Fughe nella dipendenza: la work addiction

di Gioacchino Lavanco*, Anna Milio**, Mauro Croce***

(*professore ordinario di Psicologia di Comunità, Università di Palermo; **psicologa, dottore di ricerca in Psicologia di comunità e modelli formativi, Università del Salento; ***psicologo dirigente ASL VCO e docente SUPSI Lugano)

 

Riassunto

Con il concetto di workaholism viene individuata una modalità di compulsione al lavoro che può assumere le caratteristiche di una vera e propria forma di addiction. Nel mondo scientifico, tuttavia, l’accordo intorno al significato da dare al costrutto di workaholism è ancora lontano da essere raggiunto e sono ancora necessarie ricerche sistematiche di approfondimento. In questo contributo presentiamo le differenti definizioni di workaholism e work addiction e riassumiamo numerosi contributi di ricerca finalizzati all’individuazioni dei tratti psicologici della dipendenza e degli altri tratti correlati. Sinteticamente vengono anche descritti questionari e scale finalizzati alla costruzione di test adeguati all’individuazione dei fattori predittivi correlati alla dimensione del workaholism.

Parole chiave: workaholism, ricerca, scale, fattori correlati, dipendenze non da sostanze

Summary

As far as can determined, the term workaholism described the compulsion to work incessantly. The characteristics exhibited by work addicts have the negative consequences bought about by this addiction. Despite its common currency there is little consensus about the meaning of the workaholism construct beyond its core feature of heavy investment in work. The popularity of the general notion of workaholism reflects its intuitive appeal and suggest that the topic deserves systematic investigation. In this article, we present the different definitions of workaholism and work addicitio and describe the series of investigations developed to identify individuals falling into this and other work-related categories. We also present the questionnaires and other scales developed to test several predictions about the correlates of workaholism.

Key-words: workaholism, investigations, scales, correlates, new addictions.

1. UNA SINTESI INTRODUTTIVA

Workaholism e work addiction sono i neologismi con cui oggi viene indicata una forma di dipendenza estremamente insidiosa ed allo stesso tempo misconosciuta a vari livelli: dal soggetto interessato, dai suoi familiari, dalle organizzazioni del lavoro e dalla comunità scientifica. Nonostante infatti le crescenti evidenze e preoccupazioni sul piano clinico, il processo di definizione ed inclusione nelle categorie nosografiche ufficiali appare del tutto concluso. La dipendenza da lavoro può tuttavia essere compresa tra quelle che vengono definite ‘nuove dipendenze’, o dipendenze sociali (Lavanco, Croce,2008) dovute a comportamenti i quali, pur producendo le stesse conseguenze delle cosiddette tossico-dipendenze (l’escalation, la tolleranza, l’astinenza, l’evoluzione progressiva del quadro, ecc.), si costruiscono e si autoalimentano in assenza di qualsiasi sostanza ed hanno anche a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati. Dipendenze sociali e quindi misconosciute perché non si collocano nella dimensione della trasgressione, del vietato, del disapprovato ma, al contrario nascono e si costruiscono all’interno della quotidianità di ognuno di noi. Ed il mondo del lavoro (Harpaz e Snir, 2003) non pare essere immune da tale rischio. Il fenomeno è stato inizialmente identificato e segnalato in ambito statunitense sebbene già in Giappone - si pensi al termine karoshi - il fatto che milioni di persone sviluppassero malattie ischemiche a seguito di impegni settimanali di lavoro di sessanta-settanta ore settimanali il rapporto tra modalità di lavoro e sviluppo di problematiche di interesse sanitario fosse segnalato da tempo. In Europa sembra invece diffondersi un modello di gestione del lavoro incentrato maggiormente nella crescente responsabilità del lavoratore piuttosto che il numero di ore lavorative. (Heide, 2001). Tuttavia tendenze nell’organizzazione del lavoro trasversali a Paesi molto lontani culturalmente e geograficamente stanno evidenziando conseguenze simili. In Italia ad esempio, sotto la spinta della continua innovazione di prodotti e processi, le aziende si possono mantenere competitive solo se in grado di rinnovarsi incessantemente prevedendo ed anticipando le tendenze del mercato. Inoltre, con l’avvento delle tecnologie informatiche, l’azienda fonda una duplice politica del personale: da un lato riserva grande attenzione alla fascia alta del lavoro, dall’altro tende a ridurre le altre fasce o a renderle sempre più precarizzate. In entrambi i casi, esercita una grande pressione nei collaboratori. Si consideri poi il ruolo giocato nelle diverse biografie dalla fine della certezza di un lavoro stabile e garantito e dalla messa in discussione di un sistema clientelare di reclutamento e di assistenzialismo diffuso sebbene con diverse specificità e significati tra nord e su del paese. L’attuale progresso industriale e tecnologico poi non può che contribuire a determinare una generale situazione di insicurezza nel mondo lavorativo che di certo favorisce il sorgere della dipendenza da lavoro spingendo gli individui ad eccedere nel proprio lavoro, arrivando a sostenere ritmi frenetici e a competere per paura di perdere il proprio ruolo. Del resto la possibilità di garantirsi la possibilità di un tenore di vita orientato ai simboli ed al possesso di beni materiali e lo sviluppo del concetto di professione esprime fortemente un senso di realizzazione personale raggiunta tramite il lavoro (Del Miglio, Corbelli, 2003): risulta, dunque, chiaro come aumenti il peso dell’identità lavorativa sull’identità personale e lo spazio che si riserva al lavoro. Si giunge così ad un primo preoccupante quadro. I dipendenti da lavoro nel 79,82% dei casi lavora dalle nove alle 11 ore al giorno; 25% delle persone che lavorano a ritmi elevati hanno sintomi come mal di testa, ulcere, depressione, irritabilità e ansia.

Dal punto di vista psicologico, si assiste poi ad un meccanismo di trasformazione degli atteggiamenti sociali e alla modifica della percezione di sé e dell’altro, determinati dalla diffusione di una cultura del lavoro creativo e della flessibilità — potremmo meglio chiamarla ‘incertezza’ — di un lavoro sempre più da inventare (Di Maria, Lavanco, 2000). Un lavoro "sempre più da inventare" ma che sembra assumere sempre più un significato simbolico e relazionale ove essere riconosciuti ed apprezzati in una società che, come dice Schaef (1986), non solo mantiene le dipendenze, ma le promuove attivamente. In questa prospettiva la dipendenza da lavoro va letta non tanto e non solo come patologia individuale, ma come contrappasso perfetto ad una società additiva, competitiva ed individualizzata. Fassel (1990) ad esempio segnala come principali determinanti della dipendenza da lavoro le istituzioni della nostra società ed in primo luogo il sistema educativo. Un sistema che, non lasciando i bambini la libertà di organizzare il proprio tempo e di seguire i propri ritmi e inclinazioni, li costringe a rispondere costantemente a pressioni esterne e a sottoporsi a paragoni che incidono fortemente sulla percezione della propria abilità e sull’autostima.

Se tra i fattori contestuali che incidono sulla dipendenza da lavoro, sono stati segnalati quelli legati al sistema familiare (Killinger, 1991; Robinson, 1998), anche l’innovazione tecnologia sembra svolgere un ruolo determinante (Robinson, 1998; Porter, 2001). Infatti, pur nell’obiettivo di agevolare le condizioni di lavoro delle persone, la tecnologia ha cancellato i fisiologici e difensivi confini tra area professionale e area personale, determinando una sorta di ‘invasione’ degli spazi e tempi ad essa legati. Si pensi al fatto di essere sempre reperibili attraverso la telefonia cellulare o di potere ricevere ed elaborare documenti da casa propria con l’impressione da un lato di una immediata sensazione di controllo e di gratificazione dei propri bisogni ma dall’altro di una sensazione di "non poterne fare a meno".

2.TIPOLOGIE DI WORKAHOLIC E CENNI INTORNO AD ALCUNI MODELLI INTERPRETATIVI

Forti sono i luoghi comuni e gli stereotipi. Uno dei più diffusi vede il dipendente da lavoro come isolato, solitario: un misantropo sommerso e difeso da un mucchio di carte dietro una scrivania. Stereotipo che appare contraddetto dal fatto che per non pochi workaholics la socializzazione costituisce un vero e proprio sintomo. Le relazioni appaiano infatti ricche e varie all’apparenza sebbene però di fatto siano finalizzate e concentrate nel creare e mantenere contatti potenzialmente utili per la professione. Un altro stereotipo è dovuto al fatto che si ritiene il dipendente da lavoro una utile risorsa per le organizzazioni mentre invece esso può essere un problema insidioso. Un altro luogo comune infine indica come categorie interessate gli alti dirigenti, i manager, gli uomini d’affari mentre invece ne possono essere coinvolte anche le casalinghe nei lavori domestici oppure i bambini la cui dipendenza si manifesta nel bisogno di eccellere a scuola, nelle attività extracurriculari, nello sport. Al di là degli stereotipi certamente i rifugi più frequentati dai workaholic (Fassel ,1990) sono i piles and files ovvero le grandi quantità e i documenti. Senza i propri documenti il workaholic non potrebbe vivere, si sentirebbe perso. I files rappresentano per lui una continua fonte di lavoro e, cosa più importante, gli servono ad evitare il contatto con i suoi sentimenti più intimi. La grande quantità di lavoro tuttavia, non fa che intrappolarlo nella sua dipendenza ed il distacco dagli altri che costituisce uno dei sintomi più evidenti e problematici avviene attraverso diverse modalità e circostanze ed il suo stile di vita si può definire "abusante". In primo luogo verso se stesso, perché si basa su un ciclo continuo di pensieri interni centrati sull’inadeguatezza e l’incapacità ma anche verso la propria famiglia, all’organizzazione, alla società.

Irrequieto e irritabile, il workaholic si sente in colpa e inutile se non fa qualcosa che produce dei risultati. Il tempo è il bene più prezioso, ed egli odia aspettare o perdere tempo. L’impazienza può diventare impulsività e lo può portare a prendere decisioni affrettate o ad iniziare progetti senza avere sufficienti elementi, commettendo così errori evitabili (Robinson, 1998).

Dal punto di vista fisiologico, l’adrenalina sembra il fattore che maggiormente contribuisce ad un altro tratto fondamentale del workaholic: la sua incapacità di rilassarsi. Il workaholic ha sempre una serie infinita di compiti da eseguire e sente sempre il bisogno di fare un po’ di più; sebbene ad uno sguardo esterno non si direbbe, è costantemente in tensione.

Molti work-aholics vanno sempre di fretta perché programmano più cose di quelle che possono fare ed è difficile che entrino realmente in contatto con le loro più profonde emozioni, poiché da esse cercano di fuggire affrontando ritmi frenetici. Per alcuni infatti, fermarsi è terrificante perché comporta riflettere su se stesso.

Altri invece, pur avendo la chiara sensazione di un vuoto interiore, hanno troppo timore di esplorarlo. Qualunque sia la loro paura, comunque, i workaholics ammettono che il lavoro tiene questi sentimenti nascosti e li rende inaccessibili nella vita quotidiana. L’incapacità di rilassarsi non è dunque legata all’attività del lavorare, ma a come e a quanto si lavora.

Il lavoro non può dare felicità ad una persona, né a maggior ragione un’identità. Ma per il work-aholic il lavoro è una sicurezza che riempie le sue giornate, sostiene la sua autostima e dà uno scopo e un significato alla sua vita. Non appena un compito è completato, il vuoto, la depressione e l’ansia riemergono. Tra un’attività e l’altra il workaholic si sente perso, il sentimento di inadeguatezza lo tormenta finché non si immerge in un nuovo lavoro. Esso è la sua difesa e il suo sostegno: durante l’infanzia è stato il mezzo per ricevere l’amore e l’attenzione dei genitori, adesso è quello che gli consente di raggiungere quei successi e traguardi che determinano il suo valore personale.

È chiaro quindi come il senso di inadeguatezza e la bassa autostima conducano ad un iperinvestimento sul lavoro e all’amplificazione del conseguimento di risultati (Robinson, 1998). Chi ha un rapporto sano col proprio lavoro, ne viene stimolato e non si aspetta che esso lo riempia poiché ha già un integro senso di sé; dopo una giornata fitta di impegni è naturalmente stanco, ma questa stanchezza non è debilitante come quella del workaholic (Fassel, 1990). Prendere un appuntamento dopo l’altro lo mantiene sotto una pressione costante che gli procura un carico di adrenalina tale che lo fa andare sempre di corsa ed eseguire più attività in una volta. Un lavoro in sospeso genera ansia e paura: per controllarle e per sperimentare un senso di adeguatezza, il workaholic deve fare più cose contemporaneamente (Robinson, 1998).

Pur convenendo sulla centralità di "un significativo investimento nel lavoro" (Harpaz e Snir, 2003) che può essere visto come espressione di un’attitudine al lavoro (Machlowitz, 1980) o come mezzo per la ricerca di coinvolgimento e soddisfazione (Cantarow, 1979), le posizioni tra gli studiosi appaiono piuttosto diversificate e le ricerche hanno seguito approcci diversi. Attualmente ci si interroga se il workaholism sia un costrutto unitario o se piuttosto non sia il caso centrarsi sullo studio delle componenti implicate (soddisfazione, compulsione, ore lavorative) ed i diversi autori si sono riferiti fondamentalmente a due concetti: la dipendenza e i tratti; talvolta è stato indicato un meccanismo di condizionamento, mentre più recentemente sono stati attenzionati gli antecedenti cognitivi del comportamento workaholic e le dinamiche familiari (McMillan et al. 2003).

Volendo riassumere, i modelli teorici di riferimento possono essere dunque considerati:

  1. Il paradigma della dipendenza (Oates, 1981; Schaef e Fassel, 1989; Robinson, 1989; Porter, 1996). È uno dei modelli maggiormente accreditati, che riconduce la dipendenza da lavoro ad un processo analogo, ad esempio, a quello dell’alcolismo: il workaholism, quindi, come una vera e propria forma di dipendenza sia per gli effetti fisici e psicologici che comporta, che per l’esistenza di una sostanza (l’adrenalina) e di un processo (lavorare esageratamente) da cui si diventa dipendenti. Questo modello tuttavia presenta una difficoltà metodologica, legata alla misurabilità del concetto. Da un punto di vista psicodinamico, il modello della dipendenza rimanda all’esistenza di un Io fragile incapace di tollerare la frustrazione e che tende a negare le esperienze che gli palesano la sua separatezza e diversità rispetto all’ideale. Questa condizione non permette che si crei, a partire dalle prime assenze dell’oggetto, una sua rappresentazione interna che, in situazioni che causano angoscia, svolge per l’individuo una funzione calmante e consolatoria. Di fronte a questi casi, egli dovrà quindi ricorrere ad altre modalità, quali la ricerca compulsiva dell’oggetto o la modalità dissociativa. Così, il cibo e le droghe, ma anche internet, il sesso o il gioco d’azzardo divengono uno strumento che può, se non altro temporaneamente, attenuare lo stress e svolgere una funzione materna che l’individuo non è in grado di fornire a se stesso. Il ricorso continuo ad oggetti esterni è tuttavia destinato a fallire nel suo scopo e a doversi necessariamente reiterare in maniera compulsiva. Si viene quindi a stabilire un processo per cui l’assunzione di una sostanza (nel nostro caso di un comportamento) ripristina la primitiva sensazione di onnipotenza; il malessere legato alla carenza della sostanza (nel nostro caso del processo del lavorare), smascherando la finzione che la separazione non sia mai avvenuta, la rende evidente: per ristabilire l’unità, l’unica soluzione diviene allora, la ricerca compulsiva dell’oggetto della dipendenza (Caretti e La Barbera, 2005).
  2. Il modello dell’apprendimento operante rimanda ad un processo di condizionamento per cui una risposta può essere attivata senza la necessità di uno stimolo; se cioè un comportamento determina una ricompensa, aumenterà la probabilità che quel comportamento in futuro si ripeta. In quest’ottica, un comportamento improntato all’eccessivo lavoro, espressione della dipendenza da lavoro, generando approvazione da parte dell’ambiente circostante, tenderà ad essere reiterato. Il workaholism emerge quando aver lavorato per qualche ora in più determina l’approvazione dei pari e la conseguente aumentata possibilità di ripetere questo comportamento. I riconoscimenti funzionano da rinforzi positivi, e quindi da fattori di mantenimento; gli agenti rinforzanti, tuttavia, possono anche essere costituiti dall’evitamento di un evento spiacevole, quale una condizione di povertà o il conflitto familiare. Se da un lato tale modello, non comporta le difficoltà metodologiche del precedente (dal momento che non fa riferimento ad entità non osservabili, quali la personalità) e appare ottimistico (il workaholism può scomparire), dall’altro non prende in considerazione la dimensione temporale e altri fattori che possono intervenire nello sviluppo della dipendenza.
  3. La teoria dei tratti fa riferimento, nel descrivere la personalità, a pattern comportamentali stabili legati alla natura dell’individuo: la dipendenza da lavoro sarebbe espressione di un tratto che emerge nella tarda adolescenza, immutabile e rafforzato dall’esposizione a condizioni contestuali quali lo stress. Da questo modello, che è ritenuto il più attendibile e il più supportato dai risultati delle ricerche, la dipendenza da lavoro emerge come risultato dell’interazione tra le caratteristiche individuali e l’ambiente; in particolare, se ci si focalizza sugli specifici tratti, quelli associati al workaholism sono i tratti ossessivo-compulsivi.
  4. La teoria cognitiva è centrata sull’analisi delle credenze antecedenti al comportamento workaholic: gli individui, infatti, hanno degli schemi mentali (sistemi di credenze, cornici concettuali entro cui definiscono il mondo) basati su credenze centrali, assunti sulla causalità e pensieri automatici espressi in forma verbale (McMillan et al. 2003). Secondo questa lettura, la dipendenza da lavoro emerge come credenza centrale (esempio: sono un fallito), assunzioni conseguenti (esempio: se lavoro duramente non fallirò) e pensieri automatici.
  5. Il modello sistemico — familiare, andando oltre le caratteristiche e i processi individuali, si focalizza sul sistema e non su un individuo. La dipendenza da lavoro dunque si configurerebbe come disturbo del sistema familiare che emerge e viene mantenuto da dinamiche disfunzionali che vedono nel lavoro un vero e proprio simbolo di realizzazione , di riconoscimento alimentato spesso da un "romanzo familiare" centrato sul prestigio di membri della famiglia acquisito nel mondo del lavoro e sulla svalutazione di altri "perdenti" sullo stesso scenario.

 

3. WORKAHOLIC: CARATTERISTICHE E RISCHI

Benché lo studio della dipendenza da lavoro si sia basato, in origine, soprattutto su resoconti di storie e casi clinici, alcuni autori hanno avviato delle ricerche empiriche per comprendere meglio il fenomeno, anche se un limite evidente è l’insufficienza e la contraddittorietà dei dati empirici. Le ricerche sull’argomento sinora realizzate hanno indagato le variabili correlate alla dipendenza da lavoro: sono state considerate variabili sociodemografiche, quelle relative alla situazione lavorativa, allo stress fino alle componenti del burnout (Burke e Matthiesen, 2004), variabili attitudinali (indici del significato attribuito al lavoro: centralità del lavoro, orientamento espressivo, orientamento economico, relazioni interpersonali), demografiche (genere, stato civile) e situazionali (professione, settore d’impiego) (Snir e Zohar, 2000; Snir e Harpaz, 2003; 2004). Alcune ricerche si sono centrate in maniera più specifica sul genere (Spence e Robbins, 1992; Burke, 1999; Porter, 2001; Harpaz e Snir, 2003; Taris et al., 2005), altre sulle categorie professionali (dai manager agli impiegati del settore pubblico, ai liberi professionisti come avvocati e psicologi, agli studenti universitari, ai giornalisti, agli insegnanti di scuola elementare (Elwork, 1995; Burke et al. 2003; Burke e Matthiesen, 2004; Senholzi, 2005).

Oltre al numero di ore lavorative, sia per ciò che riguarda la professione del workaholic, che per ciò che attiene alla questione del genere, i risultati sono piuttosto controversi. Sebbene sia molto diffusa l’idea che i workaholics siano soprattutto alti dirigenti, manager e uomini d’affari o liberi professionisti, in realtà, si può abusare di qualsiasi professione, se si entra nell’ottica di considerare che il nodo problematico sta nel diventare dipendenti da un’attività (sia nella compulsione ad esercitarla che nel pensiero costante ad essa). Altrettanto complesso il discorso sul genere: se alcuni ricercatori rilevano una maggiore presenza di uomini workaholics, la maggior parte non riscontra differenze di genere. Con l’avvento delle donne nel mondo del lavoro, al contrario, esse diventano maggiormente soggette al rischio di sviluppare una dipendenza da lavoro.

Oggetto di interesse scientifico è stata anche la famiglia a cui possono essere ricondotti il primo (e uno dei pochi) studio sui figli adulti di workaholics (Robinson e Kelley, 1997) e alcune ricerche centrate sul funzionamento di una famiglia in cui c’è un componente workaholic (Robinson e Post, 1995). Dal momento che si viene ad instaurare una dinamica conflittuale tra polo professionale e polo familiare, la dipendenza da lavoro risulta essere predittiva del conflitto lavoro-famiglia (Martinson e Griffin, 2003). Alla base di un rapporto equilibrato tra sfera professionale e familiare sta, per O’Driscoll et al. (2004), la soddisfazione e il coinvolgimento dell’individuo in entrambi i contesti.

L’individuazione delle caratteristiche del workaholic deriva principalmente dallo studio dei casi e dal lavoro clinico fatto con questi soggetti (Killinger, 1991; Robinson, 1998), dalle loro stesse parole ed in alcuni casi, dal materiale generato dal primo gruppo dei Workaholics Anonymous negli USA (Fassel, 1990). Queste caratteristiche non sono sempre tutte presenti e si possono manifestare in modi diversi nei diversi soggetti.

Benché fattori familiari da un lato, e storico-culturali dall’altro la alimentino, le cause si devono rintracciare nei bisogni insoddisfatti e rimossi, nell’impulso profondo che porta la persona a dover raggiungere un certo standard per essere accettata. La ragione del far troppo, risulta chiaro, non è la passione per il proprio lavoro, né il dovere o il desiderio di provvedere alle esigenze della propria famiglia, ma un bisogno ossessivo di eccellere e ottenere approvazione, le cui radici risiedono in un vuoto interiore.

Il workaholic soffre di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi (dalla rabbia alla depressione) e ad un’incapacità di adattamento che si manifesta con sentimenti di scarsa stima di sé, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali (Robinson, 1998). Il comportamento di tipo compulsivo, messo in atto dal workaholic, nell’eseguire ogni attività e nel raggiungere gli obiettivi è espressione del suo particolare funzionamento psicologico (Robinson, 1998). Egli è mosso da una forte spinta ad impegnarsi nel lavoro e ad ottenere tramite esso dei risultati oggettivi, o nei termini della realizzazione dei suoi progetti, o di tipo economico. Ha bisogno di prove tangibili, di segni osservabili che dimostrino il suo operato; tende a quantificare le cose che fa, considerandole unità di misura del valore personale. Riflette poco su quali sono gli obiettivi che può realisticamente raggiungere, e si concentra di più su quei risultati che sarebbe importante conseguire perché tutti, compreso se stesso, possano aver chiari i suoi meriti (Porter, 1996). Il lavoro dunque, diventa l’unico modo per attestare il proprio valore.

Alla base di questo atteggiamento c’è un vissuto di vergogna e un forte senso di inadeguatezza, che viene mascherato attraverso il bisogno di controllo, il perfezionismo, l’iperattività: fare sempre di più lo fa stare meglio (Robinson, 1998). Risulta evidente allora, il motivo per cui la work addiction è denominata ‘la dipendenza d’elezione degli indegni’ (Fassel, 1990). Il workaholic infatti, sente di dover guadagnare il diritto di esistere e ha necessità di giustificare la sua presenza nel mondo: la legittimazione a stare con gli altri gli proviene dalla sua grande dedizione al lavoro. Esso, quindi, conferisce dignità al workaholic e dà significato alla sua vita. Il riconoscimento di sé, il rispetto da parte degli altri e la propria autostima dipendono unicamente dal lavoro. I traguardi e i successi professionali che il soggetto raggiunge creano un senso del Sé positivo e riempiono, anche se temporaneamente, il vuoto interiore. I profondi problemi identitari e i bisogni insoddisfatti però, trovano solo un sollievo provvisorio e un effimero soddisfacimento: quando i vissuti positivi svaniscono, il workaholic deve lavorare ancora di più per recuperare il proprio senso di adeguatezza. L’insicurezza e la scarsa autostima del workaholic quindi, guidano ogni suo comportamento (Robinson, 1998).

Sebbene gli altri ne riconoscano i meriti, egli non incontra mai le sue aspettative e giudica molto duramente ogni suo più piccolo errore. Il deficit dell’autostima indebolisce sensibilmente l’Io del workaholic, che deve in qualche modo essere protetto: prendere più impegni degli altri lo fa sentire più importante, e rifiuta di delegare qualcuno perché è lui il solo in grado di risolvere i problemi e di agire nel modo migliore. Il senso di superiorità fa da supporto all’autostima, ma ciò comporta la centratura sul proprio benessere più che sull’interazione con gli altri. Attribuire all’esterno gli errori (Porter, 1996; Robinson, 1998), rilevare i difetti degli altri lo rende più sicuro di sé; in realtà però, denigrare l’altro per affermare la propria competenza non fa che accentuare il vissuto di inferiorità. Lavorare eccessivamente dà a chi crede di non essere all’altezza, valide ragioni di sentirsi importante (Jones e Wells, 1996). L’etica professionale del workaholic, molto apprezzata dalla società, viene deplorata da chi gli sta vicino, quando si trasforma in atteggiamento di superiorità.

Quotidianamente, nel rapporto con gli altri e col mondo si è guidati da convinzioni che permettono di leggere la realtà e di orientare il comportamento nelle diverse situazioni; la mente di ognuno tende a focalizzarsi su ciò che ci si aspetta e, molto spesso, le proprie rappresentazioni determinano ciò che realmente si verifica. Così, le credenze del workaholic su di sé contribuiscono alla sua dipendenza poiché, ancorando ad esse i suoi pensieri, lo mantengono in un ciclo disfunzionale (Robinson, 1998). Il modo in cui il workaholic si percepisce è conforme all’esperienza che ha fatto di sé nel passato. Il concetto di sé si è formato nell’infanzia, in conseguenza delle esperienze quotidiane e delle norme culturali che lo hanno accompagnato nella crescita. Il mancato raggiungimento degli standard indicati, più volte sperimentato, ha prodotto una visione di sé come individuo poco capace. Se da bambino ha creduto di non valere abbastanza, si rafforza in lui tale convincimento che, crescendo, viene mantenuto. Questa credenza guida il workaholic nella sua vita e lo porta a raccogliere ogni prova che la confermi. Infatti, sebbene rivolga ogni sforzo, cognitivo e comportamentale, ad invalidare il senso di inadeguatezza e a mostrare il proprio valore, l’effetto è tuttavia opposto: riceve l’ennesima testimonianza della propria incapacità, perché di essa è profondamente convinto. Il workaholic cioè, fa in modo che le esperienze attuali avvalorino la sua credenza: ogni situazione attesterà la sua incompetenza, poiché egli inconsciamente farà di tutto per dimostrare quanto sia mediocre. Così ad esempio, se prende ventotto ad un esame, si condanna per non aver avuto trenta, se conquista un bronzo si dice che avrebbe dovuto vincere l’oro, o se riceve una promozione, non è mai una posizione abbastanza prestigiosa. Inoltre, un altro meccanismo che gli consente di confermare la sua autopercezione è l’attribuzione dei propri successi alla casualità e dei fallimenti alla sua incapacità (Robinson, 1998).

I feedback positivi, da parte delle persone vicine, su di lui e sul suo lavoro entrano in conflitto con la percezione che ha di sé, e il workaholic li deve adattare al suo sistema di credenze. Ogni situazione che contraddice la convinzione sulla propria inadeguatezza, viene ignorata, disconfermata o minimizzata: non viene cioè inclusa nell’esperienza personale. Qualsiasi giudizio positivo gli venga dato, sarà ignorato o riorganizzato in un pensiero negativo (Killinger, 1991).

Secondo Fassel (1990), il workaholic ha una percezione di sé distorta ed estrema: ipertrofica o ipotrofica. Ha cioè una evidente difficoltà a vedersi e ad accettarsi per come è realmente. Oscilla tra un sentimento di superiorità e uno di inadeguatezza, tra una percezione di sé come competente e una come mediocre. Di conseguenza, si trova spesso a promettere qualcosa che non potrà adempiere e che quindi lo farà sentire in imbarazzo e umiliato o, al contrario, a sottrarsi a compiti che potrebbe facilmente affrontare. Il deficit dell’autostima comporta inoltre, secondo l’autrice, un alto grado di falsità: convinti che le persone non li accetterebbero così come sono, tendono ad amplificare i successi e a tacere i fallimenti. A questo proposito, Robinson (1998) parla di "sindrome dell’impostore" per descrivere un vissuto tipico del workaholic. Aver ‘ingannato’ gli altri circa le proprie competenze provoca nel soggetto la paura che, col tempo, egli venga scoperto per quello che realmente è. Teme il fallimento tanto da impegnarsi nel raggiungimento di risultati che diano prova della sua abilità e, nello stesso tempo, lo causa imponendosi standard elevati. In molti comportamenti di dipendenza patologica si assiste, infatti, da un lato, al disperato sforzo per evitare di essere scoperti e all’assenza di ogni forma di colpa o rimorso per le proprie azioni, dall’altro al tentativo di evitare la vergogna conseguente alla rivelazione della falsità di un’immagine di sé ideale (Caretti e La Barbera, 2005).

La dipendenza da lavoro ha parecchie conseguenze negative: ansia, depressione, irritabilità, stress, burnout e problemi di salute. Come è facilmente comprensibile rispetto alle relazioni più intime e familiari, anche in quelle lavorative vivere accanto ad un workaholic non è semplice: la certezza che il suo stile è il migliore e l’impossibilità di delegare comportano una forte pressione che si estrinseca in scoppi d’ira e insofferenza. Tutto ciò causa disarmonia e contrasti nel gruppo di lavoro.

 

4. VALUTAZIONE DIAGNOSTICA E METODOLOGIE D’INTERVENTO

Oggi esistono, in letteratura, tre strumenti di misura del fenomeno (Robinson, 1989; Spence, Robbins, 1992; Clark, 1993) che sono stati empiricamente validati (McMillan et al., 2001).

Il Work Addiction Risk Test (WART) è il più antico di questi (Robinson, 1989); il suo paradigma teorico di riferimento è quello della dipendenza. Il WART è costituito da 25 item che riguardano principalmente i comportamenti di tipo A, messi in atto quotidianamente (ad esempio mangiare, parlare e muoversi velocemente), e specifici del contesto lavorativo. Robinson (Robinson et al., 1992; Robinson, Post, 1994; 1995; Robinson, Phillips, 1995; Robinson, 1996) ha approfondito le proprietà del suo strumento che sembra avere una buona attendibilità. Altre ricerche inoltre, hanno validato il WART usando campioni eterogenei (lavoratori workaholic e non). In uno studio recente, Robinson e Flowers (2002) hanno indagato le dimensioni sottostanti il WART: dall’analisi fattoriale emerge che il workaholism, così come misurato dal WART, include cinque dimensioni: tendenze compulsive, controllo, comunicazione disfunzionale/arroganza, incapacità di delegare e autostima.

Una versione rivista del WART consente di stimolare una conversazione utile nella coppia (Sotile e Sotile, 1995): le coppie leggono insieme gli item della scala e si attribuiscono, individualmente e a vicenda, un valore per ognuno di essi. Dai punteggi segnati, emerge l’immagine di se stesso e dell’altro rispetto al rapporto col lavoro, e da qui prende avvio un confronto sull’accordo o meno nell’attribuzione dei punteggi e sulle differenze nella percezione soggettiva.

Sul modello teorico dei tratti si basano due degli strumenti di misura più utilizzati nella ricerca: lo SNAP-WORK (Clark, 1993) e la Work-BAT (Spence e Robbins, 1992). A questa cornice teorica dunque, fanno riferimento il modello di Clark (1993) che collega la dipendenza da lavoro alla compulsione e alla coscienziosità, e il modello di Spence e Robbins (1992) secondo cui la dipendenza da lavoro è definita come un tratto stabile che comprende un alto grado di impegno nel lavoro, un tempo significativo trascorso al lavoro e la compulsione a lavorare anche quando non è necessario.

La Schedule for Nonadaptive Personality Workaholism Scale (SNAP-WORK) è costituita da 18 items a risposta chiusa (vero/falso) e si basa sull’idea che ci sia una certa corrispondenza tra la dipendenza da lavoro e il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Somministrata a diversi campioni, studenti e lavoratori (Clark et al., 1993), la scala presenta un’elevata consistenza interna e una buona attendibilità, e converge con altre misure del workaholism (McMillan e O’Driscoll, 2000). Sebbene non sia molto usato dai ricercatori, tuttavia sembra essere uno strumento ben costruito e scientificamente valido.

La Workaholism Battery (Work-BAT) (Spence, Robbins, 1992) è lo strumento più utilizzato nelle ricerche sul workaholism. È un questionario self-report che consta di 23 items e utilizza un formato di risposta su una scala a 5 punti. Il Work-BAT comprende tre scale: spinta a lavorare, soddisfazione lavorativa e dedizione al lavoro, che corrispondono alle tre componenti individuate dalle autrici. Spence e Robbins inoltre, per misurare eventuali comportamenti di tipo workaholic hanno costruito altre 5 scale: il coinvolgimento nel lavoro, il tempo dedicato al lavoro, lo stress legato al lavoro, il perfezionismo e la difficoltà a delegare. Una ulteriore scala (health complaints scale), ideata da Spence, Helmreich e Pred, indaga la frequenza con cui il soggetto ha sofferto di vari disturbi o ha accusato alcuni sintomi nell’anno precedente la somministrazione del test. La Work-BAT mostra buone caratteristiche psicometriche (validità di contenuto, validità esterna); la validità convergente è stata dimostrata rispetto alla dedizione al lavoro, ai problemi di salute, alle ore di lavoro, al perfezionismo e alla tendenza a non delegare, con misure usate in America, Giappone, Canada, Australia e Nuova Zelanda (Spence, Robbins, 1992; McMillan e O’Driscoll, 2000). Tuttavia, esiste un certo grado di disaccordo sulla sua struttura interna: in tre diverse analisi fattoriali, le sottoscale spinta a lavorare e soddisfazione lavorativa hanno riportato valori accettabili di α in ampi range di popolazioni (Elder, 1991; Spence, Robbins, 1992; Kanai et al., 1996; Perez-Prada, 1996; Burke, 1999; McMillan, 2000; McMillan et al., 2002), mentre la sottoscala coinvolgimento nel lavoro ha più volte riportato valori bassi di α, ed in tre diverse analisi fattoriali non è stata confermata la sua struttura fattoriale (Kanai et al., 1996; McMillan, 2000).

McMillan (WorkBAT-R, McMillan e O’Driscoll, 2000) ha cercato di migliorare la Work-BAT, modificandola in uno strumento a 2 scale (spinta a lavorare e soddisfazione lavorativa) costituito da 14 items. Questa misura ridotta — di cui dati iniziali indicano una buona consistenza, attendibilità, validità convergente e utilità scientifica — è attualmente sottoposta ad ulteriori analisi psicometriche (McMillan, 2000).

Infine, recentemente Mudrack e Naughton (2001) hanno sviluppato due nuove scale basate sulla tendenza del lavoratore ad eseguire attività non obbligatorie e ad interferire e a tentare di controllare il lavoro altrui. Per evitare possibili razionalizzazioni e il diniego da parte di eventuali intervistati workaholics, e per essere valide in diversi contesti lavorativi, queste misure si propongono di diagnosticare pattern comportamentali più che abitudini lavorative. Ogni scala contiene quattro items relativi alla quantità di tempo ed energia che il lavoratore impiega in attività legate al proprio lavoro; le risposte si collocano su una scala a cinque punti. I primi tre items della prima (Non-Required Work scale) si riferiscono al tempo e all’energia spesa a pensare ai possibili modi per essere più efficienti e migliorare la quantità e la qualità del lavoro, mentre il quarto riguarda il tempo e l’energia investiti per iniziare nuovi lavori. La seconda scala (Control of Others scale) esprime la natura interpersonale del workaholism, facendo riferimento alle responsabilità che alcuni lavoratori si assumono nel correggere e controllare l’operato altrui. Una preliminare ricerca empirica, condotta su un grande campione di impiegati, ha dimostrato che le scale presentano adeguati valori di coerenza interna, di validità convergente e discriminante; esse risultano sostanzialmente coerenti con le definizioni teoriche del workaholism e i racconti degli stessi workaholics.

Di fronte ad un fenomeno così complesso quale è quello della dipendenza da lavoro, le strategie di intervento assumono diverse forme e riguardano diversi aspetti. Pur nella specificità dell’ambito scelto per realizzarlo e nella peculiarità dell’inquadramento teorico di riferimento di chi interviene, varie sono le possibilità che si offrono al workaholic: la psicoterapia individuale, quella familiare, la partecipazione a gruppi di self-help (Workaholics Anonymous) sono alcuni degli interventi attuati con i workaholics.

Un principio che si deve avere ben chiaro e che deve guidare la realizzazione degli interventi è quello per cui sospendere il lavoro non garantisce il superamento del problema: il processo workaholic può riguardare infatti qualsiasi altra attività. È per questo che occorre aver sempre ben presente la distinzione tra due concetti: dry che indica la cessazione dell’uso di una sostanza o di un processo e sober che rimanda all’inizio del confronto con il diniego, il pensiero distorto, il controllo, il perfezionismo, l’isolamento e l’ossessività (Fassel, 1990).

A livello individuale, la psicoterapia attuabile può essere di orientamento psicodinamico, che si configura come un’opportunità di scoperta di sé e di crescita, possibilità per il workaholic di abbattere la difesa del diniego e sviluppare la repressa funzione emotiva (Killinger, 1991) e di esplorare e validare il proprio autentico sé (Ishiyama e Kitayama, 1994) o di orientamento cognitivo, volta a modificare le credenze erronee su se stesso. La Rational Emotive Behavioural Therapy (REBT) (Ellis, 1995), ad esempio, è un approccio psicoterapeutico di tipo cognitivo-comportamentale, fondato sulla concezione che le emozioni e i comportamenti derivano dai processi cognitivi; modificando questi processi si possono realizzare modi diversi di sentire e comportarsi: gli individui hanno un sistema irrazionale di credenze, da cui derivano i comportamenti nevrotici, ristrutturando le proprie credenze su di sé, le emozioni e i comportamenti iniziano automaticamente a cambiare; in particolare, il cambiamento è rappresentato dal passaggio da un focus esterno ad uno interno.

Complementare ad un percorso terapeutico individuale è la partecipazione ai gruppi di auto-aiuto. Workaholics Anonymous (1983) è un gruppo di individui che condividono la loro esperienza, le loro forze e le loro aspettative, nel tentativo di risolvere il loro comune problema e di aiutare gli altri a superare la dipendenza da lavoro. L’unica condizione richiesta per entrare a far parte dei Workaholics Anonymous è il desiderio di smettere di lavorare compulsivamente. Fattori terapeutici dei gruppi di Workaholics Anonymous sono: la presenza di sponsors (individui che hanno superato il problema, che hanno la funzione di guidare il soggetto nel programma di trattamento; assistono il workaholic nel programma di lavoro e lo accompagnano nei "Dodici Passi", evitando che si isoli. Inoltre, avendo da tempo superato la dipendenza, possono raccontare la propria esperienza e dare testimonianza e speranza di guarigione); gli incontri (incontri settimanali in cui vengono condivise le esperienze personali attraverso le storie individuali; danno l’opportunità di identificare e riconoscere i propri comportamenti nelle proprie storie e in quelle degli altri); un setting accogliente, protetto, in cui è garantito l’anonimato; l’elaborazione di programmi di lavoro (una guida al lavoro quotidiano che stabilisce dei confini e conduce il workaholic verso una vita più equilibrata: rappresenta infatti, un modo concreto di dedicarsi ad un nuovo stile di vita).

Inoltre, considerare la dipendenza da lavoro come un disturbo familiare implica guardare alla famiglia nel suo insieme e ai singoli componenti come fruitori di un intervento. Bisogna innanzitutto identificare la struttura della famiglia workaholic: c’è un tacito contratto tra i membri della famiglia che autorizza una modalità di lavoro compulsiva? Ci sono aspettative implicite che portano i figli ad assumere ruoli genitoriali? Portare alla luce aspetti inconsci della dinamica familiare può aiutare le famiglie a riorganizzare i propri comportamenti. La famiglia deve essere preparata al cambiamento del workaholic, deve sostenerlo, ma non fornirgli alibi per i suoi ritardi o le sue assenze e non assumersi i suoi doveri, lasciandolo libero da ogni responsabilità; particolarmente importante, infine, risulta il lavoro con la coppia e con i figli.

La dipendenza da lavoro, come più volte esplicitato, è un problema che riguarda non solo l’individuo, ma il sistema e la cultura. I workaholics e la dipendenza da lavoro non potrebbero sopravvivere senza il luogo di lavoro: diviene dunque fondamentale prestare attenzione alle abitudini lavorative dei dipendenti, progettare e realizzare interventi con i workaholics (gli Employee Assistance Program, ad esempio, sono programmi volti a sostenere chi ha bisogno di aiuto e a migliorare il clima nell’ambiente lavorativo) e incoraggiare una cultura organizzativa che rinforzi la moderazione, non stabilendo aspettative irrealistiche o richiedendo prestazioni professionali impossibili (Fassel, 1990).

 

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