, quello direttivo di Haley, quello strutturale di Minuchin, quello contestuale di Boszormeny-Nagy, quello dinamico di Stierlin, ecc. . Ma ciascuno di essi è, più o meno, anche una strategia multimodale: sono percepibili l'influenza della teoria della comunicazione e il viraggio dalla comprensione all'azione psicosociale ad esempio nei lavori di Haley, di Weakland, di Fish, nonché l'influenza della psicoanalisi, della teoria dei sistemi, del paradosso nei metodi di Selvini, Stierlin, ecc..

III. Terapia ambientale e di gruppo:

Sebbene le tecniche non siano psicoanalitiche nella riflessione cosciente e nella formulazione esplicita dei loro autori, esse vanno qui ricordate perché i progressi maggiori stanno nel passaggio dalla formula dell'adattamento alla norma sociale a quello della comprensione psicodinamica dei pazienti; comprensione di cui la psicoanalisi è stata sempre il battistrada. Gli ultimi quindici anni hanno visto considerevoli progressi nella chiarificazione di ciò che costituisce un ambiente terapeutico per schizofrenici. Già nel 1965 Greenblatt dimostrava che piccoli gruppi di pazienti, trattati intensivamente con terapia ambientale e farmaci si avvantaggiano notevolmente rispetto a pazienti trattati con gli stessi medicamenti, ma in ambiente custodito tradizionale. Seguivano, nel 1972 e nel 1977, i lavori di Paul e collaboratori, i quali non solo confermavano tali risultati, ma precisavano che pazienti trattati per quattro mesi nel modo suddetto continuavano, anche dopo le cessazioni di ogni terapia, a svilupparsi favorevolmente in confronto ai malati rimasti a regime farmacologico e di custodia. Non solo, ma i primi, anche senza farmaci, andavano più raramente incontro a recidive. In particolare, notevoli erano i vantaggi riguardanti gli apprendimenti sociali. Nel 1977 Carpenter e collaboratori ripetevano gli esperimenti al National Institute of Mental Health (NIMH) e stabilivano che, fra pazienti trattati farmacologicamente e pazienti non trattati in tal modo, non c'era differenza alcuna riguardo la sintomatologia e il funzionamento sociale, purché ambedue i gruppi fossero oggetto di "terapia ambientale" (milieu terapia). A questo punto Mosher e collaboratori crearono un tipo di ambiente psicodinamico (chiamato Casa Soteria) ove piccoli gruppi di pazienti vennero trattati per sei settimane da personale non specializzato in psichiatria, ma addestrato nell'aiutare i pazienti a integrare i sintomi psicotici in esperienze significative. Ancora una volta i risultati furono lusinghieri e sorpassarono, quanto a scomparsa di sintomi e recupero di capacità lavorative e relazionali, quelli ottenuti con pazienti trattati in ospedale psichiatrico. Alla luce di una catamnesi biennale le recidive furono del 52%, contro 68% nei gruppi di controllo. Tale studio confermava così che i farmaci non sono necessari nel trattamento ambientale di schizofrenici cronici.

Voglio concludere con l'osservazione che la psicoterapia individuale da me seguita, con i suoi concetti di simmetria parziale e simbolica fra terapeuta e paziente, positivizzazione della psicopatologia, incoraggiamento dell'espressione dei sentimenti, si articola come una variante individuale di siffatte concezioni.


Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 290-296

La prassi psicoanalitica consueta e quella modificata

Arno von Blarer, Svizzera
(Neptunstrasse 4, 8032 Zürich 7, CH)

Premessa

Vorrei visualizzare quei mutamenti che mi si sono imposti negli ultimi trentacinque anni di attività psicoanalitica. Se però intendo mettere brevemente in evidenza quegli scritti e quelle riflessioni sulla tecnica psicoanalitica che hanno introdotto o avviato tali mutamenti, voglio dire con ciò che alcuni impulsi metapsicologici hanno influenzato la mia tecnica in maniera determinante, nel gioco dialettico con i movimenti e gli eventi sociali. Per quanto riguarda il modo della ricezione e dell'elaborazione delle letture psicoanalitiche, devo premettere che, nell'accogliere proposte e riflessioni metapsicologiche, sono un amalgamatore. Voglio dire che, già durante la lettura, o in un arco di tempo assai breve, incorporo le tesi e le proposte di un autore, le amalgamo appunto, in maniera tale per cui posso sostenere soltanto la mia versione personale di quelle tesi.

Influenze metapsicologiche e sociali sul mio lavoro

Alcune tesi, scritti e proposte metapsicologiche sulle quali ritornerò. Innanzitutto, e sempre ancora di nuovo: Ricordare, ripetere e rielaborare di Sigmund Freud. Inoltre: L'analisi del carattere di Wilhelm Reich, gli stimoli per una teoria dell'adattamento dell'Io di Heinz Hartmann, la teoria dei rapporti oggettuali di Edith Jacobson, i lavori di Kurt Eissler sulle norme nella tecnica psicoanalitica e sulle loro conseguenze, la tecnica dello specchio e la teoria dell'empatia di Heinz Kohut, il confronto di Otto Kernberg con l'aggressione del cliente per mezzo della percezione della propria reazione di controtransfert, i materiali e le spiegazioni di Margaret Mahler sull'importanza e sulla funzione dei conflitti di separazione e d'individuazione nella vita dell'individuo, le immagini e i concetti di Donald Winnicott, come "holding environment", "good enough mothering", "transitional object" (In inglese nel testo - N.d.T.), le riflessioni di John Klauber sul "setting" psicoanalitico, e infine la teoria dei meccanismi di adattamento di Paul Parin, e le sue proposte per una "critica sociale nel processo d'interpretazione".

Oltre a questo elenco di pubblicazioni sulla tecnica che mi hanno influenzato, anche il momento storico ha esercitato pressione ed influenza sulla mia tecnica, in rapporto con i conflitti dei miei clienti:

- la fede nel progresso nell'ambito dell'economia, della tecnica e della scienza negli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta;

- il rinvigorimento proprio di questo pensiero nella primavera del ‘68 e ‘69, che comportò ad esempio un mutamento di rapporto con le autorità e con le norme; il femminismo, per citare soltanto un altro dei movimenti riesplosi allora, che rivalutò concetti quali "castrazione", "invidia del pene", "primato della genitalità". ecc.;

- l'autogestione nel seminario di formazione psicoanalitica di Zurigo, sotto l'influenza della "piattaforma" e della cosiddetta "polemica del seminario di Zurigo" che ne risultò (1974-76), e le sue conseguenze, che si sono ripercosse anche nel nostro pensiero.

Osservazioni sugli influssi dei singoli scritti e tesi

Al principio era il fatto? E ad esso seguì il ricordo e a questo la parola? Una vecchia questione dei filosofi. Forse a Freud apparve così preziosa la sua prima scoperta, secondo cui ricordare la storia dei conflitti guarisce le sofferenze di origine psichica che mise il termine "ricordare" all'inizio del titolo di quel lavoro che poneva la prima pietra della teoria della tecnica psicoanalitica. Se si volesse tener conto del decorso del processo analitico, il lavoro dovrebbe chiamarsi "Ripetere, ricordare, rielaborare". Già con questa riflessione si accenna ad un movimento nella storia della mia tecnica psicoanalitica: io ritengo che il ripetere sia una delle vie maestre per accedere all'esplorazione di quella parte inconscia, e dunque rimasta priva di parola, di una vita umana. Questo è uno dei pilastri della tecnica psicoanalitica che continua sempre ad affascinarmi e ad interessarmi: spesso un conflitto viene ricordato soltanto se è stato sufficientemente messo in scena nella e sulla persona stessa, e nei suoi rapporti con il mondo, e rappresentato nel transfert. Combattere analiticamente questo fatto come mera "rappresentazione della resistenza" risulta in linea di massima controproducente per il processo psicoanalitico.

La tesi di Wilhelm Reich secondo cui i tratti e le particolarità del carattere di un individuo devono essere visti come il coagulo storico delle sue tendenze al conflitto e al transfert, ha apportato nuova luce in quegli ambiti, fino a quel momento nebulosi, dell'immagine dell'individuo degli anni cinquanta intesa in senso psicodinamico. L'analisi del carattere di Reich ha tolto la funzione di protezione e di difesa della "corazza" del carattere dalla zona d'ombra, emanando per me una forza eminentemente rivoluzionaria. Fino ad allora l'attenzione della psicoanalisi si era rivolta principalmente a ciò che le persone rivelavano, di giorno nel loro comportamento "mancato", nei loro atti "mancati", e di notte nei loro sogni, a proposito delle loro tendenze al conflitto e dei loro modelli di superamento del conflitto. Con l'intuizione di Reich la funzione psicodinamica del carattere emerse in maniera affascinante: come armatura, come corazza protettiva e, allo stesso tempo, inibitrice, poteva essere visto in un'ottica fino a quel momento sconosciuta. Sigmund Freud (1904), in una visione descritta con un pathos da Vecchio Testamento, sembrò essersi avvicinato ancora di più alla sua realizzazione:

Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare nessun segreto. Chi tace con le labbra, chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori. Perciò il compito di rendere coscienti le cose più nascoste dell'anima è perfettamente realizzabile. (Frammento da un'analisi d'isteria. Caso clinico di Dora. Opere, 4, p. 364, Torino: Boringhieri).

Con Reich si poté sperare nuovamente di visualizzare nell'ottica analizzante l'intera personalità, strutturata dalla storia dei suoi conflitti. Ogni particolarità del carattere aveva, in questo sistema, una funzione da rispettare, che non poteva essere ignorata, a meno che non si volessero tralasciare degli importanti "focolai di resistenza" della nevrosi reazionaria nemica della libertà, sventando così attraverso un mutamento strutturale, un'autentica liberazione: un'enorme utopia. Ma una richiesta ideale altrettanto grandiosa e non di rado paralizzante. Con le tesi di Wilhelm Reich sull'analisi del carattere si accrebbe la speranza di poter trasformare l'elemento nevrotico non soltanto in "infelicità comune"; alcune delle sue tesi sulla sessualità e sulla politica avevano l'obiettivo dichiarato di mettere in evidenza le condizioni sociali della nevrosi, che fino a quel momento non erano conosciute. Si accrebbe così la mia speranza in una migliore comprensione dell'uomo in quanto animale politico (zoón politicón), che vive sempre in una situazione politica. La fantasia (di onnipotenza) secondo cui questo nostro mondo avrebbe potuto progredire verso la pace e la libertà mediante i progressi della tecnica psicoanalitica, se tutti i potenti si fossero sottoposti ad una psicoanalisi presso analisti come noi, veniva manifestata sì per gioco, e con una certa autoironia, ma non senza un granello di speranza nelle possibilità sopite nella nostra scienza. La mia personale immagine ideale di progresso - nettamente separata dal resto della mia immagine del mondo - che cioè attraverso mutamenti strutturali della situazione individuale, interiore, si potesse mutare anche la situazione esterna, rimase una delle molle pulsionali del mio fare e non fare in psicoanalisi.

Quanto fosse fondata la mia convinzione che il mondo dovesse essere cambiato, lo dimostra secondo me questo esempio: anche da parte delle redazioni di grandi riviste specializzate di psicologia del profondo, che avevano in parte le redini del potere, le reazioni di controtransfert dell'analista venivano definite, in conformità alle regole del gioco vigenti a quell'epoca nella comunità psicoanalitica, come i suoi panni sporchi. La rappresentazione di un caso, in cui veniva accuratamente descritta la reazione di controtransfert dell'analista, venne squalificata come pubblicazione scientifica. Ciò era causato chiaramente dalla descrizione di ciò che succede nel campo concreto di tensione tra i due partner del contratto psicoanalitico, con le loro rispettive tendenze al conflitto e al transfert (e dunque anche al controtransfert). La squalifica morale serviva a camuffare una di quelle norme che, a quell'epoca, godevano di grande considerazione nell'impresa scientifica della psicoanalisi: tu devi mistificare il processo psicoanalitico. Avevo già allora assorbito "osmoticamente", attraverso i pori, il concetto di parametro, spesso emerso nelle discussioni casistiche molto prima di incontrare il lavoro di K.R. Eissler (1953). Da una parte, credevo che una tecnica standard, unitaria e normativa, dovesse essere l'obiettivo della nostra scienza, e speravo naturalmente che l'avrei appresa. Ciò mi espose però - come credo che successe allora anche ad altri psicoanalisti - ad un'enorme tentazione: identificarmi con piacere nell'ideologia dello psicoanalista in quanto custode del sapere sui "rapporti umani".

La seconda ondata metapsicologica giunse dalla psicologia dell'Io. Essa mi indusse, innanzitutto, ad un ampliamento e ad un'accentuazione dell'ottica psicoanalitica, dal momento che chi diceva psicologia dell'Io doveva intendere con ciò soprattutto una psicologia ampliata e approfondita dei rapporti oggettuali. A quanto ricordo, la traccia più persistente di quest'ondata nel mio rapporto con il "materiale analitico" l'ha lasciata il lavoro di Heinz Hartmann (1939) sulla psicologia dell'Io e sul problema dell'adattamento, oltre alla psicologia del Sé e del suo mondo oggettuale di Edith Jacobson (1964); per quello che credevo d'aver capito della psicologia dell'Io, il suo obiettivo era l'adattamento ottimale. L'esigenza di un equilibrio interiore e di una buona considerazione di sé dovevano essere collegati ad una percezione e ad una valutazione realistica, per quanto possibile non offuscata da coazioni a ripetere, delle situazioni esterne "oggettive" e dei rapporti (di potere). Per esempio: valutare il traffico stradale così da arrivare in maniera ottimale dall'altro lato della strada, dove si trova l'oggetto dei miei desideri ardentemente bramato. Per "adattamento alle richieste sociali" intendo, ancora oggi, la percezione critica del mondo e il confronto con esso, non l'identificazione sottomessa. Il significativo modello di nascita psichica dell'uomo di Margaret Mahler e, per me, uno dei contributi più proficui alla psicologia dell'Io. Esso mi ammonisce a non perdere di vista l'aspetto del ritorno perpetuo dei conflitti collegati alle fasi di individuazione e separazione nel distacco dai vecchi modelli di rapporto il che conduce, allo stesso tempo, ad un maggiore campo d'azione nella vita di un individuo.

L'atteggiamento di Donald Winnicott e John Klauber di rispetto dell'intera personalità dell'altro, mi dà l'impressione che qui il campo di rapporto e di tensione si trovi al centro dell'interesse analitico, per cui l'intera offerta del cliente viene percepita e rispettata come un'opera d'arte altamente condensata. La proposta che una nevrosi, di qualunque genere essa sia, debba essere considerata come un'opera d'arte che rappresenta scenicamente l'intera storia delle tendenze al conflitto e al transfert, sotto la spinta della coazione a ripetere, mi piacque molto. Mi sembrò che con questo atteggiamento diventasse possibile evidenziare e comprendere le strutture e le disposizioni difensive paralizzanti del partner analitico.

La funzione della luce che brilla negli occhi della madre, messa in evidenza da Heinz Kohut mi apparve immediatamente chiara. Se la situazione interiore è strutturata in modo da presentare delle carenze narcisistiche, è attraverso il "rispecchiamento" che spesso si può mobilitare un Io sufficientemente integro e in grado di sostenere un confronto. Le riflessioni di Kohut rafforzarono la mia comprensione della funzione degli investimenti non oggettuali per il benessere dell'individuo in tutti i rapporti umani. Determinante per me non è scoprire se qualcuno si serve della sua persona come oggetto parziale, bensì fino a che punto ciò accada (ad esempio, uno psicoanalista si serve, talvolta e temporaneamente, di un collega in colloqui di controllo, come se questi fosse il suo oggetto parziale). Quando crolla il mondo dei rappresentanti interiori perché i sistemi di valori dell'infanzia hanno perso credibilità, si cercano oggetti parziali per ristabilire o rafforzare la coerenza interiore. Analogamente, empatia significa per me quello strumento di percezione in cui fluttuano essenzialmente componenti di modi di percezione in cui fluttuano essenzialmente componenti di modi di percezione e d'investimento precedenti, non verbali. René Spitz l'ha descritta con il concetto di "percezione cenestesica", che nella socializzazione finita/infinita del ruolo della donna viene permessa, richiesta e favorita più di quanto non succeda di solito per l'uomo. La proposta di Otto Kernberg di differenziare la reazione di controtransfert dell'analista dalla sua propria tendenza al transfert ed al conflitto, e di impiegarla maggiormente per la comprensione del campo psicoanalitico di tensione, invece di reprimerla in nome di una "coscienziosità" pseudoscientifica, confermò la mia necessità di completare le tesi di Kohut sulla funzione di specchio dell'analista con integrazioni e correzioni indispensabili.

Non è un caso che Fritz Morgenthaler (1978) abbia scritto Tecnica: La dialettica della prassi psicoanalitica negli stessi anni in cui noi lavoravamo al nostro modello teorico e metateorico. Facevamo parte dello stesso gruppo, che aveva preso le distanze dalle idee e dai metodi di formazione della "Società di Psicoanalisi", e discutevamo questioni analoghe, (quali ad es. lo sfondo ideologico della metapsicologia del primato della "genitalità matura"). Senza che avessimo mai direttamente parlato del suo o del nostro lavoro, il suo libro rappresentava il pendant che andava a integrare il nostro documento, in cui ci eravamo consapevolmente astenuti da ogni casistica. Quando lesse il nostro manoscritto, egli disse che vedeva il nostro modello come un'integrazione teorico-metateorica del suo lavoro.

Delle teorie di Paul Parin sui "meccanismi di adattamento" con cui si reagisce alle offerte socio-economiche, alle seduzioni e ai ricatti della società, mi hanno attirato soprattutto le sue tesi sull'"identificazione con l'ideologia dei ruoli sociali". Ciò anche in relazione al mio tentativo di cercare di restare consapevole della mia tendenza personale all'identificazione con il ruolo dell'analista come guru psicologico. Accanto al progetto di una teoria psicoanalitica dei "meccanismi di adattamento", le tesi di Parin sulla "critica sociale nel processo d'interpretazione" e sulla "contraddizione nel soggetto" promuovevano una più chiara concettualizzazione di ciò che era aleggiato nel nostro piccolo gruppo, ideologicamente omogeneo, di psicoanalisti e, negli anni cinquanta, come una delle linee direttive della tecnica psicoanalitica critica: mettere l'analizzando a confronto con il dato di fatto che la sua sofferenza è una conseguenza dell'adattamento, ostile all'Io, a ideali e tabù del mondo dell'infanzia e di quello successivo. Un simile adattamento identificatorio, dettato da forze ostili alle pulsioni e all'emancipazione, favorisce l'assoggettamento e impedisce all'Io di utilizzare l'adattamento per il proprio benessere interiore.

Poscritto

Se tento di rispondere in maniera riassuntiva alla vostra domanda sulle "modifiche tecniche più importanti", voglio dire con ciò che l'atteggiamento esteriore/interiore e l'ideologia inconscia, che sottende questo atteggiamento, improntano in materia decisiva anche "l'atteggiamento psicoanalitico" dell'analista. Mi domando però anche quali attività siano rimaste essenzialmente identiche nella mia tecnica. Dopo aver studiato psicologia (e filosofia), sociologia e pedagogia terapeutica, tra il 1951 ed il 1970 praticai anche analisi con bambini. Successivamente mi limitai invece al lavoro con gli adulti. All'inizio ricercavo appassionatamente criteri di orientamento, "regole scientifiche", perché uno dei miei obiettivi principali era essere riconosciuto (soprattutto dalla Società svizzera di psicoanalisi) come un "buon" psicoanalista. Da allora la mia tranquillità di fronte alle richieste relative al Super-io della psicoanalisi istituzionalizzata è aumentata. Di conseguenza posso mantenere anche una maggiore tranquillità di fronte alle mie idealizzazioni e tabù interiorizzati.

Vorrei definire un'altra attività come tendenza permanente. Mi riferisco a quella tendenza che ha a che fare con la questione della successione psicologicamente giusta dei termini nel titolo del lavoro di Freud citato all'inizio. Sono tuttora ugualmente affascinato da quella considerazione che vede in ciò che un uomo è - e nel modo in cui egli realizza ciò che è - la sua storia coagulata, e tento di comprendere questa storia attraverso ciò che quest'uomo fa (in che modo aggira i suoi conflitti). In questo contesto la psicoanalisi con i bambini mi ha insegnato che gli adulti non hanno perso, ma soltanto trasferito la modalità infantile di messa in scena. I bambini danno spesso al terapeuta delle indicazioni di regia ("Adesso devi fare il ladro, e devi arrabbiarti molto perché non trovi il mio tesoro"). Anche l'adulto mette in scena come un regista la storia della sua personalità in tutti i suoi rapporti interumani, e quindi anche nel setting psicoanalitico. "Chi ha occhi per vedere ed orecchi per intendere" veda e intenda... .

(Elaborazione redazionale di Judith Valk Zurigo; Traduzione di Maria Noemi Plastino)


Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 296-300

Lo stato dell'arte della tecnica psicoanalitica

Paul Parin, Svizzera (Utoquai 41, 8008 Zürich, CH)

Rispondo alla seconda domanda. Ho cominciato le mie prime tre analisi nel 1948, quando ero assistente (sono medico) ed ero io stesso in analisi presso il professore Rudolf Brun a Zurigo. Nell'aprile del 1952, in collaborazione con Fritz Morgenthaler e Goldy Parin-Matthéy, ho aperto uno studio privato di psicoanalisi, che ancora oggi conduco, benché in misura ridotta. La psicoanalisi è la mia attività principale. Accanto ad essa ho tenuto, fino al 1955, uno studio di consultazioni neurologiche; dal 1955 al 1971, ho condotto una ricerca nel settore dell'etnopsicoanalisi e fino al 1981 ho espletato varie attività psicoanalitiche di carattere didattico e ho pubblicato dei lavori.

Le modificazioni della mia "tecnica" si possono raggruppare in tre categorie. Il primo gruppo (1) comprende modifiche tecniche in senso stretto, facilmente descrivibili, che si sono imposte durante i miei primi anni d'attività. Un secondo gruppo (2) riguarda misure volte a consentire, accanto alla psicoanalisi, la pratica della ricerca nel settore dell'etnologia. Il terzo gruppo, quello più importante (3), riguarda modifiche che non si possono quasi descrivere come "tecniche". Si tratta, secondo la definizione di Fritz Morgenthaler, dello sviluppo di una "dialettica della prassi psicoanalitica", che deriva in misura considerevole da esperienze psicoanalitiche in culture straniere.

1) L'analisi da me praticata veniva condotta a tre sedute settimanali di cinquanta minuti l'una. Ho cominciato con sedute della durata di 55 minuti; a partire dal 1952 ho preferito cinque sedute alla settimana, accontentandomi però spesso di quattro. Sono diventato sempre più disponibile ad eventuali modifiche del ritmo che si rivelassero opportune. Il minimo di sedute, per consentire lo sviluppo di un processo analitico, era (allora) una seduta di 120 minuti la settimana, il ritmo più serrato (allora) cinque sedute di 115 minuti l'una. Durante i primi quattro anni, di assistentato, ho dovuto lavorare gratuitamente. Le esperienze positive di quel periodo mi hanno indotto, in seguito, ad accettare le modalità di pagamento più svariate, compresi i finanziamenti esterni: mi sono sempre preoccupato però del fatto che il pagamento dell'analisi non compromettesse in maniera essenziale lo standard di vita. Non mi sono mai fatto pagare le sedute che non avevano avuto luogo. Ciò era concordato fin dall'inizio. I pagamenti in denaro non potevano così mai diventare un castigo reale per aver saltato una seduta. All'incirca fino al 1956 ho spiegato agli analizzandi, all'inizio dell'analisi, la cosiddetta "regola fondamentale"; in seguito ho lasciato cadere quest'abitudine, come del resto tutto ciò che, nel setting, è modellato sulla traccia di un contratto commerciale o giuridico, e ho lavorato invece allo sviluppo di un rapporto di reciproca fiducia. Tuttavia ho dovuto fare a meno di accettare analizzandi o analizzande nei confronti dei quali io avvertissi, durante i primi contatti, un'antipatia da parte mia non superabile. In linea di massima ho proposto "il divano", ma con il passare del tempo mi sono trovato sempre più spesso ad analizzare, sia stabilmente che temporaneamente, sedendo di sbieco di fronte all'analizzando, a seconda delle necessità di quest'ultimo.

2) Le spedizioni in Africa Occidentale duravano all'incirca, sei mesi ciascuna, e avvenivano ad intervalli di due o tre anni l'una dall'altra: un anno prima della partenza si sapeva, ogni volta con certezza, quando si sarebbe verificata la prossima interruzione. Prima di iniziare ciascuna analisi, mettevo l'analizzando al corrente di queste limitazioni della mia disponibilità. Non appena avevo progettato nuovamente uno di questi viaggi, informavo tutti coloro che in quel momento si trovavano in analisi della data del viaggio e della sua probabile durata, e fino alla partenza non cominciavo nuove analisi. Il dato di fatto dell'imminente interruzione venne da me, in linea preferenziale, inserito nel processo d'interpretazione, più o meno come ha raccomandato Kurt Eissler per il "parametro". Tale modo di procedere si è rivelato adeguato: né io, né Goldy Parin-Matthéy, né Fritz Morgenthaler (che si trovavano nella mia stessa situazione), abbiamo notato, in occasione delle sei spedizioni, che le analisi interrotte avessero subito pregiudizi considerevoli, né abbiamo potuto osservare dei contrattempi (quali interruzione della cura, gravi depressioni ecc.) che fossero da ricondursi all'interruzione.

3) Fin dall'inizio della mia attività professionale ho rinunciato a servirmi di quelle interpretazioni, raccomandate da Wilhelm Reich e spesso utilizzate da Rudolf Brun, volte a forzare la "corazza caratteriale". Al loro posto invece sono stati coinvolti nel processo interpretativo, allo scopo di analizzare i meccanismi di difesa, dei tratti "normali", poco appariscenti dell'analizzando (ad esempio la parsimonia di un piccolo uomo d'affari; l'hobby dello sci e dell'alpinismo, così frequente in Svizzera). Per analizzare degli atteggiamenti (dell'Io) conformi al ruolo, adattati, e dunque socialmente non perturbatori, che agiscono come difesa, è necessario coinvolgere nel processo interpretativo la critica alle istituzioni sociali. Se un operaio, che ha frequentato la scuola soltanto per quattro anni, si lamenta della sua impotenza nelle discussioni con i superiori, allora fa parte del processo d'interpretazione mostrargli come le sue scarse possibilità di ottenere buone cognizioni scolastiche vadano a consolidare una situazione di sfruttamento istituzionalizzato. Se un'analizzanda manifesta la sensazione di trovarsi in una posizione svantaggiata rispetto ai fratelli o ad altri uomini, è indispensabile rivelarle i meccanismi, a lei ancora sconosciuti, e che sono propri di questa cultura, per cui le donne vengono a trovarsi in una simile posizione, meccanismi a cui era e a cui continua ad essere esposta. Tale procedimento ha dato buoni risultati, sia nell'analisi di "nevrosi del carattere" avanzate o irrigidite, sia nell'analisi di "nevrosi sintomatiche classiche". Se tutto andava bene si arrivava a ciò che Reich voleva ottenere, vale a dire, secondo la riuscita definizione di Willy Hoffer, "ad una riorganizzazione funzionale del sistema di difesa". Il risultato teorico era la comprensione del fatto che non esistono funzioni dell'Io non conflittuali, autonome secondarie, bensì soltanto funzioni che risalgono a conflitti relativamente allentati che, in determinate condizioni, possono essere nuovamente attivati. A questo ampliamento del lavoro d'interpretazione corrisponde il tentativo di ampliare l'ambito del transfert. Di ciò fa parte il fatto di mantenere aperti, in linea di principio, alle interpretazioni l'atteggiamento e l'attribuzione di ruoli dell'analista, la sua persona reale con le sue particolarità individuali e specifiche del ceto da cui proviene, e in particolare la sua ideologia. In altre parole: tutto ciò che propongo come "setting" per l'analisi può essere sottoposto ad interpretazione. In tal modo l'analista è coinvolto nel dialogo analitico assai di più che non nel tradizionale "controllo del controtransfert". Ciò che resta dell'astinenza richiesta è soltanto il fatto che egli non soddisfa i propri desideri pulsionali. Comunque egli non può più essere un foglio non scritto o uno specchio vuoto per la vita psichica del paziente.

E' possibile che queste "modifiche della tecnica" non si siano determinate, come ritengo oggi, già prima delle esperienze africane, bensì soltanto in coincidenza con esse. Nelle ricerche etnopsicoanalitiche è diventato assolutamente evidente che:

- non esiste una normalità indipendente dalla cultura;
- tutte le difese (anche quelle che definiamo patologiche) sono, in determinate circostanze, in sintonia con l'Io;
- non soltanto i vissuti della prima infanzia, bensì in ampia misura anche l'adolescenza e gli effetti della società sull'individuo determinano profondamente la vita psichica;
- all'analista si indirizzano aspettative e proiezioni di ruoli che devono essere coinvolti nell'analisi, affinché, di volta in volta, il transfert possa svilupparsi e manifestarsi in maniera ottimale;
- una sufficiente apertura emozionale si stabilisce soltanto se l'analista permette di tener conto dei dati suddetti.

Da queste esperienze sono emersi alcuni mutamenti metodologici nelle mie analisi. Nessuna attività dell'Io, di qualunque tipo essa fosse, doveva più essere considerata patologica. L'ambito dell'analizzabilità (analizability) si è ampliato. La considerazione dei meccanismi di adattamento (identificazione [con l'ideologia] di un ruolo ecc.) dell'analizzando e delle attribuzioni di ruoli individuali e sociali dell'analista (età, sesso, ruolo tradizionale di medico, correlazioni individuali e specifiche di classe) hanno migliorato l'analisi della difesa, portando ad un transfert più aperto dal punto vista emozionale e spesso più trasparente. In particolare è stato possibile sottoporre ad un'elaborazione conscia lo squilibrio di potere sempre implicito nella cura. Con ciò la "cura" si allontana sempre più dalla terapia medica, avvicinandosi ad un processo emancipatorio di superamento del conflitto. Ho descritto questi sviluppi come modifiche della tecnica "consueta" o "classica".

Altrettanto valido sarebbe descriverli come il tentativo di liberare la pratica analitica da quelle deformazioni e da quegli irrigidimenti che la medicalizzazione della psicoanalisi e le particolarità del suo processo di sviluppo storico hanno comportato. Valutare da questa prospettiva, le mie modifiche tecniche sono tentativi di restare fedele al metodo psicoanalitico.

(Traduzione di Maria Noemi Plastino)


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