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Psicoterapia e Scienze Umane, 2000, XXXIV, 2: 25-42

UNA VALUTAZIONE CRITICA DELLE ATTUALI CONCETTUALIZZIONI SU TRANSFERT E CONTROTRANSFERT

Morris N. Eagle
Derner Institute, Adelphi University, Garden City, N.Y. 11530, USA

(Articolo comparso, col titolo "A critical evaluation of current concepts of transference and countertransference", sulla rivista Psychoanalytic Psychology, 2000, 17, 1: 24-37. Ringraziamo l'autore e l'editore per il permesso di pubblicazione. Traduzione di Fabiano Bassi)


Nonostante le differenze presenti nelle diverse teorie, l'attenzione sistematica per il transfert e il controtransfert e la convinzione della loro centralità continuano a essere identificate come due componenti essenziali che costituiscono il terreno comune su cui sviluppare la tecnica analitica contemporanea, la prima sottolineata ad esempio da Wallerstein (1990) e la seconda da Gabbard (1995), il quale individua questo terreno comune nel "concetto che il controtransfert dell'analista può essere considerato la sorgente fondamentale di informazioni sul paziente" (p. 475; ma vedi anche Abend, 1989). A fianco di questa rinnovata sottolineatura dell'importanza del transfert e del controtransfert si trovano una serie di ridefinizioni e di riconcettualizzazioni di questi due termini. Entrambi i concetti tendono oggi a essere definiti con una modalità totalizzante anziché nel senso più ristretto in cui li intendeva la teoria classica. In breve, e più specificamente, sotto l'influsso degli scritti di Gill (1982), il significato predominante del concetto di transfert cambiato e ora non definisce più le proiezioni e le distorsioni del paziente su un analista visto come uno schermo bianco, ma coincide piuttosto con l'idea che le reazioni transferali del paziente costituiscano delle inferenze plausibili basate su qualche indizio disseminato invariabilmente e necessariamente dall'analista. Si noti che questo cambiamento di definizione fa seguito all'affermazione più sostanziale secondo cui nessun analista, e se per questo nessuna persona, può realmente funzionare come uno schermo bianco. In qualunque possibile interazione umana, tutti i partecipanti disseminano di continuo indizi ai quali ciascuno degli altri reagisce. Partendo da questo punto di vista, l'interazione transfert-controtransfert diventa essenzialmente equivalente all'interazione paziente-terapeuta. 

Nel controtransfert, dunque, non si vede più "un ostacolo all'analisi", ma "uno strumento indispensabile" (Gill, 1994, p. 102) e "una sorgente fondamentale di informazioni sul paziente" (Gabbard, 1995, p. 475). Se questa riconcettualizzazione del controtransfert fosse soltanto una questione di ridefinizione semantica di un termine, l'intera operazione sarebbe di interesse piuttosto limitato. Ma come nel caso del transfert, anche questa ridefinizione del controtransfert fa seguito all'affermazione più sostanziale dell'impossibilità per l'analista di funzionare come uno schermo bianco. Se il nuovo significato attribuito al transfert coincide col riconoscimento del fatto che l'analista non può evitare di disseminare l'ambiente di indizi, allora il nuovo significato attribuito al controtransfert può essere visto come un riconoscimento del fatto che l'analista non può fare a meno di reagire al paziente seguendo una modalità personale. In nessuno dei casi, dunque, l'analista può realmente funzionare come uno schermo bianco, a prescindere dal fatto che un tale modo di funzionare sia utile e desiderabile oppure no.

Tutte queste considerazioni suonano molto familiari e non necessitano di ulteriore elaborazione. Ci che invece desidero mettere al centro della mia attenzione, come anche il titolo di questo articolo indica, un tentativo di valutazione critica di questo nuovo modo di considerare il transfert e il controtransfert, e soprattutto quest'ultimo. Per spazzare via ogni equivoco, voglio cominciare dall'affermazione che sono completamente d'accordo con tutte le critiche al modello dello schermo bianco e sono solidale con gli autori che le hanno avanzate. Tuttavia, come avviene quasi sempre ogni qual volta si assiste a un'oscillazione del pendolo della teoria, vi sono alcuni rischi e alcuni possibili abusi associati a queste nuove concezioni del transfert e del controtransfert che discendono dal rifiuto del modello dello schermo bianco. Racker (1968), i cui scritti hanno esercitato un'influenza molto importante sulle nostri concezioni attuali del transfert e del controtransfert, ha affermato con grande sicurezza che 

"se l'analista ben identificato col suo paziente e ha un grado di rimozione minore di quello del paziente, allora i pensieri e i sentimenti che emergeranno in lui saranno esattamente quelli che emergono nel paziente, e ciò il rimosso e l'inconscio." (p. 17)

Chiamiamo questa versione della definizione del controtransfert la versione "forte". In un altro passaggio, che possiamo considerare esemplificativo di una versione più debole di questo stesso assunto, Racker (1968) ha scritto, in modo senz'altro meno assoluto e incondizionato, che il controtransfert " è, in larga misura, una risposta emozionale al transfert, e come tale può indicare all'analista ci che sta avvenendo nel paziente in rapporto all'analista" (p. 18, il corsivo mio) [Nota: Entro nel merito della posizione di Racker perché per quanto i suoi articoli sul controtransfert siano stati scritti ormai parecchio tempo fa, i suoi punti di vista hanno influenzato in modo davvero potente le concezioni attuali sul controtransfert e, come vedremo, sono rappresentativi di queste attuali concezioni.]

Un certo numero di autori hanno già cercato di metterci in guardia rispetto ai rischi presenti in quella che ho descritto come la versione "forte" dell'impiego del controtransfert. Nel suo libro del 1994, Gill ha scritto quanto segue a proposito di questa nuova concezione del controtransfert:

"Un grosso pericolo, naturalmente, che l'analista, considerando i propri sentimenti come qualcosa che, necessariamente, gli stato "messo dentro" dal paziente, possa mancare di riconoscere il contributo offerto dalla sua stessa personalità. Questo punto di vista, di fatto, non che una variante della concezione del ruolo dell'analista in quanto schermo bianco." (p. 102)

Altri autori hanno sottolineato pericoli simili a questo. Per esempio, sin da subito la Klein si preoccupò della possibilità che la concezione del controtransfert proposta dalla Heimann (1950) "potesse concedere all'analista il permesso di accusare il paziente delle sue stesse difficoltà controtransferali" (Gabbard, 1995, p. 476). E la Spillius (1992) ha sollevato il dubbio che l'analista possa confondere i propri sentimenti con quelli del paziente, sottolineando quindi la necessità che l'analista resti sempre consapevole di questa possibilità. L'ammonimento della Spillius riecheggia l'allarme simile suonato da Sandler (1987, 1993) a proposito del rischio che si finisca per assumere una corrispondenza uno a uno tra gli stati mentali dell'analista e quelli del paziente. Come esempio finale di questi avvertimenti contro le possibilità di abuso alle quali le concezioni attuali del controtransfert possono essere soggette, ricordo McLaughlin (citato in Gabbard, 1995) e la sua osservazione che nel concetto di identificazione proiettiva "l'analista viene visto come virtualmente vuoto e funziona semplicemente come un ricettacolo o un contenitore di ci che il paziente gli sta proiettando contro"(Gabbard, 1995, p. 479).

È mia impressione che nonostante la segnalazione di tutti questi ammonimenti contro il pericolo che l'analista possa confondere i propri sentimenti con quelli del paziente, la concezione contemporanea del controtransfert e la letteratura su di esso abbiano pesantemente puntato l'accento sull'assunto secondo cui le reazioni controtransferali possono essere intese come qualcosa di quasi infallibilmente rivelatorio dei contenuti mentali del paziente e come qualcosa che quasi sempre guida verso di essi. Per esempio, Levine (1997) ha scritto quanto segue: 

"Spero di dimostrare che c'è un valore pragmatico nel dare per inteso che anche quei pensieri e quelle esperienze emozionali che sbocciano chiaramente nell'analista a partire dalla sua vita personale e che sembrano avere ben poco a che fare con lo specifico paziente con cui egli si sta confrontando (per esempio, quando gli avvenimenti della vita personale dell'analista intrudono nella seduta in modo tale da usurpare o addirittura da travolgere le sue capacità di analizzare bene il paziente), si può presumere che abbiano almeno una componente collegata al paziente che contribuisce a far sì che tali avvenimenti si verifichino proprio con quel dato aspetto, in quella data seduta e in quel modo particolare." (p. 48)

Il punto principale della mia tesi è che, in modo piuttosto ironico, nella loro reazione contro il modello dello schermo bianco della situazione analitica e presumibilmente nella loro concettualizzazione della relazione terapeutica come un processo interattivo bipersonale, molti teorici psicoanalitici contemporanei, proprio come temeva Gill (1994), hanno finito essenzialmente per produrre una versione nuova e più sottile dell'analista come schermo bianco e una versione nuova di una psicologia unipersonale, con l'analista, anziché il paziente, che adesso viene visto come l'oggetto principale di attenzione. 

Se si segue la versione forte di Racker (1968), l'assunto sembra essere che tutto ciò che un analista (o per lo meno un analista ben analizzato) deve fare per conoscere i contenuti mentali inconsci del suo paziente identificarsi col paziente e, attraverso l'uso di un'attenzione liberamente fluttuante, permettere ai propri pensieri e sentimenti di emergere alla coscienza. Questi pensieri e sentimenti emergenti nell'analista saranno allora esattamente i pensieri e i sentimenti inconsci del paziente. Questo modello suggerisce un punto di vista in cui la mente dell'analista diventa un nuovo tipo di schermo bianco o di tabula rasa, che verrà riempita o popolata dai contenuti mentali del paziente. Cioè a dire, affinché i pensieri e i sentimenti dell'analista siano esattamente simili all'inconscio del paziente, l'analista non deve apportare nessun contributo ai pensieri e ai sentimenti che entrano nella sua coscienza. Se non uno schermo bianco, l'analista dunque quanto meno uno specchio che riflette i pensieri e i sentimenti del paziente. Inoltre, come tutti gli specchi buoni (cioè onesti), l'analista non porta su di sé nessuna immagine precedente. 

Badate che non sto affatto criticando la versione più debole secondo cui le associazioni, i pensieri e i sentimenti di un terapeuta (compresi quelli più sfuggenti), possano, in determinate circostanze, fornire importanti indizi a proposito di ciò che sta avvenendo nel paziente, o, il che è ancor più preciso, a proposito di ci che sta avvenendo nell'interazione tra paziente e terapeuta. Sto criticando invece la versione implicita più forte e spesso acritica secondo cui le associazioni, i pensieri e i sentimenti dell'analista rivelerebbero necessariamente i contenuti mentali inconsci del paziente. Quest'ultima posizione viene spesso incoraggiata dai ripetuti esempi che compaiono in letteratura e che puntano soltanto sulle situazioni in cui i pensieri e i sentimenti del terapeuta si sono poi rivelati essere collegati molto da vicino con i contenuti mentali inconsci del paziente. Compaiono invece pochissimi esempi, per non dire nessuno, di situazioni in cui le reazioni del terapeuta non funzionano come un indicatore particolarmente accurato dei contenuti inconsci del paziente, cioè di quelle reazioni del terapeuta che, con una modalità più simile a quanto affermato dalla concezione classica del controtransfert, costituiscono un ostacolo alla comprensione di ci che sta avvenendo nel paziente. Come ha segnalato Blum (1986), sebbene "le reazioni viscerali dell'analista siano spesso utili ai fini della comprensione del campo transfert-controtransfert (...), queste stesse reazioni possono anche essere un'espressione del controtransfert" (p. 313). (In questo caso, Blum utilizza il concetto di controtransfert nel senso classico, cioè per indicare un ostacolo posto contro la comprensione e contro il lavoro analitico). 

La prevalenza delle indicazioni, in letteratura, della versione più forte e incondizionata del controtransfert tende a caldeggiarne un'accettazione poco ponderata, in particolare tra coloro che muovono i primi passi nella pratica terapeutica. Al contempo, essa tende a scoraggiare la differenziazione critica tra le circostanze in cui le reazioni del terapeuta costituiscono, con tutta verosimiglianza, un indicatore affidabile di ciò che sta avvenendo nel paziente, e le circostanze in cui esse si rivelano invece del tutto inaffidabili in tal senso. 

Ho preso parte, di recente, a una conferenza in cui due analiste donne hanno presentato due diverse vignette cliniche che descrivevano situazioni di transfert erotico intenso da parte di due pazienti maschi. In entrambi i casi, i pazienti avevano dato per scontato che questi sentimenti fossero contraccambiati dalle loro analiste. E pure in entrambi i casi, le analista riferivano di aver avuto la sensazione di essere soverchiate e invase e di avere registrato momenti di odio intenso verso il loro paziente. Nel dibattito seguito alla presentazione di questi casi, i correlatori hanno semplicemente dato per assodato che il controtransfert delle due analiste, caratterizzato dalla sensazione di essere soverchiate e invase e da momenti di odio, fosse un riflesso del sadismo inconscio del paziente. (Tra le altre cose, entrambe le autrici si sono mostrate in disaccordo con le tesi sostenute dai correlatori). Questo mi sembra un esempio paradigmatico di quella che ha tutta l'aria di essere una modalità molto diffusa di stile di ragionamento clinico. 

Anche quando i pensieri e i sentimenti del terapeuta servono realmente per rivelare qualcosa di ci che sta avvenendo nel paziente e nell'interazione paziente-terapeuta, essi non si limitano per a svolgere questa funzione attraverso una semplice attività di rispecchiamento. Per illustrare questo punto, permettetemi di descrivere un piccolo esperimento informale. Ho concentrato la mia attenzione in modo particolare, in questi ultimi mesi, su un mio paziente. Ho scritto su un blocco per appunti qualche parola su ciascuno dei temi principali che il paziente mi portava, ho messo tra parentesi i temi principali di ciascuno dei miei interventi e ho messo tra virgolette i temi principali di ciascuno dei pensieri e dei sentimenti passeggeri che mi venivano in mente ma che non erano ancora diventati veri e propri interventi apertamente espressi. In una delle ultime sedute, il mio paziente mi riferisce pieno di entusiasmo che lui e la sua fidanzata hanno finalmente fissato una data per il loro matrimonio. 

Il pensiero-sentimento passeggero che subito mi passa per la mente "gelosia". In ragione di alcuni avvenimenti particolari della mia vita personale, ho provato una fugace sensazione di invidia in reazione all'entusiasmo del mio paziente. Pochi minuti più tardi, il mio paziente sottolinea: "Sa, devo dirLe che mentre venivo qui stamattina ho avuto il pensiero che Lei potesse essere un po' geloso perché io mi sposo". Naturalmente, sono rimasto molto colpito per la perfetta congruenza tra il suo commento e il mio primo pensiero passeggero: la congruenza era tale che il paziente aveva persino usato la stessa parola, gelosia. Tuttavia, il paziente ha poi proseguito a elaborare oltre il suo pensiero, spiegandomi che voleva dire che io avrei potuto essere geloso perché non sarei più stato in grado di controllarlo, dal momento che da lì in avanti egli avrebbe dovuto rendere conto della sua vita anche alla moglie. E dunque, pur se la parola gelosia era presente sia nei miei pensieri passeggeri che nel commento del paziente e pur se restava vero che entrambi ci stavamo muovendo nello stesso ambito emozionale, ciò che intendeva dire il paziente e ciò che intendevo dire io parlando di gelosia era in una certa misura differente e poteva essere collocato in contesti comunque diversi. Si può dire che quei due significati erano tra loro differenti nella stessa misura in cui erano tra loro simili. Le nostre reazioni erano state filtrate attraverso le nostre personali esperienze esistenziali. E, punto questo della massima importanza per il nostro ragionamento presente, se io avessi dato per scontato, per così dire, che la mia gelosia fosse stata identica alla sua, avrei finito per distorcere gravemente il significato che il paziente le stava attribuendo. 

La mia impressione che, in modo molto simile alla situazione che ho appena descritto, anche quando esiste un grado di congruenza tra le reazioni controtransferali del terapeuta e le reazioni transferali del paziente, molto più verosimile pensare che i due si stiano semplicemente muovendo in uno stesso ambito emozionale, piuttosto che pensare che tra loro vi sia una completa identità di pensieri e sentimenti. Ciò significa che parlare di pazienti che mettono pensieri e sentimenti dentro al loro terapeuta, o addirittura che li inducono, rischia con molta probabilità di essere un'affermazione fuorviante, dal momento che parlare in questi termini significa ignorare o banalizzare le reazioni e i contributi fortemente personalizzati che ciascuno dei due porta nella relazione.

Controtransfert ed empatia

Come già notava Levine (1997), in gran parte della letteratura contemporanea il controtransfert risulta indistinguibile dalla comune intuitività ed empatia, cioè da quelle aree esperienziali in cui i pensieri e i sentimenti passeggeri sperimentati da una certa persona le permettono spesso di registrare una data sensazione sulle esperienze e sul mondo interno di un'altra persona. Questa normale comprensione empatica ubiquitaria e caratterizza una vasta componente della comunicazione umana. Tuttavia, nella comune empatia, anche quando questa viene resa operativa in modo ottimale, una persona sperimenta qualcosa di simile a ci che l'altra persona sta sperimentando. Poiché l'identificazione è sempre parziale (dato che, in caso contrario, diventerebbe fusione, e non sarebbe più solo identificazione), e poiché portiamo sempre anche noi stessi all'interno di un'identificazione, la comprensione empatica di una persona sempre e soltanto parziale, include sempre e soltanto la prospettiva individuale di chi sta provando empatia e perciò sempre e soltanto un'approsimazione, sempre e soltanto qualcosa di simile e mai qualcosa di esattamente preciso, rispetto a ciò che l'altro sta sperimentando.

Identificazioni concordanti e complementari.

La complessità e la confusione connesse con l'idea che i pensieri e i sentimenti che un'altra persona in grado di sollecitare in noi possano servire come guida alla comprensione dei contenuti mentali inconsci di questa, sono ben illustrate dalla distinzione proposta da Racker (1968) tra identificazione concordante e identificazione complementare, una distinzione suffragata anche, più di recente, da Tansey e Burke (1989). Secondo Racker, nell'identificazione concordante l'analista si identifica con l'Io e con l'Es del paziente, mentre nell'identificazione complementare l'analista si identifica con gli oggetti interni del paziente. Se si lascia da parte l'uso teorico di termini quali Io, Es e oggetti interni, risulta chiaro dai suoi scritti che ci che Racker intende quando parla di identificazione concordante qualcosa di molto simile o addirittura di identico a quella che abitualmente indichiamo col termine di empatia, mentre il suo concetto di identificazione complementare fa riferimento a quelle risposte dell'analista in cui egli assume un ruolo che gli viene "assegnato" dal paziente. Uno degli esempi fornitici da Racker (1968) quello del paziente che "proietta il proprio padre introiettato" (p. 137) sull'analista e lo tratta come se l'analista fosse il padre. Secondo Racker (1968), può allora accadere che l'analista si identifichi con l'oggetto interno del paziente, cioè col padre introiettato, cominciando ad avere dei sentimenti (ad esempio, di rabbia o di risentimento) appropriati rispetto alla figura del padre introiettato. Se l'analista non consapevole di ciò che sta avvenendo, può allora succedere che egli si comporti come il padre introiettato e ripeta così un'esperienza "che ha contribuito a produrre la nevrosi del paziente" (p. 138).

È chiaro che Racker (1968) sta qui descrivendo un fenomeno che è stato individuato da altri autori attraverso tutta una serie di termini differenti. Sandler (1976) ha usato il termine di risonanza di ruolo [role responsiveness] per fare riferimento a un'interazione in cui l'analista si sente e risponde in un modo che reciproco (in una chiara equivalenza con la complementarietà di Racker) al ruolo del paziente. Strupp e Binder (1984) hanno descritto la risposta emozionale del terapeuta in termini di ciò che il paziente trascina il terapeuta a fare.

Ciascuno di questi autori ha usato un termine diverso per indicare un fenomeno in cui i sentimenti del terapeuta non rispecchiano i sentimenti e gli stati mentali del paziente (cioè, non sono concordanti con questi) ma viceversa sono reciproci o complementari rispetto ad essi. Dunque, se provo del risentimento in risposta agli attacchi e alla rabbia che tu stai rivolgendo verso di me, non sto empatizzando con la tua rabbia ma, al contrario, sto rispondendo in un modo che reciproco o complementare rispetto alla tua rabbia. Tuttavia, se sono consapevole di ci che mi sta succedendo, cioè a dire, se riesco a indagare la natura e la fonte del mio risentimento, la mia risposta potrà servire come un indizio per la comprensione di ci che sta succedendo a te, e precisamente, del fatto che tu sei arrabbiato e mi stai attaccando. In altre parole, il mio risentimento, o più correttamente, la mia indagine di esso, pur non costituendo di per sé una risposta empatica, può indirettamente servire allo scopo della comprensione empatica.

Non risulta dunque chiaro in quale modo l'esperienza di risentimento provata dall'analista in risposta alla rabbia e agli attacchi del paziente possa costituire un qualunque tipo di identificazione, vuoi concordante o complementare. Ci che sembra condurre Racker (1968) a intendere questa interazione come un'identificazione complementare il suo assunto teorico che nel tipo di interazione appena descritta, l'analista si identificherebbe "con gli oggetti interni del paziente, ad esempio col suo Super-io" (p. 134). Racker (1968) scrive anche: "Le identificazioni complementari sono prodotte dal fatto che il paziente tratta l'analista come un oggetto interno (proiettato), e di conseguenza l'analista si sente trattato come tale, cioè si identifica con questo oggetto" (p. 135). Dunque, nell'esempio soprariportato in cui l'analista risponde con risentimento alla rabbia e agli attacchi del paziente, Racker (1968) conclude che il paziente ha proiettato il suo oggetto interno (cioè il padre introiettato) sull'analista e che l'analista, provando risentimento verso il paziente e forse anche comportandosi con lui in modo risentito, si identificato con l'oggetto interno del paziente e ha così sperimentato un'identificazione complementare.

Ma c'è parecchia confusione in tutto questo. Lo stesso Racker (1968) ha notato che quando il paziente tratta l'analista come se fosse suo padre (col quale il paziente è, presumibilmente, molto arrabbiato), l'analista "si sentir trattato male, e reagirà interiormente (..) in conformità col trattamento che sta ricevendo" p. 137). Perché allora dobbiamo concludere che il risentimento dell'analista costituisca necessariamente un'identificazione con l'oggetto interno del paziente (il padre introiettato)? Anche nel caso in cui la rabbia e gli attacchi del paziente fossero il prodotto della sua percezione inconscia dell'analista come suo padre, l'esperienza di risentimento da parte dell'analista in risposta al cattivo trattamento riservatogli dal paziente non costituirebbe una base sufficiente su cui fondare la conclusione che avvenuta un'identificazione con la rappresentazione che il paziente ha del padre.

Le persone, ivi compresi gli analisti, tendono a provare risentimento quanto vengono trattate male. Come si notava, la consapevolezza e l'indagine attenta di questo risentimento ci può portare a riconoscere la rabbia e gli attacchi inconsci del paziente, il che, a sua volta, ci può portare alla comprensione empatica della natura e della ragione di questa rabbia e di questi attacchi del paziente. In altre parole, la consapevolezza del nostro risentimento può indirettamente portarci a un'identificazione concordante con la rabbia del paziente. Tuttavia, il fatto che la consapevolezza del proprio risentimento da parte dell'analista possa infine condurre a un aumento della comprensione empatica della rabbia del paziente non significa necessariamente che questo risentimento costituisca un'identificazione di qualsivoglia tipo col paziente. Generalmente parlando, i sentimenti di risentimento in risposta al fatto di essere attaccati costituiscono la normale reazione all'attacco piuttosto che non un'identificazione con l'oggetto interno dell'attaccante.

Come sia Racker (1968), che Strupp e Binder (1984), che Sandler (1987, 1993) hanno riconosciuto, la questione terapeutica in gioco qui che se l'analista si comporta realmente in un modo rabbioso e risentito, cioè a dire, se agisce veramente in conformità col modo in cui il paziente lo trascina ad agire, esiste allora il pericolo della ritraumatizzazione e della creazione di un circolo vizioso caratterizzato dalla ripetizione di quella stessa condizione che "ha contribuito a produrre la nevrosi del paziente" (Racker, 1968, p. 138). Tutti questi autori sono poi anche d'accordo nell'affermare che dopo essere divenuto consapevole dei suoi sentimenti di risentimento e di ci che può averli causati, l'analista interpreta anziché reagire. Come hanno notato sia Racker (1968) che Strupp e Binder (1984) ma anche altri autori, l'interpretazione, anziché la ripetizione, di ciò che sta accadendo, determina una condizione molto diversa dall'originaria condizione patogena e costituisce dunque un'esperienza emozionale correttiva (o, con le parole di Racker, una "rettifica" [1968, p. 138]) piuttosto che una ritraumatizzazione. L'interpretazione anziché la ripetizione, dunque, l'elemento critico che con la sua sola presenza rende questo discorso piuttosto indipendente da tutte le altre questioni sull'identificazione complementare.
Ho speso tutto questo tempo a ragionare sull'identificazione complementare non solo perché la discussione di questo concetto permette di sollevare una serie di importanti questioni sull'interazione paziente-terapeuta, ma anche perché esso sembra costituire un'altra espressione ancora della tendenza a concludere che praticamente tutte le reazioni emozionali dell'analista siano degli specchi in cui si riflette qualche aspetto del mondo interno del paziente.

Per riassumere ci di cui sono andato ragionando fino a qui, dir che credo che esistano soltanto le identificazioni concordanti. Quando queste non riescono a costituirsi, si registra allora una caduta della comprensione empatica e non lo sviluppo di una qualche diversa forma di identificazione, cioè di un'identificazione complementare. Quella che Racker (1968) ha descritto come identificazione complementare non affatto un'identificazione, ma una disgregazione dell'identificazione e della comprensione empatica. Come notavo più sopra, la consapevolezza e l'indagine attenta delle nostre reazioni di risentimento possono infine condurre all'identificazione con la rabbia del paziente e alla sua comprensione, ma la reazione di per se stessa, e questo mi sembra un punto molto importante, l'antitesi di un'identificazione.

Identificazione proiettiva

Alcuni dei punti che ho discusso sino a qui risultano piuttosto rilevanti rispetto al dibattito sul concetto, divenuto attualmente molto popolare, di identificazione proiettiva. Un'interpretazione di questo concetto un po' elusivo (v. Ogden, 1982; Tansey e Burke, 1989) quella secondo cui il paziente proietta un oggetto interno (ad esempio, un oggetto interno critico) sull'analista; il paziente esercita a quel punto una pressione interpersonale sull'analista affinché questo si senta critico e forse anche agisca criticamente, e a quel punto si conclude che l'analista ha introiettato l'oggetto interno critico del paziente e vi si identificato (identificazione introiettiva). [Nota: Viene descritta anche una quarta componente dell'identificazione proiettiva, la reinteriorizzazione. Essa non comunque rilevante ai fini della nostra discussione]. Questa descrizione dell'identificazione proiettiva è virtualmente identica al concetto di identificazione complementare di Racker (1968), e, di fatto, soggetta alla stessa critica che ho esposto più sopra: infatti, se attraverso la pressione interpersonale il paziente induce l'analista a sentirsi critico verso di lui e fin anche ad agire criticamente, questo non indica necessariamente che l'analista si sia identificato con l'oggetto interno del paziente. Non c'è nulla di misterioso, o nulla che richieda la creazione di un concetto speciale come l'identificazione proiettiva, nel fatto che una persona riesca a indurne un'altra a sentirsi critica od ostile tramite l'emissione di certi indizi, spesso anche molto sottili, di cui nessuna delle due parti può essere consapevole. Inoltre, questo fenomeno, così per come viene descritto, non indica necessariamente che il paziente stia proiettando qualcosa sull'analista, nonostante i sentimenti critici od ostili che potrebbero essere comunque proiettati sull'analista. Tuttavia, per poter arrivare alla conclusione che il paziente sta proiettando qualcosa sull'analista non è sufficiente segnalare semplicemente i sentimenti di ostilità dell'analista stesso. Questi possono benissimo verificarsi anche in assenza di qualsiasi proiezione. È necessario disporre di una buona quota di prove cliniche per poter inferire che in quel caso ha avuto luogo una proiezione. 

Il concetto di pressione interpersonale a sua volta in certa misura ambiguo dal momento che può stare a indicare sia 

  1. a) che il comportamento del paziente, ad esempio la sua astiosità o il suo sarcasmo, si limita a sollecitare, per così dire, una risposta media prevedibile nell'analista, composta da sentimenti ostili e critici;

  2. b) che il paziente, consciamente o inconsciamente, motivato a indurre sentimenti ostili e critici nell'analista. Per esempio, nel caso della proiezione di sentimenti ostili sull'analista, il paziente potrebbe essere motivato a indurre qualche sentimento ostile come un mezzo finalizzato a sostenere la proiezione. Oppure, altro esempio, il paziente potrebbe essere coscientemente motivato a indurre sentimenti ostili e critici nell'analista per gratificare il proprio desiderio inconscio di essere punito.

Se si sostiene il concetto dell'identificazione, sia nel contesto dell'identificazione complementare che in quello dell'identificazione proiettiva, si deve anche sottoscrivere l'affermazione implicita che le reazioni emozionali dell'analista siano uno specchio di qualche aspetto del mondo interno del paziente, e precisamente dei suoi oggetti interni, anziché pensare che esse siano reazioni sollecitate dal paziente. La prima ipotesi, come ho già sostenuto (e come lo stesso Gill ha ammesso) essenzialmente una versione nuova dell'analista come schermo bianco (o come specchio), mentre la seconda fa riferimento a un processo comune in cui due persone interagiscono l'una con l'altra e sollecitano delle reazioni l'una nell'altra. Nella situazione analitica, entrambe le parti, paziente e analista, ciascuna per ragioni diverse, fanno, o dovrebbero fare, un grande investimento nella comprensione della natura e dell'origine di queste reazioni. Sarebbe troppo facile per l'analista pensare di poter mettere le mani su un dogma o su una formula che gli dica che le reazioni che egli sta provando gli sono state messe dentro dal paziente e che queste reazioni sono un riflesso della sua identificazione con gli oggetti interni del paziente. E dunque, se io, in quanto analista, mi sento critico nei confronti del mio paziente, questa ipotetica formula sarebbe in grado di rassicurarmi circa il fatto che molto verosimile che tali miei sentimenti costituiscano un'identificazione complementare con l'oggetto interno critico del paziente. In tal caso, non avrei più bisogno di considerare questi sentimenti critici come una reazione mia, per quanto sollecitata dal paziente (e dunque non dovrei più nemmeno cercare di capire che cosa questi sentimenti mi rivelano circa me stesso), ma li potrei considerare un riflesso speculare del mondo interno del paziente.

Mi torna in mente un'esperienza che ho avuto di recente con una collega che avevo in supervisione. La collega mi stava presentando un caso che aveva anche deciso di portare a un seminario clinico a cui io non presi parte; nella seduta di supervisione successiva all'occasione di questo seminario clinico, la collega mi informò, per la prima volta, non solo che da tempo soffriva di frequenti mal di testa durante le sedute col suo paziente, ma mi disse anche che quando aveva parlato di questo fatto al seminario clinico, le era stato detto da qualcuno che questi mal di testa dovevano essere il risultato di un'identificazione proiettiva. Dopo che le ebbi mostrato una certa sorpresa per il fatto che lei non mi avesse mai fornito prima questo elemento e dopo che le ebbi detto che valeva la pena che cercassimo di capire come mai questo era successo, chiesi alla collega cosa aveva pensato di quest'idea che i suoi mal di testa potessero essere dovuti a un'identificazione proiettiva. Mi rispose che pensava che "il paziente mi abbia messo dentro il mal di testa". Le chiesi allora come poteva aver fatto il paziente a metterle dentro il mal di testa. Mi rispose: "Attraverso l'identificazione proiettiva". Quando le chiesi che cosa intendeva per identificazione proiettiva, mi rispose che intendeva che il paziente le aveva messo dentro qualche cosa. Le suggerii allora che mi sembrava che l'uso di questo termine ci stava impedendo di guardare con maggior attenzione e di cercare di capire ciò che stava avvenendo dentro di lei e nell'interazione tra lei e il paziente che portava a questi suoi frequenti mal di testa proprio nel lavoro con questo paziente e non in quello con altri (dato che i mal di testa si verificavano appunto solo durante le sedute con lui).

Ho letto molti riferimenti all'identificazione proiettiva in letteratura che non mi sembrano molto diversi, nella loro essenza, da quello che ho appena offerto qui. Si sente parlare spesso del paziente che mette qualcosa dentro l'analista senza alcuna apparente consapevolezza della necessità, quanto meno, di specificare i processi interpersonali (ad esempio, gli indizi disseminati da una persona) tramite cui una persona ne spinge un'altra a provare certi sentimenti, o senza alcuna apparente consapevolezza del fatto che i processi di questo tipo, del tutto naturali e per nulla magici, esistono di continuo. Sono stato molto colpito dal fatto che, in certi contesti, parlare di una persona che mette qualcosa (ad esempio, pensieri e sentimenti) dentro a un'altra, potrebbe essere considerato delirante. Tra le altre cose, mi torna in mente un congresso a cui presi parte, in cui il tema principale di una relazione era che l'identificazione proiettiva fosse attribuibile a fenomeni di telepatia mentale che intervenivano tra paziente e analista. 

Non voglio dire che non esistano dei fenomeni reali che le persone che usano il termine di identificazione proiettiva stanno in realtà cercando di cogliere. Ciò che invece desidero sottolineare la natura piuttosto confusa e abborracciata della maggior parte della discussione e delle considerazioni offerte a proposito dei concetti di identificazione proiettiva e di controtransfert nella psicoanalisi contemporanea.
Sebbene sia nella concezione classica che in quella contemporanea del controtransfert (v. Kernberg, 1965) venga dato massimo rilievo all'indagine attenta delle proprie reazioni controtransferali, esistono forti differenze nelle basi logiche che vengono poste a fondamento di questa indagine. Secondo il punto di vista classico, l'importanza di tale indagine attenta del proprio controtransfert si collega alla necessità di rimuovere le macchie cieche e le barriere che sono il risultato di conflitti, angosce e difese irrisolte e che in tal modo bloccano la comprensione che l'analista può avere del suo paziente. Divenendo consapevole dei temi che generano queste macchie cieche e queste barriere e cercando di risolverli, si potranno rimuoverne o attenuarne gli effetti e sarà dunque più probabile riuscire a capire meglio il paziente, soprattutto i suoi processi e contenuti mentali. Secondo il punto di vista contemporaneo, invece, la necessità di questa indagine delle proprie reazioni controntransferali viene principalmente ricollegata non alla possibilità di divenire consapevoli di questi conflitti e difese che bloccano la comprensione del paziente, quanto piuttosto al fatto che la lettura di queste reazioni può fungere da indicatore di ciò che sta avvenendo nell'inconscio del paziente, basandosi sull'assunto che poiché le reazioni controtransferali vengono sollecitate dal transfert del paziente, esse possono servire come una guida verso i contenuti mentali inconsci del paziente stesso.

Sia nella concezione classica che in quella contemporanea, il controtransfert viene inteso, almeno in parte, come una reazione sollecitata dal transfert del paziente. Tuttavia, nella prima sembra esserci maggiore consapevolezza del fatto che ciò che viene sollecitato è, per così dire, responsabilità della persona che lo sperimenta, e che può rivelare parecchie cose su di essa. Ancor più importante, il rapporto tra le reazioni controtransferali di un terapeuta, per quanto esse possano essere intese come reazioni sollecitate dal transfert del paziente, e ci che di fatto sta avvenendo nel paziente, viene ritenuto molto complesso e incerto. La quantità di cose che si ritiene il controtransfert possa rivelare rispetto a ciò che sta avvenendo nel paziente, può variare da una quota minima a una massima. Non si può dare per scontato che il controtransfert o l'indagine del controtransfert costituiscano di per sé un mezzo certo di comprensione dell'altro, né che, in un modo o nell'altro, essi rappresentino una sorta di Sacro Graal. 

Come già notavo prima, sebbene alcuni autori abbiano messo in guardia contro la tendenza al ricorso indiscriminato dell'invocazione del controtransfert e dell'identificazione proiettiva, così come può succedere che il vino buono venga offerto anche a chi non se ne intende per nulla, si finisce spesso per assistere a un impiego allargato e affatto specifico di questi due termini, e in pratica tutti i pensieri e i sentimenti dell'analista, ma soprattutto i sentimenti, vengono intesi come se fossero qualcosa che gli stato messo in testa dal paziente, e come se fossero qualcosa che costituisce un riflesso diretto di ciò che sta avvenendo nel paziente. Con una perversione del significato originario del concetto di controtransfert, l'assunto difettuale ma comunque prevalente sembra essere che il modo migliore (e per molti, l'unico) per determinare e comprendere ciò che sta avvenendo nel paziente consista nell'indagine dei propri pensieri e delle proprie reazioni emotive. All'esame delle produzioni del paziente e delle inferenze cognitive che discendono da esse viene invece assegnato un ruolo minoritario, talvolta quasi inesistente, nella comprensione dell'altro.

Per quanto l'indagine delle proprie reazioni emotive da parte del terapeuta possa senz'altro far progredire la sua comprensione del transfert inconscio del paziente, ritengo che nel clima attuale venga posto un accento troppo marcato sui pensieri e sui sentimenti che emergerebbero automaticamente nel terapeuta, facendo di essi uno strumento epistemologico fondamentale nel tentativo di conoscere e di comprendere l'altro, e che vengano invece del tutto trascurati gli altri mezzi importanti che contribuiscono comunque a questa comprensione.
L'identificazione e l'empatia sono spesso indispensabili per la comprensione dell'altro. Sono comunque strumenti che possiedono i loro limiti, specie quando il gradiente di differenza tra se stessi e l'altro mette a repentaglio le capacità di una persona di identificarsi con l'altro. Ed proprio a questo punto che gli altri mezzi di conoscenza, compresa la conoscenza esplicita e diretta dell'altro, la conoscenza teorica, la ricerca non mascherata di aspetti contraddistintivi e di segnali, l'indagine degli elementi fattuali raccolti, il ragionamento clinico e le inferenze basate sulle produzioni del paziente, possono rivelarsi essenziali per fornire ci che l'identificazione, l'empatia e l'esperienza dei pensieri e dei sentimenti emergenti in modo passivo non riescono a produrre.

Le riconcettualizzazioni più recenti del transfert e del controtransfert, per certi aspetti, hanno svolto un'importante funzione correttiva rispetto al punto di vista classico dello schermo bianco. Tuttavia, l'oscillazione che il pendolo ha assunto sulla base di queste riconcettualizzazioni ha forse bisogno di essere in parte modulata per poter dare luogo a un punto di vista più completamente equilibrato che riesca a rendere giustizia agli aspetti di maggiore complessità insiti nell'interazione paziente-terapeuta. Uno degli insight più propriamente psicoanalitici costituito dalla notevole misura in cui anche i comportamenti che appaiono più nettamente contrapposti possono essere un riflesso della stessa dinamica. Come ho cercato di dimostrare, la concettualizzazione e l'utilizzo indiscriminato e acritico dei concetti di controtransfert e identificazione proiettiva può costituire un modello altrettanto rigido di schermo bianco, seppur una versione nuova di esso, di quanto lo stato il modello contro cui tali concetti hanno tentato di porsi. C'è davvero parecchia ironia in tutto questo! E dato che la nuova versione tende ad accompagnarsi alla convinzione confortante secondo cui saremmo così riusciti a eliminare tutti gli aspetti carenti del modello precedente, c'è il rischio che si sviluppi un atteggiamento acritico foriero di guai ancor peggiori di quelli provocati dal vecchio modello. Quanto meno in linea di principio, un correttivo necessario a un'oscillazione esagerata del pendolo parrebbe relativamente semplice da apportare: cerchiamo di non dare mai per scontato che tutti i sentimenti e i pensieri che emergono nella nostra esperienza siano sempre e soltanto un riflesso lineare di ciò che sta accadendo nel mondo interno del paziente. Il mantenimento di una piccola quota del vecchio punto di vista sul controtransfert, secondo il quale esso può anche essere visto come una barriera alla comprensione, credo che continui a rimanere auspicabile. 


Riassunto. La tesi principale dell'autore è che, piuttosto ironicamente, nella loro reazione al punto di vista classico sulla situazione analitica in termini di schermo bianco, si siano sviluppate una serie di versioni nuove e più sottili che continuano, di fatto, a considerare l'analista alla stregua di uno schermo bianco o, quanto meno, di uno specchio. Secondo queste nuove versioni, le reazioni controtransferali dell'analista tendono a essere viste come una guida praticamente infallibile verso i contenuti mentali del paziente. Nell'articolo, vengono discusse una serie di difficoltà relative all'impiego di questi nuovi punti di vista e viene operata una discussione critica sul concetto di identificazione complementare di Racker e sul concetto sempre più diffuso di identificazione proiettiva.

Summary. The author's main thesis is that, quite ironically, in reacting against the classical blank screen view of the analy-tic situation, a new and more subtle version of the blank screen analyst, or at least of the blank mirror analyst, has emerged. In this new version, the analyst's countertransference reactions tend to be seen as a virtually unerring guide to the patient's mental contents. Some difficulties with this new point of view are discussed, and a critical discussion of Racker's concept of complementary identification and the much used concept of projec-tive identification is included.


BIBLIOGRAFIA

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