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Psicoterapia e Scienze Umane, 1991, XXV, 2: 53-64

LE RICERCHE SULLA PERSONALITÀ TERAPEUTICA.
Nota preliminare

Marinella Mastinu

(Relazione letta alla giornata di studio su "Cultura dei servizi e culture professionali", Guastalla [RE], 2 febbraio 1990)

Il mio contributo si inquadra nell'ambito della ricerca sugli stili professionali in corso presso il Centro studi regionale per la salute mentale della Regione Friuli Venezia Giulia. Detta ricerca mira ad una analisi della operatività e delle caratteristiche distintive (stili), intese come modalità di scelta degli interventi e di interazione con il paziente, per comprendere fino a che punto queste dipendano dal modello strutturale-organizzativo, dai percorsi formativi, dai modelli teorici di riferimento e dalle caratteristiche personali del singolo operatore. Il fattore "personalità terapeutica" è quindi uno degli elementi preso in esame. L'influenza di questo fattore è tra i più difficili da determinare sia nella relazione con l'operatività in generale che nell'interazione con i pazienti. Al di là dell'uso corrente della dizione "personalità terapeutica" e del senso comune del termine, la ricostruzione storica mostra che le indagini scientifiche finora condotte sono concentrate sull'operatività psicoterapeutica. Le informazioni e la ricerca sistematica sul trattamento in senso lato e sulle figure paraprofessionali e non professionali sono allo stato attuale scarse e lacunose. Tra le molteplici linee di ricerca, quella che ha fornito i maggiori contributi è stata l'area della psicoterapia delle psicosi schizofreniche. Mi limiterò a indicare i principali contributi e rimando alla discussione un eventuale ampliamento del discorso.

Diversi autori sottolineano come le caratteristiche di personalità del terapeuta che appaiono adatte per un lavoro efficace con classi particolari di pazienti sono più differenziali che generali. Le variabili del terapeuta studiate con ricerca quantitativa sono state: adattamento personale; condizioni facilitanti: calore, empatia, genuinità; tipi di terapeuti; stile cognitivo; livello di esperienza professionale; stato professionale; sesso; età; stato socio-economico; etnia; valori sociali e culturali; conflitti di personalità, bisogni, atteggiamenti. La personalità generale del terapeuta è citata in letteratura come una variabile indipendente ma non sono stati condotti studi su di essa indipendentemente dal paziente, da classi di pazienti o dall'attività del terapeuta nella situazione terapeutica.

Da quando fu scoperta la possibilità di instaurare una relazione terapeutica con i pazienti schizofrenici, le preoccupazioni dei ricercatori si indirizzarono allo studio delle condizioni ottimali di similarità e dissimilarità tra pazienti e terapeuti, su un ampio ordine di dimensioni psicologiche, che potessero aumentare le probabilità di cambiamenti terapeutici positivi nel paziente. Sono state condotte numerose ricerche con varie metodologie a gradi diversi di adeguatezza scientifica nel tentativo di scoprire quali combinazioni dei vari fattori promuovessero il cambiamento. Uno dei filoni più importanti che riguardano lo studio della coppia paziente-terapeuta in base ai fattori di personalità è quello iniziato con gli studi di Whitehorn e Betz sui "tipi" di terapeuti.

Negli anni cinquanta Whitehorn e Betz, della clinica Phipps di Baltimora, partendo dall'osservazione empirica che alcuni terapeuti ottenevano risultati migliori di altri nel trattamento con pazienti schizofrenici riuscendo a instaurare un rapporto di fiducia con loro, svilupparono due metodi di indagine per cercare di individuare similitudini e contrasti nello stile delle transazioni cliniche e nelle caratteristiche personali. Il primo, era uno studio dei dati riportati dai medici e dagli infermieri nei registri dei casi individuali durante il periodo del trattamento dei pazienti. Il secondo era lo studio dei modelli di interessi personali dei medici usando uno strumento indipendente, lo Svib, l'Inventario degli interessi vocazionali di Strong, un test messo a punto nel '27 che caratterizza, sulla base di 400 domande, i profili di interessi per 45 gruppi professionali. Per quanto riguarda il primo punto, veniva scelto un campione di medici che avevano avuto esperienza di trattamento con almeno quattro schizofrenici, quattro depressi e quattro nevrotici, il cui tasso di successo con i propri pazienti schizofrenici veniva calcolato dividendo il numero di pazienti migliorati alla dimissione per il numero dei trattati. I medici venivano poi elencati in ordine di grado crescente. I sette con il più alto tasso di miglioramento, dal 68% al 100%, definiti A e i sette con tassi da 0% a 34%, gruppo B, andavano a costituire l'ulteriore campione. Per quanto riguarda i registri, oltre a dati storici e clinici, erano disponibili quelli di tre sezioni:

  1. Formulazione diagnostica personale: diagnosi e problemi di personalità. Dichiarazione dello scopo nel trattamento e piano per realizzarlo;
  2.  Terapia e progresso nell'adattamento personale: veniva scritto al tempo della dimissione dove si diceva per cosa era finalizzato il trattamento, come il trattamento era attuato e quanto il paziente progrediva;
  3. Carta del comportamento, dove gli infermieri giornalmente registravano osservazioni sul paziente, con note descrittive del comportamento.

Il giudizio sullo stato del paziente alla dimissione veniva espresso sia dal medico che lo curava sia dallo psichiatra anziano che dal primario. Altri quattro criteri indipendenti dal giudizio dei medici si basavano su tipi di eventi:

  1. La disposizione del paziente alla dimissione - se dimesso nella comunità o in altro ospedale;
  2. Incrementata partecipazione nella relazione sociale con altri pazienti;
  3. Partecipazione crescente ai programmi di attività clinica;
  4. Cambiamenti nella Carta del comportamento.

Escludendo la capacità terapeutica generale più alta degli A e la possibilità che loro avessero i pazienti più facili per spiegare la differenza nel trattamento degli schizofrenici, indagarono la possibilità di differenze distinguibili nell'approccio o modalità del medico di partecipare alla terapia. Dai dati dei registri hanno controllato: a) il tipo di miglioramento; b) il tipo di relazione che il paziente instaura con il medico; c) il tipo di prospettiva diagnostica; d) il tipo di scopi strategici selezionati dai medici come focus primario della terapia; e) il tipo di modello tattico utilizzato nel contatto col paziente.

Esaminando le categorie di approccio terapeutico, trovarono che A e B differivano in molti aspetti, quattro dei quali erano significativamente correlati al miglioramento:

  1. Gli A risultarono più abili nell'ottenere la fiducia dei loro pazienti;
  2. Gli A tendevano a comprendere il significato e la motivazione personale del comportamento del paziente. I B tendevano a formulare comprensione in termini biografici-narrativi;
  3. Gli A erano orientati allo sviluppo del paziente, a una migliore comprensione delle sue capacità e potenzialità per una risoluzione costruttiva del conflitto, i B erano orientati in senso psicopatologico;
  4. Gli A erano attivamente coinvolti, introducevano limiti realistici, manifestavano il loro disappunto apertamente. I B adottavano modelli di cura passivi, interpretativi e/o istruttivi o pratici.

Questo studio venne validato con un altro campione trovando ancora differenze nello stile e nei risultati. Per scoprire di più su queste differenze gli autori provarono vari mezzi indipendenti per caratterizzare i medici e vedere se e quali elementi della loro personalità fossero correlati con i tassi di miglioramento. Il test Svib si dimostrò il mezzo più adeguato. Utilizzando i punteggi a questo test di 26 medici trovarono che gli A e i B si distinguevano in modo statisticamente significativo in quattro professioni: avvocato, commercialista (+ A; -B); tipografo, insegnante di scienze matematiche e fisiche (-A; + B). Da questi dati fu costruito uno strumento - una scala a cinque punti - che potesse predire quali medici, il cui successo non era ancora conosciuto, avrebbero avuto alti tassi di miglioramento e quali no. Vennero fatte predizioni su un campione di 46 medici dei quali erano disponibili i punteggi allo Svib. Confrontate con il tasso di miglioramento le predizioni si rivelarono corrette all'80% per A e al 67% per B. Il risultato sosteneva l'ipotesi che le determinanti cruciali dell'interazione di successo stavano nel medico e che erano valide le differenze osservate nel campione iniziale. Il raggruppamento A di modelli di interesse, presumibilmente, indica qualità nella personalità dei medici che hanno probabilità di evocare risposte cliniche favorevali nei pazienti schizofrenici. Gli autori cercarono di caratterizzare meglio queste qualità esaminando le risposte a ognuna delle 400 voci dello Svib dei medici del campione iniziale. Identificarono 23 voci che differenziavano i due gruppi a un livello significativo. Idearono un altro dispositivo con il quale testarono un altro campione. L'accuratezza di previsione si dimostrò ancora più alta. Lo studio venne validato in un'altra clinica per valutare la generalizzabilità dei risultati. Le conclusioni furono che: gli A sono solutori di problemi, non sono coercitivi e sono così più accettati dai pazienti schizofrenici che tollerano male l'autorità imposta dall'esterno. I B tendono a vedere le cose in bianco e nero, in termini di giusto o sbagliato, vedono i pazienti come persone caparbie e bisognose di correzione: questo li aliena. Gli A sono attenti alle esperienze interne, i B pongono l'enfasi sui sistemi di valore orientati verso il conformismo e la deferenza, rigidità, meccanicità, precisione piuttosto che sulla guida per lo sviluppo dell'autostima. Gli A tendono ad aspettare e rispettare la spontaneità e perciò tendono a evocare partecipazione sociale.

In seguito la Scala A-B a 23 voci venne usata da moltissimi ricercatori e alcuni di essi trovarono anche che gli A lavoravano meglio con pazienti schizofrenici e i B con nevrotici e svilupparono l'ipotesi dell'interazione paziente-terapeuta, che trovava sostegno nei risultati di uno studio sulla variabile A-B nei pazienti. Le persone di tipo A e B sarebbero allora sensibili in modo diverso al comportamento di evitamento (schizoide) e al comportamento "rivolto contro se stessi" (nevrotico) di molte persone. È l'interazione delle caratteristiche del terapeuta e del paziente e non la persona del terapeuta da solo, a determinare il modo del comportamento terapeutico. Negli anni sessanta vennero fatti altri studi sperimentali sullo stile percettivo e cognitivo. Carson et altri trovarono i B estremamente campo indipendenti e caratterizzati da funzionamento attivo, analitico specifico, cognitivo critico, in contrasto con un funzionamento passivo, globale diffuso non critico dei campo dipendenti. Silverman sviluppò una descrizione A-B in seguito a ricerche sulla deprivazione sensoriale e in base a informazioni sull'individuo campo indipendente: gli A e B percepiscono vari aspetti del loro mondo fisico e sociale diversamente, essi anche percepiscono i loro pazienti diversamente. A risponde a più attributi di stimolo del campo percettivo, includendo segnali di comportamento sociale incidentali, agli effetti di stimolazioni apparentemente irrilevanti e a cambiamenti nell'organizzazione del campo percettivo. È più capace di allentare il suo orientamento alla realtà e rispondere a presentimenti e intuizioni e in tal modo accetta l'autenticità della realtà percepita dallo schizofrenico, la sua diffusione di significato, le sue esperienze di depersonalizzazione e terrore. Le sue risposte percettive sono più simili a quelle dei pazienti schizofrenici. Ci sarebbero allora delle similarità tra terapeuti di tipo A e pazienti schizofrenici: a) sensibilità a stimoli sensoriali di bassa intensità; b) attenzione aumentata per stimoli irrilevanti; c) prontezza a percepire relazioni uniche tra varie immagini, idee e percetti; d) risposte percettive meno frequentemente articolate. Silverman aggiunge che il modello assomiglia a quello di persone altamente sensibili (artisti, scrittori) nelle loro prime fasi dell'attività creativa, meno minacciose per loro, e che entrambe le forze costruttive e distruttive dovrebbero essere riconosciute come operanti nel comportamento del paziente schizofrenico. Il riconoscimento di Silverman delle basi di comunicazione tra A e paziente schizofrenico suggerisce l'importanza del comportamento verbale e non verbale del terapeuta, particolarmente la comunicazione di percezioni condivise, cruciali per l'efficacia terapeutica.

Le ricerche sulla variabile A-B sono proseguite per oltre trent'anni. Risultati contrastanti hanno dato la spinta per cercare di elaborare meglio gli strumenti, superare errori metodologici e di calcolo statistico. Nel 1975 erano già stati pubblicati più di cento articoli ed erano disponibili diciotto versioni diverse della Scala A-B. Le più usate erano quelle a 23 voci e una a 80 voci di Campbell. Stephens e altri ne costruirono una nuova migliorata partendo dai dati originali di Whitehorn e Betz. Questi autori hanno cercato di eliminare i difetti presenti nelle varie scale, difetti che dipendevano dalla procedura originale di selezione delle voci che contrapponeva gruppi eterogenei rispetto al sesso. Era stato assunto tacitamente che tutte le voci derivate dallo Svib fossero ugualmente valide per entrambi i sessi. Questo si dimostrava falso: 12 voci delle 23 correlavano negativamente con le percentuali di miglioramento delle 11 donne psichiatri. La partecipazione di donne alla procedura di selezione delle voci poteva servire solo a confondere correlazioni riferite prevalentemente agli uomini che costituivano almeno lí85% dei soggetti.

Originariamente la dimensione A-B era considerata dicotomica piuttosto che un continuum e quindi la selezione delle voci è in misura larga una funzione del punto arbitrario al quale il continuum era dicotomizzato.

Terapeuti con percentuali di miglioramento intermedia erano stati esclusi nel determinare, quali voci dello Svib differenziavano terapeuti con e senza successo. La procedura di assegnazione dei punteggi fatta prima dell'era del computer era semplificata. Nell'arco di tempo dal 1944 al 1961 i tassi di miglioramento dei pazienti e le preferenze di risposte alle voci erano diversi (inizio anche della farmacoterapia). Le due scale più usate non correlavano bene tra di loro. Gli autori hanno costruito una nuova scala ovviando a tutti gli inconvenienti. Sono state effettuate analisi fattoriali con le due scale A-B più usate e con la nuova scala ottimale per comprendere meglio quali aspetti personali le scale A-B misuravano realmente, cioè da quali fattori, rispetto agli interessi del terapeuta, è composta la dimensione A-B. Sono stati trovati cinque fattori quattro dei quali significativi:

  1. verbale-concettuale versus manuale-pratico, che rappresenta il contrasto tra l'affinità negli interessi degli A con avvocati, pubblicitari ecc. e l'affinità negli interessi di B con agricoltori, insegnanti d'arte industriale, falegnami. Questo si manifesta nell'analisi fattoriale di tutte e tre le scale A-B ed è quello più concordante con le formulazioni di Whitehorn e Betz su ciò che sottende la dimensione A-B;
  2. scienziati versus venditori;
  3. interessi sociali e professioni di aiuto caratterizzante per gli A;
  4. artistico versus orientato verso attività, affari, commercio. Il polo artistico caratterizza gli A.

I risultati riflettono il fatto che i terapeuti efficaci possiedono più di un attributo associato con il loro successo e che questi attributi sembrano parzialmente riflettersi nei loro interessi vocazionali. Non sappiamo se questa nuova scala sia stata o meno applicata.

Nel 1977 la situazione sembrava deludente con ricerche sempre più rigorose che non davano sostegno all'ipotesi dell'interazione. Uno studio del 1978 concludeva che la dimensione A-B non dava un contributo significativo al trattamento efficace di schizofrenici però gli autori riconoscevano che c'erano altri fattori sconosciuti emersi dal loro studio che potevano incidere sul risultato e che potevano essere ricercati in elementi della personalità del terapeuta, come forza dell'Io, abilità di trattare con lo stress, di fronteggiare l'aggressività, risorse intellettuali, conoscenze, abilità terapeutiche e intellettuali, sofisticazione rispetto ai trattamenti specifici disponibili. Queste qualità si manifesterebbero in modi indiretti come ispirare fiducia e ottenere la collaborazione del paziente. Gli autori trovarono che questi fattori non sembravano rilevanti nella psicoterapia da sola diversamente che in trattamenti combinati psicoterapia più farmaci o in trattamenti con farmaci da soli. La loro conclusione è che le qualità dei terapeuti possono produrre risultato solo quando le particolari tecniche usate sono potenti ed efficaci in primo luogo.

La pregnanza di scoperte come quelle messe in evidenza da Silverman viene riducendosi sempre di più all'interno di un movimento che inizia a porre l'enfasi sulle tecniche e gli strumenti utilizzati dai terapeuti piuttosto che sull'approfondimento dello strumento terapeuta. Dallo sguardo alla letteratura emerge sempre di più questo aspetto insieme all'attenzione dei ricercatori verso la molteplicità di variabili da tenere in considerazione per spiegare i risultati della terapia. Se consideriamo la situazione attuale di ricerca sulle psicoterapie questo dato che è emerso trova conferma. Gli studi sui risultati hanno frequentemente riportato l'uguale efficacia delle diverse forme di psicoterapia che usano tecniche e procedimenti specifici. Il problema che si pone è che se tutte funzionano l'efficacia può essere attribuibile a elementi comuni non specifici condivisi da tutti i trattamenti:

La sfida della ricerca è di identificare questi elementi comuni e di utilizzarli più intenzionalmente per potenziare ulteriormente l'efficacia della psicoterapia. Queste componenti non specifiche non sarebbero artefatti da svalutare ma elementi attivi che devono essere compresi (Parloff, 1988).

Frank ha elaborato l'ipotesi della non specificità partendo dalla propria osservazione che i fattori non specifici da lui identificati sono efficaci in modo specifico per la terapia di una sindrome spesso condivisa dai pazienti che chiedono aiuto, la demoralizzazione. Frank sostiene che sentimenti di disperazione, scoraggiamento, autodenigrazione, indegnità, alienazione, possono essere presenti nella maggior parte dei pazienti qualunque sia il loro specifico disturbo o la ragione per cui chiedono il trattamento. Egli ha individuato quattro elementi fondamentali condivisi da tutte le psicoterapie:

  1. Speciale tipo di rapporto offerto dai terapeuti: l'interesse per il paziente incoraggia una relazione emotiva di fiducia e comunicazione;
  2. L'ambiente della terapia è molto particolare;
  3. Il terapeuta fornisce uno schema concettuale.
  4. La terapia fornisce la prescrizione di un insieme di procedure basate sullo schema concettuale. Le tecniche possono fornire una ulteriore prova della cultura e competenza del terapeuta.

Frank afferma che tutte le psicoterapie producono nel paziente esperienze simili quali un grado di stimolazione emotiva, accresciuta consapevolezza di opzioni a lui disponibili e stimolazione di speranza di miglioramento. Il termine non specifico oscura la formulazione in positivo del concetto riguardo agli ingredienti attivi in tutte le psicoterapie. L'ipotesi completa implica almeno due fasi della psicoterapia e suggerisce che nella fase iniziale è di cruciale importanza coltivare nel paziente la speranza e le aspettative di ricevere aiuto. Inizialmente le tecniche specifiche sono meno importanti degli aspetti non tecnici della terapia come la natura e qualità del rapporto offerto, le caratteristiche del terapeuta, il contesto in cui si fornisce il trattamento e la dimostrazione delle capacità del terapeuta. I pazienti vogliono essere rassicurati che il terapeuta è esperto ma essi desiderano anche essere rassicurati sul fatto che il terapeuta sia una persona con cui rapportarsi con un certo grado di agio e intimità. Dopo la fase iniziale Frank riconosce che le strategie e gli scopi perseguiti in tutte le forme di psicoterapia sono meno dipendenti della suggestione: a) strategie per favorire l'esame di realtà; b) opportunità di apprendimento cognitivo ed esperienziale; c) sviluppo dell'autostima (v. Parloff, 1988).

Le ricerche degli ultimi anni si sono indirizzate a mettere a punto studi orientati a dimostrare che la tecnica è l'elemento primario della terapia. Aumenta sempre di più la complessità delle variabili in gioco e sta sempre più emergendo che la figura del terapeuta non è così importante per predire l'outcome, tutt'al più le sue qualità possono permettere l'instaurarsi dell'alleanza terapeutica che invece è riconosciuta rilevante per il risultato, ma l'alleanza terapeutica insieme alla tecnica adeguatamente utilizzata, cioè aumentando il grado della sua purezza, permette i migliori risultati.

In uno studio recente comparativo tra due tipi di psicoterapia, l'una cognitivo-comportamentale e l'altra orientata verso la relazione con concetti interpersonali e centrati sul cliente, Shapiro e altri (1987) hanno applicato un disegno di ricerca che doveva tenere costanti oltre alle variabili del paziente anche quelle del terapeuta. Il campione di 40 pazienti, lavoratori professionisti e dirigenti con depressione o ansia, è stato selezionato per formare un gruppo omogeneo rispetto a caratteristiche demografiche, socio-economiche e psicopatologiche. Per tenere sotto controllo anche l'influenza che possono avere le variabili inerenti ai quattro terapeuti sul risultato della terapia, ogni paziente riceveva entrambi i trattamenti in successione dallo stesso terapeuta, la metà dei pazienti prima col trattamento A e poi col trattamento B, l'altra metà con la sequenza opposta. In questo disegno incrociato veniva tenuta in considerazione l'argomentazione di Luborsky (1984) secondo la quale la purezza delle modalità tecniche è un elemento essenziale delle terapie eclettiche, cioè che un tipo di trattamento dovrebbe essere completato prima che segua un altro piuttosto che lasciare rispondere il terapeuta alle espressioni dei bisogni del paziente di giorno in giorno. Il risultato di questo studio è stato che un tipo di psicoterapia si mostrava leggermente, ma in modo costante per varie misure dell'outcome, superiore all'altro nella sua efficacia, suggerendo che disegni sperimentali appropriati potrebbero contribuire a dimostrare che le diverse psicoterapie non sono equivalenti. Una analisi separata dell'efficacia dei trattamenti, singolarmente per ciascuno dei quattro terapeuti, pubblicata nel 1989, ridimensionava però il risultato riferito prima. Questa analisi mostrava che la superiorità di una delle due psicoterapie era attribuibile principalmente all'efficacia differenziale di uno solo dei quattro terapeuti. Questo terapeuta non era più efficace degli altri in generale, perché la sua efficacia maggiore in un trattamento era controbilanciata da una minore efficacia nell'altro. Questa scoperta di efficacia differenziale dei trattamenti verificatasi solo per un terapeuta ma non o solo minimamente per gli altri sottolinea l'importanza di differenze individuali nell'efficacia terapeutica, perfino con trattamenti con esito positivo basati su manuali, come quelli applicati in questo studio.

Il fallimento nel trovare differenze generali nell'efficacia dei terapeuti attraverso i trattamenti suggerisce che oltre alla competenza clinica generale le caratteristiche individuali del terapeuta potrebbero avere impatti diversi a seconda di quale approccio teorico viene impiegato. Perciò gli autori riconoscono, dopo questa analisi separata, di non essere riusciti a controllare la variabile terapeuta nel loro disegno sperimentale, e concludono che anzi l'effetto del terapeuta dovrebbe di nuovo essere studiato sistematicamente.

Si ripropone quindi, alla fine di un lungo percorso scientifico, la rilevanza di quell'elemento "soggettivo" che la tecnica non è stata in grado di esorcizzare.


Riassunto. La ricerca, che è parte di un progetto del Centro studi per la salute mentale della regione "Friuli-Venezia Giulia", mira ad una analisi della operatività e degli stili professionali, intesi come modalità di scelta degli interventi e di interazione col paziente, per comprendere fino a che punto questi dipendano dal modello strutturale-organizzativo, dai percorsi formativi, dai modelli teorici, e dalle caratteristiche personali dell'operatore. Il fattore "personalità terapeutica" è uno degli elementi presi in esame. Le indagini scientifiche finora condotte sono concentrate sull'operatività psicoterapeutica, mentre la ricerca sistematica sul trattamento in senso lato e sulle figure paraprofessionali e non professionali sono allo stato attuale scarse e lacunose. Tra le molteplici linee di ricerca, quella che ha fornito i maggiori contributi è stata l'area della psicoterapia della schizofrenia. Vengono indicati i principali contributi, da quelli di Whitehorn & Betz del 1950, alla ricerca di Shapiro et. al. del 1987. È suggerita l'ipotesi che l'efficacia di una determinata terapia possa dipendere in larga misura dai terapeuti che la effettuano.

Summary. This paper is part of a research project on professional styles, under way at the Center for mental health studies of "Friuli-Venezia-Giulia" italian region. The professional styles, understood as patterns of interventions choice and interaction with the patient, are analyzed to understand how much they depend on structural-organizational model, training curricula, theoretical models, and therapist's personal characterstics. The "therapeutic personality" factor is one of the elements under investigation. The studies conducted so far have investigated the operational level of psychotherapy, while systematic research on treatment in generaI and on paraprofessionals and nonprofessional are scarce and incomplete. Among the many areas of investigation, psychoterapy of schizophrenia is the one that has been the most productive. The major contributions are reviewed, from Whitehorn & Betz (1950) to Sbapiro et al. (1987). It is suggested the hypothesis that the efficacy of a given therapey may depend largely on the therapists who implement the treatment.


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