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Lucio Venturini *

QUATTRO PASSI TRA TEORIA ED APPLICAZIONE

LA TERAPIA INVISIBILE °

 

"Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano.
Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".
( F. Nietzsche )

 

"Quis custodiet ipsos custodes?"
( Giovenale )

 

Ho avuto modo di constatare, nella rilettura dei due precedenti lavori, come la comprensione del paziente disabile e della peculiare modalità di esprimere la propria dimensione del dolore mentale, sia stata da me affrontata più da un punto di vista metapsicologico che applicativo, pur riportando frequenti riferimenti clinici che potessero evidenziare una possibile connessione con quanto esposto in termini di ipotesi, di teoria.

Era probabile - quindi - che potesse nascere in me anche il desiderio di facilitare l’approccio alla disabilità con delle brevi e semplici considerazioni di natura più propriamente pragmatica, peraltro senza tralasciare quei contributi della "letteratura psicoanalitica" che più di altri si avvicinassero, a mio parere, a ciò che io "immagini avvenire" quando sono in compagnia di un essere umano "diversamente abile".

Mi muoverò perciò in questo senso, cercando di descrivere il modo in cui possa essere applicata quella che il nostro gruppo di lavoro ha cominciato a definire come "la terapia invisibile" ( quella

cioè che agisca comunque in senso terapeutico, nonostante che, a tutt’oggi, possano esistere ancora

degl’occhi che non siano in grado di "riconoscerla" ).

L’aver individuato, nel percorso terapeutico riabilitativo, l’importanza della relazione con la persona disabile come costante fondamentale, porta con sé una intrinseca difficoltà.

In molti casi infatti, da subito, ci si pone innanzi come un peculiare problema non solo il "cosa" dire ed il "quando" dire alla persona sofferente – senza dimenticare per altro il quesito di base che l’incontro ci pone, e cioè il "perché" dirlo – ma anche il "come porsi" nei suoi confronti. Senza considerare inoltre come, molto spesso, una simile sofferenza riduca o sopprima la capacità di espressività verbale, di frequente veicolata attraverso modalità del tutto caotiche o bizzarre. In questo primo contesto trascureremo ogni aspetto del "cosa" e del "quando" ( ripresi poi successivamente ) poiché essi appartengono ad una dimensione professionale che richieda specifiche capacità di natura tecnica, culturale ed "umana".

Nella relazione, di fatto esiste un "qualcosa" di più semplice ed immediato ( anche se solo "apparentemente" semplice ed immediato ) che rischia di essere trascurato perché, talora, associato a giudizi minimizzanti e banalizzanti. Siamo consapevoli che ciascun processo linguistico possa comportare una valenza intenzionale, più verosimilmente assimilabile ad una vera e propria azione ( il cosiddetto "linguaggio dell’azione" ); certo è che, al di là degli atti linguistici espressi, esiste un "qualcosa" di maggiormente "attivo" ( e più semplice ed immediato quindi ) all’interno del rapporto con il paziente disabile che rimanda appunto ad un concetto di "azione" ( ben sapendo che ogni azione possa poi essere supportata e complicata dai nostri atti linguistici che risultano così del tutto ineludibili ). Parliamo dunque di un tipo particolare di azione che abbia a che fare perciò con l’intenzionalità, con quell’atteggiamento che, attivamente, faccia "sentire l’altro" accolto, rispettato, apprezzato, valorizzato ( l’operatore o, meglio, il gruppo di lavoro come "ambiente terapeutico" innanzitutto ).

In altri termini, mutuando i concetti di Correale, diremo che la ‘conditio sine qua non’ per "entrare e restare" in questo tipo di relazione, sia quella di garantire a ciascun paziente la nostra "presenza" ( a questo proposito Winnicott proporrebbe l’intuizione degli "spazi silenziosi ma vivi" ). Una presenza basata essenzialmente sulla costanza e sulla continuità di tre specifiche caratteristiche, quali la testimonianza ( una presenza basata su immagini emotive del tipo: "Si, lo vedo!" Oppure: "Vengo a vedere!" ), la narrazione ( una presenza basata su di un sentimento di ricostruzione-condivisione, ma anche su di un tentativo di "dare forma" all’evento emotivo e di poterlo rivivere ) la propulsione ( una presenza basata sulla convinzione che il futuro della persona disabile possa essere di pertinenza della coppia paziente-operatore / paziente-ambiente ).

Anche nello svolgimento del "nostro" particolare lavoro ( sto parlando alla totalità degli operatori psichiatrici ), è inevitabile che prima o poi giunga il momento in cui ci troveremo da soli ( io direi meglio "in compagnia", ma devo considerare sempre l’intrinseco timore presente nell’esplorare "l’ignoto" ) con una persona disabile. Ed è altrettanto inevitabile che questa persona disabile, come qualsiasi essere umano in nostra presenza, tenterà ( verbalmente o meno ) di comunicarci qualcosa, forse per l’inalienabile diritto e bisogno di ogni vita di sentirsi condivisa, compresa e soprattutto "ricostruita narrativamente", per poter riprendere con sé il filo logico dell’ "essere" ( e dell’ "esserci" ) e del "sentirsi essere". Ecco forse spiegato il "potente" richiamo del "perché" dire al paziente, che diviene quasi una "necessità vitalizzante", la necessità di restituire un significato ad una esistenza che vuole recuperare significati. A questo punto della relazione appare perciò ineluttabile una variabile ( che per propria forza centripeta tende progressivamente ad essere sempre più una costante ) che io identificherei – intesa in un ampio alone semantico – con la "restituzione" di un "qualche cosa" al paziente e non solo nei termini di ascolto, condivisione, valorizzazione ( precedentemente affrontati ). Ci si pongono quindi innanzi i quesiti "amletici" del "cosa dire" al paziente ( o, appunto, del "cosa non dire" ) e del "quando dirlo" ( o del "quando non dirlo" ). Chi mai può saperlo ? Eh già! Chi può sapere di questi fatti ? Di certo non si può dire: "Aspetta un attimo, ne vado a parlare con i colleghi e poi torno con la risposta…"…no, questo non può essere fatto nell’ "hic et nunc" del colloquio. E allora ? E allora ci si potrebbe rivolgere innanzitutto alla più semplice delle soluzioni ( anche se dannatamente complessa ), alla più immediata e forse - io penserei – all’unica possibile, all’unica praticabile. Mi riferisco alla possibilità di rivolgerci ai nostri due colleghi più importanti ( ed anche più preparati ), e cioè al paziente medesimo ed al nostro mondo interno, entrambi visualizzabili come ambiti dinamici di sensazioni-emozioni-pensieri o, meglio, come "campi" vitali sottoposti alla tensione di "onde emotive" reciproche ( il termine di Ferro può sostituire bene tutta la complessità di terminologie quali transfert, controtransfert, identificazione proiettiva, controidentificazione proiettiva ). Per semplificare ulteriormente, direi di immaginare di essere in presenza nello scambio verbale ( e in tutti gli aspetti mimico-gestuali, posturali, di movimento ) di due onde emotive, la prima rappresentata da quella che ci proviene ( che ci viene "messa dentro" ) dal paziente, e l’altra costituita da quella che già alberga dentro di noi ( con il tempo si imparerà a distinguere a quale dei due mari appartenga l’onda emotiva creatasi dalla "tensione relazionale" tra noi ed il paziente ). È importante questo dato ? E se sì, perché è tanto importante ?

La funzione terapeutico-riabilitativa, la nostra capacità di rialfabetizzazione emotiva inizia infatti proprio dal poter rispondere alla famosa domanda bioniana del "in che cosa consiste ?", individuando perciò la natura dell’esperienza emotivamente significativa che il paziente ci sta proponendo. Parlando in altri termini, ma sempre utilizzando il linguaggio di Bion, si tratterebbe di dare un nome ad una "paura senza nome" che sempre il paziente grave ci riporta con il suo linguaggio. Per riuscire a fare tutto ciò, sarà necessario improntare una "azione" di elaborazione e di "digestione" ( la reverie materna ) dei frammenti emotivi intollerabili ed intollerati ( elementi b ) presenti nell’onda emotiva del paziente, che presupponga la restituzione degli stessi in forma depurata, comprensibile, tollerabile ( funzione a della madre ). Questi ( elementi a ) potranno essere così utilizzati come la struttura base, come i mattoni costituenti del pensiero o, per essere più precisi, dei pensieri ( onirici ) della veglia e dei pensieri onirici del sonno ( sarà anche indispensabile il formarsi di un "apparato per pensare i pensieri", che avrà bisogno di una particolare recettività e creatività del "contenitore" dei pensieri nascenti – la cosiddetta "capacità negativa" di Bion ). A questo punto avremo dato un nome alle angosce, potendo essere queste contenute all’interno della strutturazione portante del pensiero.

Con i pazienti meno gravi ( e non è il nostro caso ) l’ulteriore passo in avanti sarà rappresentato dalla "integrazione" nel senso del Sé, della diade emozione-pensiero rimossa, scissa o negata a seconda dei casi. A questo proposito, un paziente riporta la sua osservazione: "Una cosa è capire con la testa, un’altra è capire con la pancia. È come nella mia ginnastica. Prima bisogna capire come i vari segmenti corporei devono essere mossi nello spazio ( la razionalizzazione del dato emotivo - n.d.a. ). Poi, con molta pazienza, si può dare a tutti loro una fluidità, una armonizzazione globale… ma questa non si deve capire, si deve sentire, percepire ( l’esperienza razionalizzata viene integrata attraverso una ulteriore comprensione di natura più propriamente emotivo-affettiva e non più solamente di tipo cognitivo - n.d.a. )".

Ma nei pazienti più gravi – invece – come si potrà procedere affinchè una coerenza narrativa nell’emozione-pensiero possa essere ripristinata almeno parzialmente ? Qui non cerchiamo l’integrazione ( dovendo evitare "l’area traumatica" - di Correale - e rivitalizzare soltanto le zone adiacenti, circostanti l’area traumatica ): per certi versi basterebbe "solo" un rafforzamento di alcuni meccanismi di scissione o un ricollegamento dei pensieri "slegati". In questi casi infatti noi potremo constatare come l’ipotetica barca in cui sono stati posti i "nostri" pazienti nel viaggio dell’esistenza, abbia subito un vero e proprio "mutamento catastrofico" con frammentazione ( almeno così io ipotizzo ) della chiglia nella dimensione psicotica classica ed una dissoluzione, uno scioglimento della medesima nella dimensione della doppia diagnosi ( screzio psicotico e ritardo mentale ). Nel difficile processo di ricostruzione, per evitare il formarsi di un "doppio binario" ( due personaggi, due lingue differenti ) che corra il rischio di non incontrarsi mai o di una situazione di asimmetria nella coppia ( "il piano" dovrebbe essere paritetico per entrambi ) che finisca con l’aumentare ulteriormente la sofferenza nel paziente, diviene ovvia la necessità di utilizzare il linguaggio usato dal paziente ( il suo dialetto, il suo idioma: si entra nel suo mondo e non viceversa ) evitando il più possibile di essere "parlati" dai modelli teorici ( che concorrono alla nostra tranquillità ma non a quella dell’essere umano innanzi a noi ) interiorizzati lungo il corso dell’esperienza professionale (il paradossale "senza memoria e senza desiderio" di Bion ). Perché la nostra capacità di reverie possa svolgere il suo compito, sarà indispensabile per noi attingere alla nostra "capacità negativa", a quella tendenza a sviluppare e tollerare degli spazi vuoti ( il contenitore ) in cui creare e pensare i pensieri, soprattutto quelli nascenti ( del paziente e nostri ). Ciò presuppone recettività, creatività ( contenitore elastico e non rigido ), curiosità; presuppone una capacità di tollerare "la confusiva vicinanza" al paziente in cui ci si possa dire: "sono proprio curioso di vedere cosa succederà, quale storia ci inventeremo, quali pensieri insieme penseremo!" ( sempre e solo sulla base dello "spunto" fornitoci dal "teatro interno" della persona disabile ). Fondamentale sarà non illuderci che la funzione alfa del paziente ( la capacità di pensare ) sia forzabile, ovvero sia possibile spingere il paziente a pensare "cose" che subirà come azioni o elementi b , non essendo ancora in grado di pensarle; fondamentale sarà rispettare i suoi tempi ( il famoso "quando", il "timing" degli autori anglosassoni ). Quando si intuirà che il paziente possa essere abbastanza vicino alla comprensione di un determinato vissuto, allora forse quel vissuto potrà essere condiviso e riconosciuto. Paradossalmente, perciò, non solo "accettare di non capire", ma anche e soprattutto "accettare di capire e non dire" allorché il paziente sia ancora indietro rispetto a noi sul cammino della comprensione. Il tutto partendo dall’intenzionalità di creare insieme al paziente un racconto ( il modello narrativo di Lichtenberg e di Ferro per es. ) in cui i nostri interventi verbali abbiano un carattere di larga insaturità, privi insomma di attribuzioni di merito, di responsabilità, di identificazione dei personaggi all’interno del "gioco" delle parti ( l’aspetto del "bisogna capire tutto" e "tutto riempire" non esiste più ).

Riporterò due esempi clinici per chiarire meglio quanto fino ad ora descritto, sottolineando che i pensieri che più si adattano ad una rappresentazione narrativa ( più facilmente "sfruttabili" ed utilizzabili ) siano quelli costituiti da immagini visive con carattere di tridimensionalità ( gli "ologrammi affettivi" o, meglio, i "nodi sincretici narrativi" di Ferro ).

CASO 1 ) Paziente con "nucleo" melanconico in psicoterapia

La paziente, con intensa partecipazione emotiva, riporta l’immagine di un castello visto durante un recente breve viaggio in Italia. La visione del castello ha destato in lei un particolare stupore ed un sentimento di grande bellezza. Descrive un castello da poco ristrutturato molto grande, molto bello ma con il ponte levatoio "chiuso" e con fossati circostanti estesi e ricolmi di acqua e fango. Dopo il racconto, la paziente smette di parlare facendo seguire una pausa di silenzio.

Cosa restituire ? Come restituire ? Quando restituire ?

È assolutamente intuitivo capire che la rappresentazione del castello sia intimamente connessa a come la paziente intenda sé stessa, il suo mondo interno e quello relazionale. Ma la paziente sembra essere distante dalla mia immaginazione ( non consapevole né "pre-cosciente" direi io ), immersa com’era nella descrizione morfologica del castello. Un mio intervento nel senso indicato prima, potrebbe essere percepito come fortemente intrusivo ( "qualità negativa di non persecuzione, non intrusione, non decodificazione" ) o, per contro, potrebbe essere confrontato con affermazioni del genere: "Boh…se lo dice lei…" oppure "Ma cosa c’entra? Io parlavo del castello!!..". D’altra parte, pur ammettendo che questa interpretazione possa in qualche modo restituirle un certo significato, questo potrebbe essere percepito dalla paziente come un’istanza elicitante la sua l’invidia ( di cui si vergogna con grande sofferenza ), che finisce con il tormentarla ogni qualvolta ella si senta in presenza di persone che ritiene di "maggiori capacità culturali e creative". Ritengo perciò utile abbandonare le mie certezze e rivolgermi invece al racconto della paziente, al dialetto con il quale ha accompagnato la descrizione. E per seguire il filo logico della narrazione, senza sapere dove la domanda possa condurci, le chiedo se nel castello lei avesse potuto individuare anche qualche finestra aperta o qualche forma di luce provenire dall’interno delle stanze. In questo preciso momento la paziente, riprendendosi dal suo ritiro, sembra nuovamente "illuminarsi" ed inizia a spiegare di avere effettivamente visto delle finestre aperte dalle quali fuoriuscivano delle luci. Mi riporta inoltre che, di fronte alle luci, aveva anche "preso" a fantasticare di una festa in ballo all’interno delle sale del castello, "piene" di persone felici e serene ( non solamente personaggi del Sé depressi o addirittura melanconici – n.d.a. ). La sua fantasia era stata turbata dal timore di non poter entrare nel castello ( la paura di non riuscire a "guardarsi dentro" – n.d.a. ), di non partecipare a quella festa, seguita da una ulteriore preoccupazione in merito all’isolamento dei partecipanti al ballo, che non avrebbero più potuto uscire. L’unica soluzione da praticarsi, sarebbe stata quella di prosciugare i fossati in modo da eliminare acqua e fango. La seduta si stava concludendo e perciò mi limitai ad osservare che anche il ponte levatoio poteva essere abbassato, per consentire l’accesso o l’uscita dal castello stesso. La paziente si era alzata e aveva sorriso, indicandomi di sentirsi più sollevata.

La seduta successiva, senza attribuzioni di merito se non a sé stessa, la paziente inizia a parlare in questo modo: "A proposito del castello dell’altra volta…ho pensato che questo sembrerebbe essere molto simile a me…….( omissis)…" ( la paziente ora è anche maggiormente fiduciosa nelle proprie capacità creative – n.d.a. ).

CASO 2 ) Paziente con autismo e ritardo mentale in psicoterapia

Da circa venti minuti, con il paziente si sta parlando di alcune attività sportive, legate alla grande difficoltà da parte sua di comprendere come persone così giovani, possano poi sembrare "tanto grandi" nel praticare il calcio o il nuoto - per es. - ad "alti" livelli. Emerge l’intensa sofferenza del non saper distinguere a sufficienza, ciò che sia "grande" da ciò che sia "piccolo", ciò che sia "buono" da ciò che sia "cattivo", in quanto "il tutto" pare unirsi, amalgamarsi e confondersi. Anche egli stesso si "sente" grande e piccolo al medesimo tempo e questo pensiero lo preoccupa ulteriormente. Dopo pochi minuti di silenzio, ne seguono altri dieci in cui il timore prevalente sembra essere legato all’idea di non ricevere da me sufficienti "pensieri-cibo" che lo aiutino a sentirsi più grande e, forse, meno spaventato. Ma sopra ogni cosa, il paziente non "vede" come certi pensieri lo possano nutrire, quando degli altri, lo tormentino così tanto. Dopo un’ulteriore pausa di silenzio, dove il paziente si ritira nel "suo mondo" di stereotipie verbali e gestuali, all’improvviso egli si alza e guardandomi con occhi sorridenti dice: "E’ come uno scambio! È come uno scambio!…" ( poi di nuovo silenzio. Mi guarda fisso ed attende la mia risposta – n.d.a. ). Nel frattempo, io mi sono "limitato" a seguire la sua storia ed il suo dialetto ed i miei interventi sono stati diretti ad ampliare un poco alla volta il suo raggio di comprensione all’interno della narrazione, senza forzare mai nulla e lasciando sempre un certo grado di "insaturità" in riferimento all’attribuzione di identità ai vari personaggi delle storie. Anche qui, io non modifico il mio percorso "narratologico". I punti focali si potrebbero riassumere così in questo modo: a) Abbiamo parlato soprattutto di sport ed è plausibile che l’affermazione "E’ come uno scambio" si riferisca ad una dimensione sportiva b) Non abbiamo mai detto frasi del tipo "Tu sei così e così perché ti sembra che io….." lasciando in sospeso l’identità dei personaggi c) Si è parlato di come una persona possa "crescere" e "sentirsi meglio" nutrendosi con i pensieri. d) Non ho utilizzato modelli teorici durante il colloquio, anche se - ad onore del vero - la mia "restituzione" sia anche in parte legata ad un certo modello della metapsicologia. Sulla base di queste considerazioni, la "restituzione" è stata formulata nel modo seguente: "C’è un campo da tennis, con un giocatore da una parte del campo ed un altro dalla parte opposta…stanno giocando, stanno facendo degli "scambi" ( termine tennistico per definire il palleggio della pallina da parte delle racchette impugnate dai giocatori stessi – n.d.a. )…Un giocatore riceve una pallina piena di pensieri "brutti, sporchi e cattivi" ( aggettivi utilizzati in prima istanza dal paziente stesso – n.d.a. ), assorbe tutti questi pensieri e rimanda all’altra metà campo, all’altro giocatore una pallina piena di…". In questo contesto il paziente si alza ed interrompe subito le mie parole affermando con grande enfasi: "Piena di musica! Piena di musica !!…".

Per entrambi i casi, il processo di "rialfabetizzazione emotiva" sembra orientarsi progressivamente nello strutturare una funzione "rivitalizzante", "rimusicalizzante" che i pazienti all’inizio non riescono a pensare e che preferiscono affidare alla mia "capacità negativa", al mio apparato per "creare e pensare i pensieri".

Il rispetto del "dialetto" della paziente ed il contenimento accogliente, tollerante, interessato, curioso, creativo, della sua onda emotiva transferale, consentono un "movimento" controtransferale in cui gli interventi verbali o determinano l’apertura delle finestre del castello o, per lo meno, permettono alla paziente di accorgersene. E se è vero che sia sicuramente presente della "vita" all’interno delle stanze, è altrettanto vero che sia presente anche una figura, un personaggio esterno, al di fuori del castello, che riesca a scorgerla, a percepirla, che riesca a definirla "facendosi vivo" insomma.

In un fondale marino ( e per di più mosso da "correnti di turbolenza emotiva" ), dove ogni oggetto, ogni scenario, ogni forma vivente perda i suoi contorni, ne esca sfumata, sfuocata, talvolta addirittura deformata e quindi difficilmente riconoscibile, fondamentale risulterà l’utilizzo di una "maschera subacquea" ( di "materiale" controtransferale ) che faciliti, senza fretta, una visione più nitida e distinta degli avvenimenti e dei vissuti esistenziali.

BIBLIOGRAFIA

Correale A. ( 2001 ) : "Borderline. Lo sfondo psichico naturale". Edizioni Borla, Roma.

Correale A. ( 2000 ) : "Psicoanalisi e psicosi: fino a che punto indagare l’area traumatica".In : Riv. Psicoanalisi, 4.

Correale A. ( 1997 ) : "Quale psicoanalisi per le psicosi?". Raffaello Cortina Editore, Milano.

Ferro A. ( 1999 ) : "La psicoanalisi come letteratura e terapia". Raffaello Cortina Editore, Milano.

Ferro A. ( 1996 ) : "Nella stanza d’analisi. Emozioni, racconti, trasformazioni".Raffaello Cortina Editore, Milano.

Venturini L. ( 2002 ) : "Ritardo mentale e screzio psicotico: un’ipotesi psicoanalitica". In : Il vaso di Pandora. vol. X, n. 1, pp. 11-28, La Redancia edizioni, Varazze.

Venturini L.( 2004 ) : "Dal ritardo mentale alla dimensione dell’oblio: analisi di frammenti clinici". In : Il vaso di Pandora. vol. XII, n. 1, pp. 25-48, La Redancia edizioni, Varazze.

Lucio Venturini.

Via M. Sacchi 12/3,

16131 Genova.

* Psichiatra, psicoterapeuta – ANFFAS Genova

Un ringraziamento per la collaborazione alla Dr.essa Maria Teresa Guerra Coordinatore- ANFFAS Genova ed al Dr. Paolo Alessio Psicologo, Psicoterapeuta - ANFFAS Genova.

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