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Lavorare in psichiatria: cronicità o bisogno inappagabile?

di Salvatore Russo e Maria Rosa De Zordo

"A proposito, bisogna che lei mi risolva questo problema: io non riesco ad aprire gli occhi!"

Qeusta frase, detta alla fine di una visita psichiatrica di routine, quasi al congedo, mi lascia perplesso. Stavo per alzarmi e salutare il paziente e mi fermo interdetto. Non capisco. Come spesso avviene con i pazienti più gravi è Luciano che mi aiuta a capire.

Il sig. Luciano chiude gli occhi, li tiene chiusi per qualche secondo, poi li riapre in modo manierato con lievissime clonie palpebrali come facendo un grande sforzo.

"Vede non ce la faccio ad aprirli !"

Resto ancora più perplesso.

Luciano è una vecchia conoscenza del nostro Servizio Psichiatrico. Posso saperlo leggendo la vecchia cartella clinica.

Aveva iniziato a frequentare il nostro Servizio nel 1973, quando aveva 31 anni. La sua richiesta di aiuto era per "insonnia, inappetenza, agitazione".

Qui inizia la "nostra" storia psichiatrica. Quella di Luciano era cominciata molto tempo prima. C'era stata una preistoria manicomiale con un ricovero di dieci giorni in Ospedale Psichiatrico per una crisi acuta con idee a contenuto religioso e persecutorio. Ma sull'anamnesi torneremo dopo.

Dalla cartella clinica risulta che in seguito è stato trattato per degli episodi di eccitamento periodico accompagnati da abusi alcolici saltuari. Il quadro è complicato ulteriormente da una cerebropatia post-traumatica che sta alla base di una epilessia con rare crisi di tipo Grande Male, ancora presenti anche dopo un trattamento specifico anticomiziale tuttora in corso.

Nonostante la severità della patologia, Luciano era riuscito a costruirsi una buona vita di relazione, grazie anche ai periodi di benessere anche molto lunghi e grazie ad una socievolezza e simpatia che sa suscitare negli interlocutori.

Io l'avevo conosciuto dopo un lungo periodo di tempo di tranquillità per lui. Nel Servizio non si avevano più notizie di lui da oltre tre anni.

Quel giorno era arrivato, nel nostro Centro di Salute Mentale, senza appuntamento, portato quasi a forza dalla moglie spaventata e dai due figli (un ragazzo ed una ragazza di oltre vent'anni) che lo tenevano fisicamente dai due lati. Senza esitazione appena entrato aveva fatto direttamente irruzione nello "studio del Primario" dove era solitamente ricevuto dal collega che lo aveva curato in passato. Il paziente è eccitato e un po' ubriaco, non fa perciò fatica a "presentarsi" da solo. La rabbia dei parenti contro di lui è la cosa che mi colpisce di più. E' perché aveva fatto una "sceneggiata" sul posto di lavoro facendoli molto vergognare. Luciano lavora in un albergo da molti anni, dove fa il portiere di notte per la stagione estiva. Il padrone aveva chiamato i parenti perché se lo portassero a casa e là tutti li conoscono. "Che figura!".

Quella presentazione fu un po' burrascosa, volarono parole pesanti, ammetteva l'esistenza dei precedenti ricoveri ma non aveva alcuna voglia ora di riconoscersi malato. Cercava i medici che lo avevano curato negli anni passati ma che non c'erano più. Perché doveva fidarsi di me che non capivo niente e davo ragione ai suoi familiari?

Un ricovero "volontario" nel nostro Servizio di Diagnosi e Cura con diagnosi di "Crisi di eccitamento maniacale in epilettico" era stata la ovvia conclusione di quel nostro primo approccio. Una crisi di Grande Male durante il ricovero: ci aveva indotto a rifare tutti i controlli neurologici, elettroencefalografici e radiologici del caso. Veniva comunque dimesso dopo solo sei giorni di degenza con la terapia anticomiziale reimpostata e un trattamento neurolettico di mantenimento. La crisi di eccitamento era durata poco, l'ambiente ospedaliero aveva funzionato da un contenitore, tollerante ma non troppo delle sue espansive "esuberanze".

Il lavoro in albergo sembrava perso a metà stagione. Pazienza! I suoi familiari si erano ca lmati. Era stata una crisi della "malattia".

La vita si era normalizzata. La moglie era tornata come al solito nuovamente brontolona con lui perché andava sempre al bar a giocare a carte con gli amici, e giocava a soldi! Lui però sosteneva che vinceva molto spesso e che portava anche del denaro a casa.

Poi c'era il fumo, motivo di continui litigi: Luciano fumava - come i ragazzini - di nascosto, perché la moglie non glielo consentiva dopo la proibizione assoluta da parte dei cardiologi. Infatti Luciano aveva avuto fra l'altro qualche anno fa un infarto del miocardio con relativo ricovero in Unità Coronarica.

I figli erano tornati come prima della crisi: affettuosi e premurosi verso di lui, forse anche un po' troppo protettivi. Il figlio l'aveva sostituito all'albergo durante il ricovero, salvandogli così il posto di lavoro.

Tutto si era insomma normalizzato.

Luciano era riuscito a suscitare in me simpatia proprio per alcuni suoi aspetti gaglioffeschi ma vitali. Una certa complicità mi aveva consentito di capirlo di più e di ottenere da lui in breve tempo significative modificazioni comportamentali. Si era lasciato mettere in riga, ma avevo potuto farlo solo a quattr'occhi, salvandogli la faccia anche nei confronti della moglie che pareva esasperata.

Gli erano state imposte da subito, pur nell'acuzie, dagli operatori della nostra équipe delle regole di comportamento sociale che limitassero la sua "caratterialità" e che definissero una chiarezza e lealtà necessarie in ogni relazione umana, prima che terapeutica. Ciò era avvenuto grazie anche al breve ma significativo ricovero.

In questi casi è determinante l'atmosfera, lo stile di lavoro, il senso di appartenenza, la sintonia, la sapiente complementarietà dei diversi operatori dell'équipe psichiatrica, che solo nel rispetto reciproco personale e professionale possono integrarsi armoniosamente costituendo una sorta di "gruppo-modello" di riferimento e di contenimento per il paziente eccitato, confuso e drammaticamente affaccendato. I tempi per esempio con cui un' èquipe si muove nella quotidianità non possono essere solo organizzativi per un'operatività attiva ed efficace in senso aziendale, ma devono essere anche attenti e rispettosi dei tempi interni del paziente. (Correale, 1991; Boccanegra e Russo, 1999)

Questo ascolto attento del tempo interno del paziente significa anche contatto con il proprio tempo interno per non rischiare di farsi troppo coinvolgere o travolgere dal paziente o dalle persone (parenti, vicini, operatori ecc.) che gli stanno intorno. Farsi travolgere poteva essere facilissimo con Luciano che si presentava nell'acuzie come un vulcano in eruzione.

E' la dimensione psicoanalitica che ci ha consentito di scoprire l'influsso determinante nel lavoro psichiatrico dei tempi interni dei singoli operatori. Tempi che tra loro si sommano, si potenziano, ma possono anche integrarsi se c'è una buona esperienza di lavoro di gruppo con momenti dialettici di confronto sull'operare comune (Russo, 1997) .

Il tempo dell'operatività di una équipe curante, se armoniosamente organizzato, come integrazione con il tempo vissuto insieme nell'esperienza di gruppo al lavoro, può sostenere il confronto-scontro con l'incalzare dei tempi esterni e interni del paziente, del suo entourage familiare e sociale. Esiste così una sorta di tempo dell'équipe di lavoro che ritma il progetto di trattamento del paziente, consentendo una specie di nuova ossigenazione mentale contro la dispnea asfittica dell'eccitamento maniacale. Tutto ciò è stato possibile anche nella famiglia solo in un secondo momento. Doveva prima essere trattato Luciano: in una situazione del genere le tecniche ispirate alla sistemica della famiglia sarebbero risultate disastrose.

Dopo la dimissione Luciano era venuto puntualmente ai controlli ambulatoriali, attualmente mensili. Accettava non senza ironia il suo ruolo di malato "guarito", ma da controllare. Anche il controllore veniva preso un po' con ironia: Luciano aveva due orologi alla stessa ora, uno per polso. Quando scherzavo su questo lui mi coinvolgeva nel gioco: doveva controllare i miei ritardi ai nostri appuntamenti, purtroppo più frequenti delle mie intenzioni.

Questo breve resoconto clinico per ritornare a Luciano con il suo problema degli occhi. Questi elementi mi servono per poter pensare a lui da psichiatra esperto e coscienzioso. Nella mia mente mi domando: cosa diavolo può avere?

Ecco il primo livello del mio discorso. E' un cerebropatico, ora non beve più ma non ne sono molto sicuro, assume la terapia ma può anche darsi che non sia sempre così scrupoloso e preciso. Nella mia mente mi domando cosa diavolo abbiano i suoi occhi. Cosa ci sia dietro le fini clonie palpebrali che si accompagnavano al forzato movimento di apertura degli occhi. Certo tutto ciò era riconducibile a qualcosa di organico... qualche strana sindrome collegabile alla cerebropatia di base?

Per orientarsi nelle situazioni cliniche più complesse è necessario attingere ai dati anamnestici noti per cercare di ricostruire la storia del paziente.

Le note anamnestiche raccolte all'epoca della presa in carico iniziale parlano di un padre morto settantenne un anno prima per un tumore cerebrale. Nell'anamnesi fisiologica sembra tutto regolare: parto eutocico, allattamento materno, sviluppo psicofisico nella norma. Non ha fatto il servizio di leva per l'epilessia insorta in età preadolescenziale. E' sposato e ha due figli: un maschio ed una femmina, allora piccoli bambini. Lavorava come autista e per la "stagione" in albergo.

L'attenzione all'anamnesi, così essenziale in medicina e ancor più in psichiatria, ha assunto un nuovo valore in psichiatria alla luce dell'esperienza analitica. Si tratta di andare oltre la conoscenza dei dati storici della vita personale e/o patologica del paziente, alla ricerca del senso degli eventi grazie al particolare ascolto analitico del mondo interno. Emerge così il vissuto e la ricostruzione, più o meno mitica, che ciascuno va raccontandosi su sé stesso e la propria realtà esistenziale. Ciò è complesso perché riguarda un doppio ascolto: del paziente, ma anche dell'operatore che resta comunque in grado di "sentire" il paziente e la sua storia vissuta solo "sentendo" se stesso e la propria storia vissuta.

Ma torniamo al livello schiettamente psichiatrico dell'incontro attuale con Luciano. C'è un aspetto istrionico nel modo di mostrarmi il sintomo: in psichiatria si è a lungo disquisito sull'esistenza dell'"istero-epilessia".

"Bisogna che lei mi risolva questo problema: non riesco ad aprire gli occhi!" ripete come con un sorriso ironico sulle labbra.

Il sorriso del paziente mi cattura e distrae insieme: mi sembra che stia giocando. Quando un bambino chiude gli occhi pensa che il mondo intorno non lo veda più oppure è il mondo che non esiste più: ma può essere un gioco pericoloso. E se il paziente mi prendesse in giro? Che medicina mi darà adesso? Ci sono già i farmaci per il cuore, cerotto compreso, ci sono i barbiturici anticomiziali, un blando neurolettico. Cosa altro gli farò prendere?

Mi viene in mente un episodio nella vita di Luciano che pare come un brutto sogno. Per mantenere il vissuto di separatezza di questo momento di crisi darò voce alla Legge leggendo letteralmente la relazione medico-legale sull'accaduto. (Sarà proprio la perizia psichiatrica che salverà il paziente dal Manicomio Giudiziario).

"Il giorno... 1979 verso le 19 il Parroco di X, don G, richiedeva l'intervento dei Carabinieri, perché una persona stava danneggiando con un piccone una tomba del cimitero. I militari rintracciavano l'imputato Luciano Y unitamente ai due figli piangenti nei pressi della chiesa parrocchiale.

Le persone antistanti riferivano che quello era proprio la persona che aveva danneggiato la tomba in cimitero e che poco prima aveva interrotto una funzione religiosa celebrata dal Reverendo don G.

Dagli accertamenti in merito esperiti, risultò che il Y era partito dalla sua abitazione verso le 16.30 su una vettura di sua proprietà assieme ai due figli e da lì si era diretto verso il paese di X. Dopo essersi fatto prestare un piccone da una famiglia raggiungeva il cimitero, staccava la lapide dalla tomba del padre, deceduto il... 1972, intaccando con i colpi la cassa e scoprendo i resti dei piedi del cadavere. Fatto questo alla presenza dei figli piangenti, abbandonava il piccone e raggiungeva la chiesa. Qui era in corso la celebrazione di una Messa. Avvicinatosi all'altare, dopo essersi accesa ad un cero una sigaretta, mangiava l'ostia consacrata proferendo parole sconnesse ed incomprensibili.

Stante lo stato di alterazione psichica e la illogicità dei ragionamenti del Y Luciano, il medesimo veniva accompagnato presso il locale Pronto Soccorso dell'Ospedale ove il Sanitario, sentito quello di Salute Mentale, provvedeva al ricovero, accettato dal paziente per ‘stato confusionale' ".

Cosa è accaduto? Ci sono cento possibili risposte psichiatriche: "Crisi oniroide in epilettico", "Episodio confusionale su base organica", "Crisi psicotica acuta", "Episodio di eccitamento in paziente cerebropatico", "Episodio distimico", "Equivalente epilettico", "Impulso in caratteropatia epilettica", ecc., ecc.

Da una attenta osservazione solo molto tempo dopo il paziente descriverà la sua crisi psicotica su base allucinatoria forse in modo più verosimile.

Le parole del paziente tra virgolette sono riferite dallo psichiatra che l'aveva in cura allora, temo però che solo in parte corrispondano ai problemi di Luciano, in parte siano cose che Luciano ha dato da bere al collega, perché non le dà da bere solo a me. In parte sono cose che il collega immaginava, pensava o viveva nei confronti di Luciano o semplicemente sono cose che riguardavano sé stesso, forse senza averne coscienza.

"Me ne stavo seduto presso il giardino vicino a casa in quel pomeriggio, quando sono rimasto scosso dai movimenti di una lucertola che si arrampicava su un muro. Improvvisamente ho incominciato a intravedere la lucertola arrampicantesi come fosse in mezzo alle gambe di una donna (la donna sembrava... sì forse era mia moglie... ma non ricordo...) fino ad arrivare dentro l'utero. L'utero manda fuori uova, uova, uova che man mano che uscivano, cadevano e si tramutavano in maschi e femmine. Mi sentivo come onnipotente tanto da sentire la voce di mio padre morto quattro anni orsono che mi chiamava... era ancora vivo e mi chiedeva che lo liberassi. Pertanto siccome ero potente, mi sono recato in cimitero con i figli e lì è successo quello che sa."

A questo punto c'è il secondo livello che senza escludere i precedenti mi fa chiudere gli occhi. Chiudere gli occhi vuol dire dormire o morire. C'è un modo altalenante di essere nella realtà e di estraniarsi, di intervenire attivamente o di fermarsi a sognare.

La psicoanalisi introduce questo incantesimo che è il sogno, l'immersione nel mondo interno degli affetti, atemporale e magico. Anch'io se chiudessi gli occhi farei fatica a riaprirli. C'è questo dialettico rapporto tra un pensare razionale, logico, "scientifico", che è l'ottica medica, neurologica, psichiatrica e un modo fantastico di sentirsi, lasciandosi invadere dalle fantasie e gli affetti che l'altro sollecita e suscita in noi.

In psichiatria saremmo chiamati a rispondere con diagnosi precise, terapie attive ed efficaci, in tempi aziendali. "Avanti un altro!". Chi si ferma è perduto!

Ma anche nella psichiatria decentemente praticata, se ci si ferma un momento ci può apparire un mondo strano e bizzarro. E' una tragica girandola di tragedie umane o disumane, di esistenze mancate, di destini tremendi, senza senso, senza scopo, senza speranza.

L'unica è abbracciare una fede. I recettori della felicità o un'etica socialmente impegnata sono delle onorevoli soluzioni: ci si salva la professionalità e la professione, la società è contenta della delega che ci dà. I sani di mente non corrono rischi e possono stare tranquilli e contenti.

In realtà la psicoanalisi introduce un elemento di incertezza e inquietudine. Nell'inconscio la morte non esiste, il tempo non esiste. Pensate se il padre fosse davvero vivo! Finché lo sogno è un piacevole ricordo nostalgico, può essere condiviso in un movimento estetico-poetico. Ma se per un attimo, solo per un attimo, sentissi che è veramente vivo devo correre subito a liberarlo dall'angusto gelo della sua tomba. Anzi mi spiace che me ne sono accorto solo tanti anni dopo... se lui mi avesse chiamato prima! La terribile presenza dei bambini, angosciati testimoni della scena, ha il senso di mostrare anche a loro questo prodigio di resuscitare un morto, affermando la supremazia della vita sulla morte.

Questa ottica, quella analitica, significa dunque che anche io devo chiudere gli occhi.

Mentre mi lascio andare ai miei ricordi e alle mie emozioni mi viene in mente Fosca.

Pochi giorni fa, durante una seduta analitica, Fosca mi ricordava che oggi è l'anniversario della morte di suo padre. La morte risale ad alcuni anni fa, prima dell'inizio della psicoanalisi in corso. Poi parla di altro e più tardi si sofferma a descrivere la scena bellissima di un sole rosso che stava tramontando sulla laguna veneziana mentre lei veniva alla seduta di oggi. Il colore era così intenso e forte che era rimasta come affascinata, i suoi occhi non riuscivano a chiudersi. Guardava il sole che solo perché era al tramonto non la feriva.

Poi una grande commozione l'ha invasa, le è venuto da pensare che, quando sarà morta, non potrà più vedere un tramonto così.

E' visibilmente commossa, piange. Poi dice: "Ma anche se fossi cieca lo stesso non vedrei questo sole!".

Fosca ci dà una soluzione intermedia tra la vita del sole e la morte delle tenebre. Si possono chiudere gli occhi e restare vivi. Essere ciechi, cioè chiudere gli occhi, non ci fa veder il sole che tramonta, il padre che muore, e però ci salva la vita. L'identificazione con il padre morto può infatti farci morire per essere come lui, per essere lui. Sarebbe come se Luciano, come alternativa a tirare fuori il padre dalla tomba, avesse quella di entrare lui nella tomba del padre morto, morendo lui stesso. Chiudere gli occhi allora può invece consentire di non vedere il sole ma di restare vivi.

Essere ciechi ha del resto molte risonanze nel nostro mondo mitologico, per Luciano però c'è qualcosa di assai più primitivo e arcaico. Gli psicoanalisti parlano di situazione pre-edipica.

Essere psicoanalista può inoltre allontanarmi spesso dal mondo "realistico" della Legge che si domanda e ci domanda cosa realmente sia avvenuto. In questo la Legge e la Psichiatria possono trovare un accordo in un esame di realtà iperrealistico, ma purtroppo per lo più falso perché presume di essere "oggettivo".

Dunque anche io chiudo gli occhi e - mentre li ho ancora chiusi - Luciano mi dice con un guizzo negli occhi: "Non mi dà niente? (intendendo il farmaco). Me lo devo tenere, vero?". E si alza lui congedandomi.

La capacità di vivere nell'alternanza tra attivo e passivo, tra la vita e la morte, che è in me così presente in questo momento, sembra emergere anche in Luciano. Sta acquisendo nella relazione con me una nuova capacità di comprensione anche dell'esperienza personale di sentirsi morire da vivi. Proprio come ha sperimentato subendo per anni delle crisi epilettiche così familiari e incomprensibili per il paziente.

Certo Luciano resta un epilettico, uno psicotico, un po' canagliesco, anche se simpatico. Ma chiudere gli occhi (come ha spesso fatto nelle crisi di Grande Male) non lo spaventa più, anzi è una buona alternativa.

Chiudendo gli occhi non deve più disseppellire il padre perché può sognarlo in un modo diverso dallo stato oniroide epilettico.

Ad occhi chiusi può anche immaginare che il padre sia accanto a lui e in seguito forse riuscirà a sentirlo di più dentro di sé.

Questi occhi chiusi allora sono per me un evento augurale per Luciano: che possa finalmente sognare un po' senza che ciò sia follia!

Di lei la suocera dice: "Fate qualcosa voi, perché questa donna vuole morire".

Questa donna si chiama Jole, ha superato la quarantina e ormai da qualche anno è in cura presso il nostro Servizio Psichiatrico. Il disturbo più evidente è il comportamento alcoolico che a periodi diventa così compellente e autodistruttivo da mettere appunto in serio pericolo non solo la sua salute, ma la vita stessa.

Jole partecipa con una certa regolarità ad un gruppo terapeutico, non parla quasi mai, l'espressione per lo più amimica si anima a tratti di una intensa sofferenza che non comunica, lontana come appare dall'incontro con gli altri, abitante di un suo mondo personale in cui sembra impossibile raggiungerla.

Ha perso anni fa due piccoli figli in un incidente automobilistico, alla guida di un'automobile travolta da un camionista che non aveva rispettato lo stop. Chi l'ha conosciuta in quella occasione racconta la scena straziante di lei che non voleva lasciarsi strappare dalle braccia i due piccoli bambini periti nel disastro. Di cui non ha responsabilità di fronte alla legge, ma di cui si sente colpevole e forse indirettamente qualcuno l'ha anche accusata.

A quell'evento la vita di Jole si è fermata.

Quando la guardo nel gruppo, sembra una statua, ma una statua di cui l'artista non abbia voluto tratteggiare il volto, perché è come se la faccia non ci fosse.

Nel mito greco si racconta che Niobe, privata dei figli, piangesse così disperata che gli dei ne ebbero pietà e la trasformarono in statua, ma anche così essa continuava a piangere.

"Senza più nessuno, si sedette tra i cadaveri dei figli, delle figlie, del marito, e s'irrigidì per il dolore. Non un capello si muove nell'aria, sul volto ha un pallore mortale, gli occhi stanno sbarrati sulle guance tristi; nulla di vivo c'è nella sua figura. Perfino la lingua - anche quella - le si congela dentro col palato indurito, e le vene perdono la capacità di pulsare. Il collo non può più piegarsi, e le braccia non rispondono più, il piede non può più camminare. Anche tra i visceri tutto è pietra. Piange, però, e avvolta da impetuoso turbine di vento è trasportata via, nella sua terra natale. Lì, confitta nelle cime di un monte, si strugge e ancor oggi dal marmo trasudano lacrime " (Ovidio, Metamorfosi, VI, 301-312).

Se la sofferenza è intollerabile, forse la morte può apparire una soluzione o per lo meno si può cercare di stordirsi fino al punto di non sentire più niente.

Ma la vicenda di Jole è probabilmente più complessa.

Di lei sappiamo che ha avuto un'infanzia misera e che il suo periodo più sereno lo ha vissuto presso un sanatorio gestito da suore dove lei, apprese alcune tecniche infermieristiche, lavorava come infermiera, ospite dello stesso sanatorio, come allora si usava, e dove forse essa stessa si era sentita accolta e accudita, mentre accudiva ai suoi malati.

Un tragico destino non ha permesso a Jole di essere anche una madre accogliente e accudiente ed ora non vuole più vivere.

Gli operatori sono in difficoltà con questa paziente, sono anche arrabbiati con lei, da lungo tempo se ne stanno occupando e il suo progetto mortifero annulla tanti sforzi e il lungo impegno. Potrebbero condividere il suo lutto, se partecipasse agli altri il suo dolore, ma come si può tollerare che voglia morire? La proposta è irridente e irriverente.

La collega psichiatra che la segue ed è persona attenta e sensibile, si sente scoraggiata, ma essa stessa irritata, avverte in questa situazione qualcosa di perverso, che non consente di lavorare.

In famiglia le cose non vanno meglio. Ambiguamente il marito lamenta una situazione impossibile, ma copre le bevute, partecipe talora di queste ubriacature. La suocera, che esprime un affetto sollecito per la nuora e cerca di offrire un aiuto in casa, viene squalificata ed il suo lavoro è vanificato.

E così Jole si mostra nella sua versione peggiore, crea il vuoto intorno a sé, non può e non vuole essere consolata. D'altronde appare arduo accostare chi dal dolore non è nobilitato, ma si degrada ignominiosamente.

Personalmente sono molto colpita dall'intensità della tragica scelta di Jole, dall'affermazione della suocera: "Questa donna vuole morire", come se in qualche modo vi fosse contenuto un messaggio che va accolto, ma mi trovo anche a riflettere sui sentimenti della collega, che ha scelto una professione di aiuto agli altri e non può certo colludere con progetti di morte.

Mi viene in mente che Niobe aveva visto i suoi figli orrendamente colpiti dalle frecce di Artemide e Apollo, poiché si era vantata con la loro madre della sua prolificità ben superiore a quella della dea, e l'invidiosa vendetta era stata terribile.

Continua Ovidio: "Davvero allora, dopo questa prova, tutti, uomini e donne, temono l'ira divina e tutti con ancor più zelo venerano e onorano la potente dea madre dei due gemelli" (ibid., 313-315).

Nei miti, come ben sappiamo, sono talvolta contenute delle profonde verità umane. Ci si può allora chiedere cosa è successo nella mente sconvolta di Jole, che voleva essere una brava infermiera, una buona madre, ma forse per riparare i buchi della propria storia doveva essere una madre perfetta, secondo un ideale tanto irraggiungibile quanto crudele, e non ce l'ha fatta; ci si può chiedere se la punizione vera sia l'angoscia di adesso per non aver salvato i figli, o se la loro stessa tragica morte, per una momentanea imperizia umana, non sia sentita come un castigo terribile, secondo un tremendo codice di vendetta primitivo, per aver osato troppo, e allora l'esito è una degradazione di sé senza speranza di riscatto.

Ma se così fosse, può questa donna permettere ad un'altra donna, la sua psichiatra, di curarla, di guarirla, di essere quella brava psichiatra/madre perfetta che non ha avuto e che neppure lei ha potuto diventare? Non diventa forse inevitabile che anche la terapeuta debba essere degradata, costretta a fallire, per poter condividere, prima ancora del dolore per la perdita, l'umiliante smacco del fallimento e l'atrocità della condanna? E dal punto di vista del terapeuta, come si può fallire per cercare paradossalmente di avvicinarsi a questa persona?

Si può anche ipotizzare che, se non ci si può rispecchiare l'un l'altro in una sorta di perfezione assoluta, tutto si spenga e non valga più la pena di vivere. Il guaio è che questa aspirazione ideale è in sè mortifera e senza vita.

Sul versante terapeutico da queste situazioni di impasse si rischia di non poter uscire, di aumentare lo stesso impasse, in una sorta di escalation in cui alla volontà di morte, o di far morire la relazione terapeutica, si contrappone un progetto curativo che finisce con l'essere una inutile dedizione sacrificale o malauguratamente un accanimento sull'altro. Credo sia questa la sensazione di perversione che la collega avverte nella vicenda con la sua paziente.

Nell'area delle situazioni impossibili, mi viene in mente una paziente infanticida che aveva ucciso i figli perché non rispondevano ad un suo ideale di perfezione, profondamente ferita dentro di sé perché i figli con i loro guai, purtroppo anche reali, l'avevano troppo dolorosamente delusa.

Con me cercava una relazione terapeutica idealizzata, di nutrimento perfetto, senza macchie, catturante e insieme paralizzante, perché ogni inevitabile imperfezione/frustrazione avrebbe rischiato di svilire e degradare il nostro rapporto. E la tenerezza, che la fragilità di questa persona mi sollecitava, si frantumava di fronte alla richiesta di qualcosa d'altro irraggiungibile e impossibile.

Oppure ricordo la paziente che non ha mai conosciuto la madre, che arrivata a me dopo aver dovuto rinunciare ad una precedente terapeuta, troppo spaventata di perdere anche me, decide che io vado così bene per lei che starà sempre con me e io starò sempre con lei; anzi, poiché per età potrei esserle madre, potrei abitare con lei. E a dare maggior vigore al suo progetto mi porta le chiavi di casa, irriducibile nella convinzione della coppia perfetta che potremmo insieme vivere.

E mi viene ancora in mente il brillante giovane ingegnere che si è laureato con il massimo dei voti, è sempre stato il primo della classe, ma non ha una ragione per vivere, e con il logico rigore dei ragionamenti informatici che conosce così bene, usati a pervertire i valori, mi dimostra che nei mondi virtuali delle sue creazioni avveniristiche vita e morte coincidono.

Mi descrive la compulsione a gettarsi nel vuoto dal viadotto dell'autostrada, dove almeno una volta si è recato con tale intenzione, e verrà poi a sapere che effettivamente, poco più avanti, all'incirca alla stessa ora, una donna si è suicidata precipitando nel burrone.

E mentre mi racconta apparentemente senza emozioni tutto ciò, cercando di dimostrare a se stesso e a me che darsi la morte ha dunque una ineluttabile logica, io mi trovo ad osservare il maglione che indossa su cui è ricamato una specie di viadotto, ma poi guardo meglio e mi accorgo che è piuttosto la curva di una pista sciistica e vicino è disegnato un piccolo sciatore che ha tutta l'aria di potersi divertire. E' un disegno per bambini, di un giornalino a fumetti.

Ma allora come raggiungere il bambino disperato che fa discorsi troppo grandi per lui e in queste logiche dei grandi rischia di perdersi, senza aver mai provato il piacere della vita?

Perché il problema che a me appare è se e come si può raggiungere un un bambino imprigionato, un desiderio di vita imprigionato, quando ci si confronta con queste situazioni che appaiono così frustranti perché ciò che il paziente vuole rimanda a qualcosa che esiste in un altro tempo o in un altro spazio. E' un po' la sensazione che provo di fronte alle statue di Fidia o ai quadri di Velasquez, di una bellezza perfetta e sublime, che certamente dà un godimento estetico intenso, dove lo sguardo dei volti raffigurati è rivolto a qualcosa che oltrepassa l'osservatore, allusivo di un altro mondo che non è di questo mondo. Ma la vita è un'altra cosa, e se il piacere estetico non si vitalizza delle esperienze e le vivifica, tutto rischia di apparire svilito, e il desiderio invece che alimentare la vita, la mortifica.

Le situazioni cliniche descritte, apparentemente diverse, ruotano intorno al problema: che senso può avere lavorare in psichiatria?

Che cosa ci spinge a confrontarci quotidianamente con la frustrazione di fronte all'impotenza operativa in situazioni cliniche gravi e drammatiche?

Gli autori del libro che ha suggerito il titolo per questa comunicazione sottolineano il rischio che il vissuto di impotenza degli operatori rimandi alla mente del paziente elementi vanificanti che lo svuotano e squalificano, perpetuando il difetto di base, e ripropongono l'ineludibile problema di formazione al compito, freudianamente impossibile ma necessario, di curare (Pazzagli e Rossi, 1991).

Ma il fascino di un mestiere impossibile rischia di imbrigliare nella seduzione catturante e paralizzante della stessa malattia mentale, come in un gioco di specchi che si rimandano sempre la stessa immagine.

E d'altro canto il tentativo di comprendere attraverso la nostra mente la sofferenza umana si scontra con lo stesso strumento del pensare. La nostra ragione sa inventare modelli di comprensione che non riescono a prescindere da un esame di realtà oggettivante, lo stesso esame della mente allora viene inserito in catalogazioni psicopatologiche con sempre nuovi "assi" di riferimento nell'inutile tentativo di prendere distanza da emozioni troppo intense e "contagianti" senza che si abbia la possibilità di accorgersi del contagio in tempo reale. Quando poi il contagio è già avvenuto, può capitare che sia troppo tardi per tornare indietro. La malattia mentale del paziente si può trasmettere all'operatore come potenziale distruttivo.

Nell'istituzione psichiatrica il contagio è massiccio. E il rischio, per non ammalarsi, è di ricorrere ad un apparato difensivo massiccio che allontana e respinge.

Come analisti siamo abituati a cercare un senso nel dialogo coi nostri pazienti. Siamo abituati nel nostro studio alla relazione che si fonda sull'affidarsi e sul prendersi cura, che "origina nella traccia incancellabile di una asimmetria originaria che pone l'essere umano nella necessità vitale di rivolgersi non solo verso un oggetto che ne soddisfi i bisogni, ma anche verso un interlocutore che gli parli e che sia in grado di pronunciare il "nome" di questi bisogni come loro trasformazione psichica in parole di un linguaggio affettivo e relazionale" (Giaconia et al.,1997).

Dalla nostra esperienza analitica abbiamo appreso a non aver paura del contagio, a lasciarci un poco contagiare per entrare in contatto coi nostri pazienti, secondo la metafora della "vaccinazione", che ci permette di sviluppare quella quantità di anticorpi necessaria e sufficiente ad accostare l'inquietante estraneità dei nostri pazienti, perché la loro comunicazione profonda possa risuonare dentro di noi dandoci la possibilità di metterci a tono sulla stessa lunghezza d'onda, con l'ausilio del nostro mondo interno e delle nostre fantasie (Giaconia e Pellizzari, 1998)

La sfida nasce quando l'analista è sollecitato ad uscire in una situazione diversa se vuole raggiungere quei pazienti che non riescono ad arrivare alla sua stanza, per contribuire ad una psichiatria più improntata alla relazione curativa, capace di accogliere e comprendere, di conferire appunto un senso dove regna il non-senso, per la parola e la narrazione al posto del silenzio, pur coesistendo dubbio, confusione, vuoto, violenza.

Non è nè facile nè sempre possibile. Si può provare a verificare se la capacità analitica di ascolto, se la condivisione in équipe delle molteplici esperienze di relazione coi pazienti gravi possono costituire una sorta di "vaccinazione di gruppo" sui due versanti, la problematicità del paziente, la propria frustrazione terapeutica. Così da possedere, anche in queste situazioni, come invitava Winnicott, "la capacità di identificarsi col paziente senza perdere la propria identità; poter tenere sotto controllo i conflitti dei pazienti... e poi attendere che sia il paziente stesso a risolverli, invece di cercare ansiosamente come guarirlo, non... reagire alle provocazioni. Inoltre, ogni modo di pensare che offra una facile soluzione è di per sé controindicato" (1971, 10).

Spesso coi pazienti gravi queste sono indicazioni di principio non sempre attuabili. Ma una blanda vaccinazione può acconsentire di accostare i pazienti ricreando un poco l'atmosfera di gioco che animava Winnicott coi suoi bambini, quando lo scarabocchio tra di loro diventava a poco a poco forma, comunicazione, parola, nell'apprendimento reciproco a fidarsi ed affidarsi: "una certa capacità di credere di trovare aiuto e di avere fede nella persona che offre aiuto" da parte del paziente, disponibilità a "imparare" dall'altro da parte del terapeuta (Winnicott, 1964-1968, 299-300).

Lo scarabocchio in quanto tale non esita sempre in un bel disegno, nè tanto meno in un'opera d'arte, spesso resta solo una macchia, ma contiene in sé una potenzialità ludica e trasformativa. Ci si mette in gioco da ambo le parti, si condivide la propria area ludica con quella dell'altro, si crea lo spazio perché la confusione caotica prenda forma e l'altro ci racconti la sua storia, ci lasci entrare in essa, così da costruire o ritrovare rappresentazioni narrative più fruibili per l'esistenza.

Al conseguimento della possibilità di sognare, cui si confidava nella prima parte di questo lavoro, si potrebbe aggiungere quella di giocare, entrambe espressione di quell'area intermedia, transizionale, che consenta un incontro creativo con l'altro.

"Ho trovato due vecchi quadri nella soffitta di casa mia" racconta un giovane paziente seguito da anni con molteplici interventi coordinati di più operatori e con una storia originaria di grave deprivazioni "li ho ripuliti e appesi nella mia camera che adesso ha proprio un aspetto diverso, più accogliente e mi rasserena". "Che cosa rappresentano?" "Un bimbo piccolo col suo orsacchiotto, una mamma col suo bambino in braccio".

Anche noi conserviamo qualche quadro, frutto di questo lavoro, nelle nostre stanze mentali.

 

BIBLIOGRAFIA

Boccanegra L., Russo S. (1999), Dai gesti della quotidianità al pensiero. In: Berti Ceroni G., Correale A. (a cura di), Psicoanalisi e Psichiatria, Cortina Editore, Milano.

Correale A. (1991), Il campo istituzionale, Borla, Roma.

Gaiconia G., Pellizzari G., Rossi P. (1997), Nuovi fondamenti per la tecnica psicoanalitica, Borla, Roma.

Giaconia G., Pellizzari G. (1998), Relazione presentata al Centro Veneto di Psicoanalisi, (non pubblicata).

Russo S. (1997), Il lavoro psichiatrico d'équipe: alla ricerca di uno spazio di pensiero per le patologie gravi. In: Correale A., Rinaldi L. (a cura di), Quale psicoanalisi per le psicosi?, Cortina Editore, Milano.

Winnicott D. W. (1968), Il gioco dello scarabocchio. Trad. ital. in: Esplorazioni psicoanalitiche, Cortina editore, Milano.

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